categoria: Vicolo corto
Contro la povertà il Reddito di cittadinanza serve: analisi e nuove proposte
Articolo di Lorenzo Di Russo e Alessandro Guerriero, entrambi laureandi in Economia Politica all’Università di Roma Tre e collaboratori di Kritica Economica –
Le recenti stime preliminari Istat sulla povertà assoluta, in vertiginoso aumento nel 2020, ci forniscono un riscontro concreto del drammatico impatto economico della pandemia. Inoltre, ci danno conferma del ruolo essenziale svolto dagli ammortizzatori sociali, senza i quali ci troveremmo oggi a fronteggiare una situazione assai peggiore. Ciò nonostante, il Reddito di cittadinanza continua ad essere sottoposto ad attacchi mediatici e politici, che celano, dietro dubbie critiche di ogni specie, pregiudizi squisitamente ideologici.
La nostra intenzione è quella di difendere lo spirito della manovra da questi attacchi, rivendicandone fortemente il principio ispiratore, per poi sottolineare i molteplici margini di miglioramento sul lato delle politiche attive del lavoro.
I sussidi
A febbraio 2021 i nuclei percettori di Reddito di cittadinanza (Rdc) e Pensione di cittadinanza (Pdc) erano circa 1,3 milioni, per un numero di individui pari a circa 3,1 milioni; il costo dei sussidi per le casse dello Stato nel mese di febbraio si è aggirato attorno ai 750 milioni di euro. Una cifra consistente, che ha dato origine a numerose critiche, alcune delle quali potremmo definire “di pancia” e altre “da salotto”.
Le prime (quelle “di pancia”) ruotano attorno alla tesi per cui la maggioranza dei percettori del Rdc lavorino in nero. Queste supposizioni non si basano su nessun dato statisticamente rilevante, ma considerano piuttosto come la normalità i vari eclatanti casi di cronaca riportati dalla stampa relativamente ai cosiddetti “furbetti del Reddito”.
Le proiezioni del ministero del Lavoro costruite sui dati Istat però mostrano una correlazione quasi perfetta tra il tasso di disoccupazione e quello di fruitori di Rdc/Pdc a livello regionale. Se ci fosse un significativo numero di beneficiari del Reddito che lavorano in nero, il rapporto tra queste due percentuali non sarebbe pressoché costante su tutto il territorio italiano, ma vedrebbe le regioni del Mezzogiorno, spesso oggetto di attacchi pregiudizievoli, discostarsi nettamente dalla retta di regressione rappresentata nel grafico sottostante.
*elaborazione: Ministero del Lavoro; dati: ISTAT
Nonostante questa evidenza, c’è chi sarebbe disposto ad eliminare uno strumento che beneficia milioni di nostri concittadini solo per il comportamento deplorevole di pochi. Seguendo questa logica si abolirebbero le pensioni di invalidità a causa dei falsi invalidi, fino a smantellare gradualmente la totalità dello Stato sociale. Evenienza che a taluni potrebbe non dispiacere poi così tanto.
I critici “da salotto” generalmente sostengono che i fondi dedicati al Rdc potrebbero essere destinati ad impieghi più produttivi, piuttosto che all’assistenza sociale. Gli usi alternativi proposti variano in base alle scuole di pensiero, dagli sgravi fiscali agli incentivi alle imprese per i sostenitori della “trickle down economics”, fino agli investimenti infrastrutturali per i pensatori di matrice più keynesiana.
Nulla togliendo a queste legittime osservazioni di politica economica, ciò che riteniamo manchi all’analisi è la considerazione dell’enorme importanza sociale e politica del Reddito di cittadinanza, che pone questa misura su un gradino più alto rispetto ad un qualunque altro capitolo di spesa del bilancio statale. L’articolo 2 della Costituzione afferma che la Repubblica “richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, è dunque dovere dello Stato e della nostra comunità prendersi cura dei più svantaggiati: mettere un piatto caldo sulla tavola di milioni di nostri concittadini è un imperativo morale, per la politica e per tutti noi; per non dover rivedere mai più uomini e donne in fila alla Caritas o ad altre associazioni di volontariato, come nel caso di quella folla a Milano lo scorso 20 marzo, proprio vicino all’Università Bocconi.
Le politiche attive del lavoro
Il reddito di cittadinanza, oltre ad essere una misura di contrasto alla povertà, è stato progettato come uno strumento per le politiche attive del lavoro. Su quest’ultimo aspetto, il reddito di cittadinanza ha per ora fallito, ma non per i motivi spesso citati nel dibattito pubblico odierno.
Secondo i dati dell’ANPAL dello scorso anno infatti, solamente 40 mila persone con reddito di cittadinanza sono state assunte, ovvero l’1,7% del totale dei beneficiari e il 4,3% dei percettori effettivamente inseribili in un percorso lavorativo.
Una percentuale a dir poco insoddisfacente, dovuta al fatto che le politiche attive del lavoro contenute nel RDC hanno cercato di incidere sull’offerta di lavoro, mediante la formazione dei possibili nuovi lavoratori, percettori del reddito di cittadinanza, anche se il problema è l’inverso: in Italia manca la domanda di lavoro e non l’offerta.
Un percorso di formazione per i percettori del reddito di cittadinanza è utile per facilitare il loro reinserimento nel mercato del lavoro, ma essi rimarranno comunque disoccupati se lavoro non ce n’è.
Bisogna smontare il mito delle imprese che cercano lavoratori senza trovarli, magari proprio per colpa del reddito di cittadinanza: dai dati Istat del quarto trimestre 2020 il tasso di posti di lavoro vacanti in Italia è dell’1%, all’incirca 230 mila in valore assoluto. Questo dato è irrilevante sia in confronto al numero dei percettori del reddito di cittadinanza (quasi 3 milioni), sia al numero dei disoccupati in Italia (2,3 milioni).
Osservando il tasso di posti vacanti dell’ultimo trimestre del 2018 (l’ultima rilevazione prima dell’introduzione del RdC, avvenuta nel trimestre successivo) e quello dello stesso periodo del 2019, si può notare che entrambi sono pari all’1,4%. Il reddito di cittadinanza non sembra dunque aver creato un disincentivo al lavoro. Se così fosse stato, questo indice sarebbe dovuto aumentare per uno “shock” dovuto all’introduzione del Reddito. In realtà nel tempo l’indice è addirittura diminuito. E così, il problema del mismatch tra offerta e domanda di lavoro diviene quantomeno una questione residuale e probabilmente strutturale: anche se non ci fossero posti vacanti rimarrebbero comunque più di due milioni di disoccupati.
Per questo motivo bisogna intervenire principalmente sulla domanda di lavoro e non sull’offerta. Il governo italiano dovrebbe puntare a creare nuovi posti di lavoro, in concomitanza con una politica industriale pubblica che ormai manca da decenni. Una politica industriale avrebbe varie conseguenze favorevoli. L’obiettivo sarebbe quello di creare dei piani di lavoro persistenti, per indirizzare la crescita economica e lo sviluppo dell’Italia, garantendo contemporaneamente il raggiungimento degli obiettivi di medio/lungo periodo, come la transizione digitale ed ecologica. Nello stesso tempo si potrebbe arrivare ad una drastica diminuzione del tasso di disoccupazione.
In questo modo molte delle famiglie italiane riuscirebbero ad uscire dalla fascia di povertà assoluta, principale beneficiaria del Reddito di cittadinanza. Un progetto di politica industriale ad ampio respiro aiuterebbe poi la crescita economica, dato che la parte di popolazione con meno reddito ha una propensione al consumo più alta. Con un aumento del reddito dovuto all’ottenimento di un occupazione, grazie a una strategia di politica industriale di successo, essi spenderebbero la gran parte dei nuovi introiti. Il risultato sarebbe un aumento dei consumi, della domanda aggregata e infine della crescita economica. Un circolo virtuoso di cui l’Italia ha bisogno, anche per una questione di civiltà.
Il risultato finale sarebbe quello di diminuire gli attuali beneficiari del reddito di cittadinanza (che almeno in parte troverebbero un lavoro) e la possibilità di estenderlo ad altre persone oggi escluse, così da poter eliminare definitivamente la povertà in Italia.