La Pubblica Amministrazione che serve. Che cosa crea valore?

scritto da il 02 Giugno 2021

Post di Luca Giangregorio, dottorando presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona e Mattia Marasti, studente presso UniMoRe –

Introduzione

Con il ritorno di Renato Brunetta al Ministero per la Pubblica Amministrazione è facile ricordarsi della sua narrazione sull’inefficienza della PA, sui fannulloni, sulla necessità di politiche che la avvicinino alle logiche aziendali. In quest’ottica il servizio pubblico è concepito come una normale impresa privata, il cui operato deve essere diretto alla massimizzazione dell’utilità, sua e del consumatore. Ne consegue che le politiche occupazionali da parte dello Stato – specie per assorbire disoccupazione nel Mezzogiorno – siano considerate inefficienti di default. Secondo questa visione l’intervento pubblico deve ridursi per lasciare spazio all’intervento privato e all’esternalizzazione dei servizi essenziali: dalla sanità, alla ricerca, ai servizi di educazione per l’infanzia o alla gestione dei servizi di smaltimento rifiuti e gestione idrica.

Per giustificare e rendere accettabili tagli nei servizi pubblici – e lasciare spazio a conseguenti ampie privatizzazioni – è necessario che gli interventi attuati siano condivisi e accettati. Per questo motivo a partire dai primi anni ‘80 si inizia a parlare di “new public management” e gli intellettuali tanto a sinistra quanto a destra ripetono il mantra: elasticità, efficienza, gestione manageriale della macchina pubblica.

Il ministro Brunetta è forse l’emblema di questa narrazione: in passato non ha risparmiato  attacchi diretti contro i lavoratori del pubblico impiego, accusandoli di essere nullafacenti, “furbetti del cartellino” e privilegiati rispetto ai colleghi del settore privato.

Se di certo la Pubblica Amministrazione necessita di riforme urgenti, soprattutto per la gestione dei fondi del Next Generation EU, il problema non è la presunta natura “fannullona” dei dipendenti pubblici.

Qualche dato per parlare di PA

Possiamo confrontare alcuni dati sulla pubblica amministrazione italiana con quelli riguardanti altri paesi europei e mondiali.

Uno tra gli statement che più spesso vengono ripetuti dalla narrazione dei “dipendenti pubblici fannulloni” è che l’Italia ha troppi dipendenti pubblici. I dati raccolti dall’OECD mostrano una realtà ben diversa: l’Italia è ben al di sotto alla media rispetto al numero di dipendenti nel governo centrale su occupati totali. A guidare la classifica sono i paesi scandinavi, da sempre caratterizzati da una presenza statale cospicua. Ma sopra di noi ci sono anche paesi dipinti come neoliberisti quali Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada. Solo Germania, Lussemburgo e Olanda, tra i paesi europei, fanno peggio di noi.

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(Per ingrandire cliccare sul grafico)

Nel corso degli anni, per via dei tagli, sempre meno giovani sono stati assunti nella PA: il nostro paese presenta il minor numero di under 35 sul totale dei dipendenti statali rispetto ai paesi presi in considerazione, nonché il maggior numero di persone anziane. Questo deficit è strettamente correlato a un basso livello di digitalizzazione. I ritardi su questo fronte, che impattano la produttività della PA, risultano estremamente gravosi nel rapporto con il privato: nel nostro paese l’interazione con la PA può essere fino a 5 volte più dispendiosa per un’azienda rispetto a quanto succede in Canada.

Che cosa crea valore?

Il ruolo della Pubblica amministrazione non deve essere quello di creare profitto. Vi è nell’opinione pubblica – così come nell’accademia – un fraintendimento su quale deve essere lo scopo del lavoro pubblico all’interno dell’intero sistema produttivo.

Questo fraintendimento nasce dalla definizione di una specifica teoria del valore e del sistema di contabilità nazionale che ne deriva. Per cercare di chiarire meglio il concetto, si pensi agli economisti classici: essi avevano una teoria del valore – la teoria del valore-lavoro – che era alla base della loro formulazione e rappresentazione del sistema di produzione. In questo modo, per i classici il sistema economico si distingueva endogenamente in “produttivi” e “improduttivi”, dove questi ultimi non partecipavano direttamente alla creazione di valore.

Con la rivoluzione marginalista, si ha un rovesciamento nella direzione di causalità, passando da valore-prezzo al prezzo-valore: qualsiasi cosa che è scambiata sul mercato e ha un prezzo allora ha un valore. Questo ribaltamento si riflette anche nei sistemi di contabilità nazionale, con l’obiettivo di rafforzare l’idea per cui l’attività statale non generi valore. Infatti, l’attività della Pubblica amministrazione consiste nel produrre servizi ad un prezzo inferiore al prezzo di mercato, se non offerti gratuitamente. Significa forse questo che il servizio offerto dallo Stato è privo di valore? Come spiega l’economista Mariana Mazzucato, i sistemi di contabilità nazionale favoriscono l’idea per cui lo Stato sia improduttivo. Nello specifico, la logica input=output (dove l’output in questo caso è la somma di input intermedi + costi di manodopera) implica per il settore statale che il valore aggiunto sia pari solo all’ammontare dei salari pagati ai dipendenti pubblici. Per cui l’assenza di un margine operativo che consenta la creazione di un profitto, dipinge lo Stato come un “assorbitore” di valore creato dal settore privato.

Inoltre, si assume che il rendimento degli investimenti statali sia nullo. In realtà, i rendimenti generati dall’azione pubblica vengono assorbiti dal settore privato in termini di sua maggior produttività. Sono quindi valori generati che hanno una genesi nel settore statale, ma il cui rendimento viene contabilizzato nel settore privato, depurando completamente il contributo pubblico che viene, al contrario, dipinto come mero “parassita”.

Si potrebbe concludere che lo Stato come agente improduttivo aveva sicuramente più senso ai tempi dei classici, mentre oggi il tentativo di dipingerlo come “parassita” appare più come un esercizio di egemonia culturale e politica.

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