categoria: Distruzione creativa
Il successo di Adele è un elogio del perdente
Il nuovo disco della regina del pop Adele dal titolo “25” – batte ogni record di vendita. Il singolo “Hello”, anticipazione dell’album in due settimane ha fatto segnare il record di oltre mezzo miliardo di visualizzazioni. Nei primi 7 giorni, l’album ha venduto più di tre milioni di copie. La cantante britannica, è numero uno nelle top di iTunes di 100 su 117 Paesi. Il precedente album di 4 anni fa – “21” (i titoli si riferiscono all’età di Adele al momento dell’inizio del progetto discografico) – ha venduto dal 2011 ad oggi 35 milioni di copie. Il successo di Adele rischia di mettere in secondo piano il valore di tutti coloro i quali hanno tentato di diventare come lei, di avere lo stesso successo.
La forza di un sistema economico sta nella competizione, che rafforza i contendenti. Competere viene dal latino cum-petere, procedere insieme verso un medesimo punto, convergere, gareggiare. In questo modo il vincente al termine della competition avrà sviluppato degli anticorpi fortissimi, utili a sopravvivere e svilupparsi in un mercato sempre più globale e competitivo.
Tutti si ricordano di Steve Jobs e di Apple. Ma quante mancate Apple ci sono state? Quanti ci hanno provato? Quante imprese non ce l’hanno fatta e sono fallite? Sono da deprecare? No, anzi, sono da ringraziare.
Grazie ai perdenti, i vincenti sono più forti.
Alcuni anni fa, in una tesi di finanza comportamentale, un mio brillante studente, Mattia Bolognini, mi fece conoscere Adele (che non sapevo chi fosse) perché in un passaggio scrisse: «Soprattutto nei campi in cui “il vincitore prende tutto” (come il mondo dell’editoria, dove a fronte di una Rowling ci sono migliaia di scrittori-camerieri; o come il mondo della musica, dove a fronte di una Lady Gaga o di una Adele, ci sono migliaia di cantanti-baristi), la tendenza a trascurare le prove silenziose è endemico. In questo senso, diamo troppa attenzione alle storie di successo, non avendo però il quadro complessivo della situazione: quante scrittrici altrettanto talentuose non potremo leggere e quante cantanti altrettanto dotate non potremo sentire a causa dell’ingiusta quanto casuale mancanza di “buone occasioni” che colpisce queste persone?».
Dobbiamo provarci, non perdere mai le speranze, e anche se dovessimo non farcela, se ce l’abbiamo messa tutta, deve emergere l’orgoglio. Gli economisti Giavazzi e Alesina nel loro “Il liberismo è di sinistra” (Il Saggiatore, 2007) spiegano la diversità tra Stati Uniti e Europa: «In Italia il numero dei fallimenti di imprese è tra i più bassi dei Paesi Ocse. Fallire in Italia, è un trauma da evitare. La stessa frase “è un fallito” ha una connotazione colpevole e offensiva. Come se il fallimento di un’attività economica rischiosa, che non ha prodotto profitti sufficienti, significa che chi l’ha intrapresa non sia una persona onesta, ma un truffatore. Il termine “fallito”, invece di caratterizzare semplicemente il proprietario di un’azienda che non è sopravvissuta alla concorrenza, diventa un macigno che un imprenditore si porta sulle spalle per il resto della vita».
Giavazzi e Alesina raccontano un aneddoto emblematico: «La figlia di un nostro collega stava per sposarsi, ma all’ultimo decise di rompere il fidanzamento. All’inevitabile domanda sulle motivazioni di una scelta tanto drastica rispose che, tra l’altro, il fidanzato non “era mai fallito”. Il povero ex fidanzato era probabilmente un ragazzo che preferiva un posto fisso e non aveva partecipato all’effervescente nascita di nuove iniziative legate a internet, molte delle quali, appunto, sono fallite. La figlia del nostro collega avrebbe serie difficoltà a trovare un “fallito” da sposare in Italia».
Quando la competizione verrà più apprezzata, in Italia potremo festeggiare tassi di sviluppo migliori e uscire da quella che Pierluigi Ciocca definisce “crescita languente”.
Twitter @beniapiccone