categoria: Vicolo corto
Lavoro e capitale: fin dall’antichità una storia di pena e potere
Marlon Brando, intervistato a proposito de Il padrino, disse che “la mafia è il migliore esempio di capitalismo che abbiamo”. La definizione, quantunque arguta e, per certi aspetti o per alcuni, irritante, è indubbiamente eversiva e metamarxiana. Marx, in effetti, fu uno dei primi a teorizzare e condannare il cosiddetto sfruttamento della forza-lavoro quale conseguenza del dominio del capitale. Nello stesso tempo, tuttavia, non si possono negare almeno due vantaggi essenziali legati alla dottrina economico-sociale su cui, da circa due secoli ormai, si reggono le sorti del mondo occidentale: un reddito pro capite medio-alto o, comunque, più alto che nei paesi dove s’è adottato il modello marxista-leninista, l’accesso a beni d’ogni genere e specie, il cui uso, altrove, un tempo, era vietato e, in particolare, la riduzione del prezzi di questi stessi beni grazie alla catena globale di valore, cui anche la Cina e la grande Russia, com’è noto, si sono piegate. Insomma, pur forzando un po’ la massima, possiamo affermare: il no al capitalismo equivale a un no allo smartphone per tutti! Questa filosofia appare elementare, ma è per lo meno realistica: genuinamente realistica.
In genere, si è indotti a credere che il valore d’uso del sostantivo capitale sia di recente acquisizione, come se da Marx in poi si fosse istituita una dimensione linguistica, sociologica ed economica senza precedenti. Certo, nessuno vuole togliere a Marx, prima, e Max Weber e Joseph Schumpeter, dopo, il primato in materia di studi sul capitalismo, tuttavia è appena il caso di ricordare che già Tito Livio, nella Storia di Roma dalla sua fondazione, ricorre a căput nell’accezione di patrimonio in denaro.
(…) De capite deducite quod usuris pernumeratum est (…) [Defalcate dal capitale quanto è stato pagato per gli interessi (…) (Tito Livio, Ab urbe condita libri, L. VI, 15, 10, a cura di M. Scandola e C. Moreschini, 1994, Storia di Roma dalla sua fondazione, Fabbri, Milano, pp. 180-181)]
Se citiamo Tito Livio, ci riferiamo al latino classico, cioè a un’epoca della letteratura che, oggi, può essere percepita come lontanissima. Di conseguenza, non è difficile immaginare, per così dire, la fortuna di questo sostantivo. Sicuramente, bisogna attendere l’affermazione del tardo-latino căpĭtālis e del volgare capitale perché la semantica di riferimento si strutturi appieno, ma l’occorrenza classica costituisce una testimonianza preziosa.
Capitale, dunque, deriva dal latino tardo căpĭtālis, aggettivo che significa importante, principale, addirittura mortale, ma anche e soprattutto relativo al capo, come sostengono diversi studiosi (NOCENTINI, 2010; CORTELAZZO, 1999; DEVOTO, 1968), mentre căpĭtālis si forma proprio da căput, capo, persona, vita, estremità, origine. La ricchezza del lemma non tragga in inganno il lettore poco avvezzo a questioni filologiche. A ben vedere, infatti, il contesto semantico è molto compatto e ha dei confini ben delineati.
Ernout e Meillet (2001), non a caso, pongono căput in relazione col greco κεφαλή (kephalè, capo) e căpĭtālis col greco κεφάλαιος (kephàlaios, del capo) e precisano che entrambi i termini costituiscono una sostituzione popolare di κάρα (kàra, testa) e cĕrĕbrum (cervello, testa). A ogni modo, l’analisi dell’area semantica – potremmo anche dire “della famiglia semantica” – che include vitale, mortale, capo, persona, vita ci fa comprendere immediatamente il valore che capitale ha assunto all’interno del linguaggio di intere civiltà.
Battaglia (1961-2002), nel definire il capitale, scrive: “Parte principale del patrimonio in denaro”. Qui, non può sfuggire l’uso dell’aggettivo principale. Aggiunge inoltre: “Valore in denaro dei beni destinati alla produzione; l’insieme dei beni prodotti destinati alla produzione di nuovi beni economici”. Sia Battaglia sia Nocentini riportano un’occorrenza dei banchieri fiorentini risalente al 1211; la qual cosa ci consente di far luce sulla forza e la vitalità storico-referenziali del termine in questione.
Angiolino galigaio no die dare lib’. xl per bulongnini ke i demmo a bolongna per lo mercato sanbrocoli , e dè pagare per metzo matgio: se più sstanno a iiij d’ ; e s’elli non pagasse sinno promise di pagare Orlandino galigaio prode e capitale quant’elli istessero. tt. matzingo, mainetto d’albitzo co. (sic) e Bernardo bertti ( SANTINI, P., 1887, Frammenti di un libro di banchieri fiorentini, in Giornale storico della letteratura italiana, vol. 10, Loescher, Torino, p.171)
Oggi, capitale è diventato un termine polisemico per via dei diversi significati che lo caratterizzano, ma, già in economia, può essere inteso come parte della rata di un mutuo, composta, per l’appunto, dalla quota capitale e dalla quota interesse, come capitale sociale conferito dai soci, ridefinendosi come capitale di rischio, come fattore della produzione et cetera.
Per usare lo stilema aristotelico, possiamo dunque asserire che il capitale è una sorta di causa prima. A tal proposito, osserviamo l’uso che se ne fa nell’inesauribile letteratura di Cicerone.
Itaque non fortuito factum uidetur, sed a te ratione propositum, ut separatim de aegritudine et de ceteris perturbationibus disputaremus; in ea est enim fons miseriarum et caput [Vedi quindi che non è stata casuale, ma dovuta a un ragionato calcolo, la tua proposta di parlare dell’afflizione separatamente da tutte le altre passioni, perché è lei la fonte e la causa principale delle nostre miserie (CICERONE, Tusculanae disputationes, L. IV, 83, a cura di A. Di Virginio, 1962, Le tusculane, A. Mondadori, Milano, pp. 368-369)]
In economia, per indagare sulla funzione di produzione occorre stabilire un legame tra i fattori che determinano la quantità di prodotto generato; in altri termini, è necessario esaminare i fattori della produzione stessa, ovverosia il già studiato capitale, che, nel caso in specie, non è rappresentato dal ‘denaro’, bensì da beni strumentali, e il lavoro. Per completezza d’informazioni traduciamo nella formula di pertinenza il discorso appena fatto: Y=f (K, L).
Sui vocabolari della lingua italiana, il sostantivo lavoro è ricondotto, per lo più, a due grandi insiemi di significato: quello delle energie necessarie allo svolgimento di un’attività e quello dell’impiego vero e proprio, cioè di un’attività remunerata e che, di conseguenza, produce reddito. In realtà, il significato più vicino alle origini è proprio quello legato alle energie e alla fatica del lavoratore. La traduzione del latino lăbŏr, da cui s’è formato il nostro sostantivo, è data, infatti, non solo da lavoro, ma anche da pena, fatica, sforzo et similia. A tal proposito, i filologi, nel ricostruirne la glossa, lo pongono in relazione col verbo deponente latino lābor, lābĕris, lapsus sum, lābi, il cui significato, scivolare, cadere, rende perfettamente l’idea del lavoratore che barcolla e cade sotto un carico. Bisogna tenere in considerazione che, anticamente, il lavoro prevalente era quello dei campi e comportava parecchia fatica, oltre a non essere svolto in condizioni di sicurezza; pertanto, la lingua esplicitava, in un modo che potremmo definire quasi empirico e di certo realistico, gli stati di cose. De Vaan (2008) ne traccia in modo limpido e lineare l’evoluzione: collassare sotto un carico > fardello > lavoro; mentre Pokorny (2007) risale alla radice indoeuropea *leb/lob/lab/leb, che significa pendere, oscillare, vacillare.
A proposito di fatica e dolore, è utilissimo giovarsi dell’acume con cui Cicerone ne commenta la differenza nelle Tusculane:
Interest aliquid inter laborem et dolorem. Sunt finitima omnino, sed tamen differt aliquid. Labor est functio quaedam uel animi uel corporis grauioris operis et muneris, dolor autem motus asper in corpore alienus a sensibus [Tra fatica e dolore c’è differenza. Sono due cose molto affini, sì, ma qualche differenza c’è. Fatica si ha quando l’anima o il corpo sono impegnati in un compito duro o esercitano una funzione particolarmente gravosa; il dolore invece è un movimento rude e ripugnante ai sensi che si produce nel corpo (CICERONE, op. cit., L. II, 15, 35, pp. 162-163)]
In chiusura, ci dedichiamo a una voce che, apparentemente, si allontana dalla relazione filologica e semantica tra i fattori della produzione, capitale e lavoro, ma che, nella sostanza, invece, riguarda ogni aspetto dell’esistenza dei lavoratori e, più in generale, d’un qualsivoglia cittadino. Il termine in questione è spesa. Il legame sembra indiretto, è vero, ma, a ben riflettere, ci si rende conto che la spesa rappresenta una delle voci più importanti del bilancio dello Stato e, soprattutto, dell’equazione della sua identità contabile. La spesa dello Stato garantisce al cittadino i servizi: scuole, ospedali, strade, mezzi pubblici et cetera sono, per l’appunto, il risultato della spesa pubblica.
Più in generale, dobbiamo dire anzitutto che per spesa s’intende quel passaggio di denaro da una parte all’altra finalizzato all’acquisto di un bene o di un servizio. Appare evidente, quindi, il suo valore relazionale. Si richiede un po’ d’attenzione, tuttavia, con riguardo al processo di significazione, giacché expendĕre, il verbo da cui il nostro sostantivo deriva, significa, precipuamente, pesare, misurare, ponderare, esaminare. È indubbio che sborsare e pagare sono delle traduzioni possibili e corrette, ma esborso e pagamento non si configurano affatto come gesti incondizionati, bensì quali esiti d’un’accurata attività di valutazione. Di conseguenza, adesso, cioè dopo aver ricostruito il processo summenzionato, siamo in grado di apprezzare in maggior misura il concetto di spesa quale elemento dell’equazione contabile nazionale. Talora, i numeri e i codici con cui gli economisti raccontano la storia d’un paese non sono così astrusi o lontani da ciò che tutti noi, pur se con modi diversi, diciamo ogni giorno. La formula che, di solito, si adotta per esprimere in modo simbolico-algebrico il PIL è la seguente: Y = C + I + G + NX, dove C sta per consumi, I per investimenti, G per spesa, NX per esportazioni nette; è anche nota come identità keynesiana.
È corretto dire che il sostantivo femminile spesa, in particolare, trae origine da expēnsus, su cui s’è costruita la forma femminile del latino tardo expēnsa. Il verbo originario, invece, è composto da ex più pĕndere, che richiama la nostra attenzione, ancora una volta, su giudicare, esaminare, stimare sulla base di qualcosa, un’unità di misura. Il denaro, in origine, veniva pesato.
Romae dulce diu fuit et sollemne reclusa / mane domo uigilare, clienti promere iura, / cautos nominibus rectis expendere nummos, / maiores audire, minori dicere per quae / crescere res posset, minui damnosa libido [A Roma fu gradito e sacro per lungo tempo, star svegli di mattina nella casa aperta, spiegare il diritto al cliente, spendere cautamente con buone firme il denaro, consultare i maggiori, insegnare ai giovani per quali vie si potesse accrescere il patrimonio e che fosse frenata la rovinosa passione (ORAZIO, Epistole, L. II, I, vv. 103-107, trad. nostra, in Opere, a cura di T. Colamarino e D. Bo, 2013, UTET, Torino, p. 422)]
Bibliografia minima
BATTAGLIA, S., 1961-2002, GDLI (Grande Dizionario della Lingua Italiana), 21 voll., UTET, Torino
DEVOTO, 1968, Dizionario etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, Le Monnier, Firenze
CORTELAZZO, M., ZOLLI, P., 1999, Dizionario Etimologico della Lingua Italiana, Zanichelli, Bologna
DE MAURO, T., 1999-2000, Grande dizionario italiano dell’uso, 6 voll., UTET, Torino
DE VAAN, M., 2008, Etymological Dictionary of Latin and the other Italian Languages, in Indoeuropean etymological Dictionary series, vol. 7, (a cura di A. Lubotsky), Brill, Leiden
ERNOUT, A., MEILLET, A., 2001, Dictionaire etymologique de la langue latine, Klincksieck, Paris
NOCENTINI, A., PARENTI, A., 2010, L’etimologico, Le Monnier, Firenze-Milano
POKORNY, J., 2007, Proto-Indo-European ETymological Dictionary, Indo-European Language Revival Association, Badajoz
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