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Madri o lavoratrici? Gli effetti della maternità sul lavoro delle donne
Il 9 maggio scorso si è celebrata la Festa della Mamma. La prima donna omaggiata da questa ricorrenza fu, nel 1908, Ann Reeves Jarvis, un’attivista per i diritti umani della Virginia che si batté per promuovere l’assistenza alle famiglie bisognose. Alla sua morte, la figlia Anna istituì una giornata in sua memoria per celebrare le donne che quotidianamente si occupano delle faccende domestiche e familiari, senza vederne riconosciuto il merito.
Nonostante questa celebrazione abbia avuto negli anni molteplici connotati, prima di diventare un appuntamento prettamente commerciale, è interessante soffermarsi sul suo significato originale. Questo perché, a distanza di più di un secolo, e dopo una lunga storia di emancipazione femminile, le donne svolgono tuttora la maggior parte dei lavori non retribuiti, come la presa in carico dei figli, delle loro attività e della cura della casa. A seguito di ciò, risultano anche gravemente penalizzate sul mercato del lavoro.
Motherhood penalty: come il mercato del lavoro penalizza le donne dopo la maternità
I dati mostrano un sistematico declino salariale tra le donne dopo la nascita dei figli. Questo ha portato alla diffusione del termine “motherhood penalty”, letteralmente penalizzazione associata alla maternità.
Dal rapporto annuale del 2017 dell’Inps, emerge che ventiquattro mesi dopo l’inizio del congedo di maternità, la donna guadagna tra il 10 e il 35% in meno di quanto avrebbe guadagnato se non avesse avuto il figlio. La penalizzazione varia a seconda del fatto che la donna torni a lavorare immediatamente dopo il congedo o no. È inoltre più alta per le lavoratrici che hanno un figlio prima dei 30 anni e per quelle che al momento del parto non avevano un contratto a tempo indeterminato.
Uno studio del 2019 condotto dagli economisti Casarico e Lattanzio ha dimostrato che gli effetti della maternità sul lavoro sono anche presenti nel lungo termine. È stato verificato che in Italia, a quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri sono del 53% inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita. Le settimane lavorate in meno tra l’una e l’altra categoria sono circa undici l’anno e la percentuale di donne con figli con contratti part-time è quasi tripla rispetto a quella di chi non ha figli.
In netta opposizione a ciò, uno studio americano ha evidenziato che i neo-padri ricevono, a 5 anni dalla nascita del figlio, un aumento salariale tra il 5 e il 10%. Inoltre, alcuni ricercatori nel 2013 hanno stimato che la differenza di reddito tra i padri e gli uomini senza figli varia, a favore dei primi e a parità di impiego e qualifiche, dal 4 al 16% a seconda dei Paesi. Questi dati avvalorano il cosiddetto fatherhood premium, cioè una ricompensa per la paternità. In contrasto con quanto accade per la madre, la busta paga del padre pare infatti giovare dalla nascita di un figlio.
Perché le donne sono penalizzate dalla maternità?
Alcuni ricercatori suggeriscono che questi fenomeni siano legati ad una perpetuazione di norme sociali stereotipate. Secondo questa visione, che identifica l’uomo come il breadwinner, letteralmente colui che porta a casa la pagnotta, il padre deve essere sostenuto nel momento in cui la famiglia si allarga. Seguendo la stessa logica, le madri sono coloro che dovranno occuparsi dei figli e delle faccende domestiche. Per la loro impossibilità di dedicarsi pienamente all’attività lavorativa, esse verranno dunque penalizzate. Questa spiegazione sembra anche giustificare il fatto che il tasso di occupazione femminile in Italia sia diminuito del doppio rispetto a quello maschile nel secondo trimestre del 2020, a seguito della pandemia. Alcuni ricercatori americani ipotizzano che, dovendo fare dei tagli sul personale, i datori di lavoro si siano infatti sentiti più legittimati a lasciare a casa le madri piuttosto che i padri.
Questa è la conseguenza di un tipo di discriminazione che le donne soffrono, non solo una volta diventate madri, ma nell’arco di tutta la loro carriera lavorativa. Preventivando che esse avranno dei figli a cui poi dedicheranno la maggior parte del loro tempo, i datori di lavoro tenderanno infatti ad assumere un uomo piuttosto che una donna.
Discriminazione fondata?
Secondo uno studio britannico, condotto con dati relativi al periodo 1992-2007, le neomamme hanno effettivamente subito un aumento delle ore di lavoro non retribuito con una media di sette ore in più alla settimana. Inoltre, hanno dovuto diminuire il tempo dedicato al lavoro retribuito di quattordici ore alla settimana in media.
Dati più recenti mostrano che la media di lavoro non retribuito nei paesi Ocse è di due ore al giorno per gli uomini e di quattro ore per le donne. In Italia esso aumenta fino a quattro ore e mezzo per le donne senza figli e a sei e mezzo per le donne con almeno un figlio tra 0 e 17 anni.
In relazione a ciò, non sorprende forse sapere che nel 2019 il 25,4% delle donne lavoratrici dei paesi dell’Ocse è impiegata in un lavoro retribuito part-time rispetto al 9,6% degli uomini. In Italia il divario aumenta sensibilmente. Qui, il 31,8% delle donne lavora a orario ridotto, quattro volte il tasso maschile. Dai dati Ocse, emerge però che quasi la metà di queste preferirebbe un lavoro a tempo pieno, ma che per svariati motivi, non è riuscita a trovarne uno adatto. È legittimo pensare che risulti difficile trovare un lavoro a tempo pieno adatto alle ore giornaliere dedicate al lavoro non retribuito.
Un cambio di mentalità e delle politiche mirate come possibili risposte
Alcune ricerche suggeriscono che la soluzione vada trovata in congedi parentali e di paternità più efficaci e in un cambio delle norme sociali sulla divisione delle responsabilità domestiche. Ad oggi, quasi tutti i Paesi europei prevedono un congedo di paternità, ma la durata e la compensazione variano su base nazionale. In Italia, il congedo di paternità obbligatorio entro cinque mesi dalla nascita del figlio, retribuito al 100%, è di dieci giorni. Quanto al congedo parentale facoltativo, fruibile in modo intercambiabile da entrambi i genitori, è previsto in Italia fino a undici mesi retribuiti per il 30% dello stipendio.
Con una media europea intorno al 70% del reddito iniziale, l’Italia è il paese che offre un minor compenso a riguardo. Non sorprende dunque che nel 2018 solo il 23% dei padri abbia fatto domanda o abbia pensato di far domanda per il congedo parentale per dedicarsi all’assistenza dei figli.
Questo dato rileva dunque la necessità di una compensazione salariale più dignitosa, ma pone anche la questione della non trasferibilità del congedo parentale. In effetti, ad oggi, essendo intercambiabile, esso è nettamente più usufruito dalle madri. Qualora fosse istituito, come in altri Paesi europei, un congedo parentale con una proporzione dedicata solo al padre e meglio retribuito, potremmo probabilmente assistere a statistiche diverse.
Una divisione più equa del lavoro domestico può anche passare da migliori misure di sostegno alla famiglia – come l’offerta di servizi di assistenza all’infanzia – e dalla promozione di sistemi di welfare aziendale per le lavoratrici. Ciò non solo permetterebbe alle donne un ritorno ad un impiego a tempo pieno qualora lo desiderassero, ma permetterebbe anche di diminuire la discriminazione che le donne, anche quelle senza figli, subiscono sistematicamente nell’arco della loro carriera.
Queste politiche devono, però, essere accompagnate da un necessario cambio di mentalità che abbandoni gli stereotipi di genere. Nel 2018, il 32% della popolazione italiana era d’accordo con la frase: «Gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche». Il 33% di loro credeva che «per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro» e il 28% che «è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia». Combattere questi stereotipi, che stanno a monte della divisione delle responsabilità familiari, dovrà essere una priorità educativa e formativa. Questo cambiamento, infatti, non gioverebbe solo alle donne, ma alla popolazione tutta, essendo l’inclusione femminile nel mercato del lavoro fortemente correlata con la crescita economica.
Testo a cura di Margaux Truc