categoria: Distruzione creativa
Materie prime, energia: emergono i costi veri della transizione ecologica
L’autore del post è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Autore di “La decarbonizzazione felice” –
Nel 2021, per la prima volta da dieci anni, il prezzo delle pale eoliche e dei pannelli fotovoltaici sta aumentando invece di diminuire. Il motivo è semplice: i prezzi delle materie prime sono schizzati alle stelle per diversi mesi prima di iniziare una fase di correzione da maggio. Comunque dall’inizio dell’anno il prezzo dell’acciaio è aumentato del 18%, quello del rame poco meno e quello del silicio policristallino è addirittura quadruplicato.
Le ricadute sulla filiera del fotovoltaico e su quella dell’eolico sono imponenti: oltre il 50% dei costi di produzione di un modulo fotovoltaico sono determinati dal prezzo dei materiali mentre nel caso di un impianto eolico la quota può arrivare anche al 70%. Non deve stupire, perciò, che i maggiori produttori globali di pannelli e pale eoliche annuncino cospicui rincari per il 2021. E, specularmente, non deve stupire che numerosi progetti eolici e fotovoltaici in giro per il mondo vengano congelati, in attesa di tempi migliori.
Le componenti del costo di produzione di un modulo fotovoltaico
Dietro a questo improvviso surriscaldamento del mercato delle commodities – solo nelle ultime settimane frenato dal governo cinese, che ha corretto la sua stessa politica sull’acciaio temendo l’arrivo dell’inflazione – non c’è solamente l’aumento della domanda legato alla transizione ecologica ma la brusca impennata dei prezzi offre uno spaccato su un tema scottante: quanto è sostenibile in termini economici il fabbisogno di materiali per costruire pale, pannelli e batterie?
In un recente rapporto l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) ha stimato che la produzione di minerali critici dovrà quantomeno quadruplicare per garantire il fabbisogno di materiali per la transizione ecologica. Non ci dimentichiamo che un generatore eolico è fatto di calcestruzzo, acciaio, polimeri plastici e zinco, un impianto fotovoltaico di silicio, vetro e alluminio, una batteria di nickel, litio (prezzo +91% nel 2021), cobalto e terre rare.
Il fabbisogno di materiali per la transizione ecologica
Fonte: The Role of Critical Materials in Clean Energy Transition
La gran parte del mondo ambientalista ha salutato con favore il rapporto perché calcola che, a partire dalle stime attuali, le riserve globali di minerali dovrebbero bastare a coprire la domanda dei prossimi decenni. E già qui dovremmo capire che c’è qualcosa che non va: se in nome dell’ecosostenibilità temevamo di esaurire le riserve di una decina di materiali nel giro di trent’anni evidentemente stiamo sbagliando qualcosa.
Ma c’è un’altra incognita, altrettanto importante, a cui il rapporto non dà risposta: tra vent’anni, quando la domanda di litio sarà 42 volte quella odierna, quanto potrà aumentare il prezzo?
Mano a mano che la domanda di una materia prima aumenta, infatti, siamo costretti ad andarla a cercare in luoghi sempre più remoti e in giacimenti sempre meno ricchi. Questo, chiaramente, fa lievitare i costi di produzione fino al punto in cui diventano economicamente insostenibili.
La concentrazione di metallo (tenore) nei giacimenti diminuisce costantemente nel corso del tempo
Fonte: Giovanni Brussato, “La transizione immaginaria”
In poche parole, molto prima di scontrarci con i limiti fisici dello sfruttamento delle materie prime (la disponibilità in natura) ci scontreremo con i limiti economici (quanto costa estrarre una tonnellata di materiale).
Nonostante si tratti di una trappola dello sviluppo nota e ampiamente approfondita (basti pensare a “Il rapporto sui limiti dello sviluppo”, commissionato dal Club di Roma al MIT all’inizio degli anni ‘70), incredibilmente questa tematica non è entrata a far parte del processo di modellazione della transizione energetica.
Ma il nodo dei materiali critici non è l’unico ostacolo contro cui sta andando a sbattere la transizione ecologica. Anche le quotazioni del carbone, infatti, sono ai massimi da dieci anni.
Quotazioni del carbone – Futures
Fonte: Trading Economics
E pure il prezzo del barile vola, sospinto dal rallentamento degli investimenti in ricerca & sviluppo di nuovi giacimenti e dalla domanda asiatica.
Visto che pale, pannelli e batterie sono fatti di acciaio, rame e una decina di altri metalli l’aumento del prezzo del carbone – alla base dell’industria metallurgica – farà salire ulteriormente i costi di produzione. E dato che prima di arrivare in Europa o negli USA pale, pannelli e batterie fanno più volte il giro del mondo sotto forma di materie prime, semilavorati e componenti, chiaramente, anche il rincaro del prezzo del greggio farà lievitare i costi di produzione: le navi, i treni e i camion su cui viaggiano, infatti, sono alimentati con olio combustibile e diesel. Per non dire dei costi dei noli marittimi per trasportare i container, per esempio dalla Cina.
I Paesi coinvolti nella filiera di uno dei principali produttori globali di pannelli solari
Fonte: Trina Solar
Quello che potrebbe sembrare un momentaneo incidente di percorso apre in realtà uno squarcio su un altro problema strutturale della transizione energetica: quando l’acciaio e il cemento saranno prodotti a partire da energia pulita invece che con il carbone, quando le navi andranno a idrogeno invece che a olio combustibile, quanto costerà costruire un generatore eolico? E un pannello fotovoltaico?
Semplificando, stiamo stimando i costi di una transizione energetica senza tenere a mente che l’energia è alla base dell’economia: se cambia il costo dell’energia, a cascata, cambiano i costi di produzione di tutti i beni. E dato che stiamo progettando un sistema energetico alimentato da dispositivi tecnologici e non da materie prime, ogni volta che aumentano i costi di produzione di pale e pannelli, aumenta implicitamente anche il costo dell’energia che genereranno. Insomma, un altro circolo vizioso che mette apertamente in discussione la sostenibilità economica della transizione verso le energie rinnovabili.
Ma come è possibile che temi di questa portata siano rimasti fuori dal dibattito ambientale? Per quale motivo li scopriamo solo ora, quando abbiamo già programmato centinaia di miliardi di euro di investimenti?
Perché la transizione ecologica non è stata progettata da una commissione di esperti, come invocano Romano Prodi e Alberto Clò, ma da un gruppo di ONG? Il paradigma del “100% rinnovabili” non è il frutto di un’analisi costi/benefici di ampio respiro ma di un movimento politico e culturale che nasce negli USA con il ’68. All’epoca alcune delle multinazionali petrolifere più grandi erano la longa manus dell’imperialismo americano e quindi chi immaginava un mondo migliore lo immaginava senza petrolio. Oggi però la situazione è cambiata: tre quarti del fabbisogno mondiale è assicurato da compagnie nazionalizzate, da decenni oramai i Paesi produttori hanno preso il controllo del mercato petrolifero globale. Quindi quando immaginiamo un mondo senza petrolio non mettiamo in crisi gli USA ma l’Africa.
I Paesi più esposti alla fine della Oil Age sono Paesi poveriFonte: elaborazione Financial Times su dati Banca Mondiale
Qualcuno dirà: “Ma alla base della transizione ecologica ci sono decine di migliaia di studi scientifici!”.
Come sottolinea il professor Carlo Rovelli, però, nessuna decisione potrà mai essere scientifica. La Scienza ci può dire con ragionevole certezza da quali fattori dipende il cambiamento climatico, quanta CO2 cattura un albero e quanta ne emette un’acciaieria. Ma nessuna disciplina scientifica ci permette di calcolare qual è la soluzione migliore a un problema complesso, dato che il concetto di “soluzione migliore” implica una prospettiva individuale: quello che è meglio per me non è meglio per gli altri. Proprio per questo motivo ogni decisione spetta alla politica. Solo la politica è in grado di trovare il minimo comun denominatore tra una miriade di interessi individuali.
Come sottolinea un commentary uscito su Nature poche settimane fa, tutto questo nella nostra strategia di contrasto al cambiamento climatico non c’è. Nessuno si è premurato di includere nei modelli gli effetti economici, sociali e politici – a breve, a medio e a lungo termine – delle decisioni che prendiamo oggi. E proprio per questo motivo, piuttosto che parlare di strategia, dovremmo definirla una “bambinata” a cui abbiamo dato fin troppo spazio.
Twitter @enricomariutti