categoria: Sistema solare
Accordo Ue-Cina sugli investimenti: l’Europa e gli Usa si possono fidare?
Post di Mario Angiolillo e Flavio Menghini. Angiolillo, direttore dell’Osservatorio Relazioni EU-UK-USA di The Smart Institute. Esperto di tematiche geopolitiche e di relazioni internazionali, svolge attività di advisory per diverse società con particolare riferimento agli impatti e alle opportunità offerte da Brexit. Menghini, fellow di The Smart Institute, esperto di commercio internazionale e foreign direct investment, si occupa in particolare di relazioni esterne dell’Unione Europea e sviluppo sostenibile –
L’Unione Europea ha recentemente siglato un accordo d’investimento con la Cina di Xi Jinping. Tale accordo, volto a favorire i flussi di capitale, è una buona notizia per le aziende e gli individui dei Paesi Membri che abbiano interesse ad investire in Cina ma presenta in sé molte criticità con cui sarà necessario fare i conti nel prossimo futuro. Inoltre, rimane da capire quali saranno le conseguenze di questo riavvicinamento con la Cina per i rapporti dell’UE con gli USA.
I trattati d’investimento
I trattati bilaterali o multilaterali di investimento sono di norma conclusi tra stati o blocchi di stati che vogliono incoraggiare i flussi di capitale d’investimento tra le entità private di una parte e il territorio dell’altra. Questi accordi, cui ci si riferisce spesso con sigle quali BITs o IIAs (dall’inglese Bilateral Investment Treaties e International Investment Agreements), hanno la funzione di tutelare l’investitore in modo che questi non sia discriminato all’estero. Tale obiettivo si ottiene in due modi: con norme che assegnano diritti sostanziali – ad esempio si vieta che l’investitore straniero e il suo investimento possano essere trattati in maniera meno favorevole di quelli domestici – e altre che assegnano diritti procedurali – ovvero dei meccanismi, quali l’arbitrato, che possano essere invocati dall’investitore nel caso in cui questi fosse danneggiato dallo Stato che ospita l’investimento, si pensi al caso dell’espropriazione dell’investimento.
La portata di questi accordi d’investimento vincola le parti molto meno estensivamente di quanto facciano gli accordi di libero scambio, come ad esempio il CETA, i quali solitamente vanno a toccare aspetti assai delicati, si pensi agli appalti pubblici. Questi accordi commerciali implicano infatti una volontà di allineamento cui spesso gli stati non vogliono o non possono vincolarsi, generalmente per due motivi: da un lato, perché per ragioni politiche o geopolitiche i paesi coinvolti non auspicano una più profonda integrazione, dall’altro perché sono troppo distanti geograficamente e a causa di ciò l’investimento in termini di tempo e di risorse per la conclusone di un accordo di libero scambio non apporterebbe sufficienti benefici.
Nel caso dell’Unione Europea e della Cina pare evidente che la prima delle due possibilità sopra elencate giochi un ruolo fondamentale nella scelta di limitarsi ad un accordo di investimento. Ciò tuttavia non deve far credere che da tali accordi siano completamente assenti degli importanti impegni di uniformazione legislativa, di cui alcuni trascendenti la mera promozione e tutela degli investimenti.
I punti chiave dell’accordo
I negoziati per l’accordo tra l’UE e la Cina, detto CAI (EU-China Comprehensive Agreement on Investment), si sono ufficialmente aperti nel 2014 e si sono conclusi il 30 dicembre 2020 con un accordo in principio, in quanto molti dettagli tecnici sono ancora in preparazione, ragion per cui il testo non è ancora stato reso pubblico. Ciononostante dalla documentazione messa a disposizione dalla Commissione se ne possono evincere i punti chiave, i quali ruotano principalmente attorno a un impegno cinese a garantire un trattamento equo agli investitori europei.
Tra i tanti, l’impegno della Cina a garantire agli investitori europei un maggiore accesso al proprio mercato, anche in alcuni settori dei servizi, garantendo al contempo un trattamento equo, ad esempio in relazione al trasferimento tecnologico forzato, che ha rappresentato, e rappresenta tuttora, uno dei maggiori ostacoli per le aziende che vogliano lavorare in Cina.
Sono elencate inoltre molteplici disposizioni volte a promuovere la trasparenza, tra cui l’impegno della Cina a garantire chiarezza sulle norme che regolano le società a partecipazione statale, benché non ci sia spinti fino a regolare le sovvenzioni statali. Sono poi previsti degli impegni ambiziosi per quanto riguardo lo sviluppo sostenibile, peraltro in linea con il recente impegno di Xi a raggiungere la neutralità delle emissioni di carbonio entro il 2060.
La portata dell’accordo raggiunto
Rimane difficile non interrogarsi sul significato storico di questo accordo e, in particolare, sulla sua possibile portata ideologica. Infatti, il quadro costituzionale europeo presenta un peculiare nesso tra obiettivi commerciali (FDI incluso) e non commerciali (non solo gli interessi “di stato” dell’UE ma anche i suoi valori e principi), e sprona ad utilizzare i primi per perseguire i secondi (artt. 3(5) e 21 TUE nonché artt. 205, 206 e 207 TFUE). Tale struttura normativa si riflette chiaramente nelle parole che la presidente Von del Leyen ha scelto di utilizzare per commentare il CAI, definito una pietra miliare non solamente per le relazioni con la Cina bensì anche per “la nostra values-based trade agenda” (Commissione, Comunicato Stampa, 30 dicembre 2020).
Ciononostante, si auspica che il CAI rappresenti un passo verso la normalizzazione dei rapporti commerciali con la Cina, e non invece di un goffo tentativo ideologico di attrarre la Cina nell’orbita dei mercati occidentali nell’augurio che ciò sia sufficiente a diffondervi i nostri valori. Il fallimento del tentativo fatto negli anni Novanta, e culminato nel 2001 con l’ammissione all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), di avvicinare la Cina ai valori delle democrazie occidentali deve fungere da ammonizione per chiunque dimentichi che la Cina ha una storia unica e una cultura solida che nessun accordo internazionale può affievolire, a meno di una volontà in tal senso della Cina stessa. È bene non dimenticare che l’evoluzione del secondo paese al mondo per PIL non può essere eterodiretta, se non in piccola parte, e pertanto la guardia deve rimanere sempre molto alta contro qualsiasi concessione accordata nell’ottica di future conquiste ideologiche.
Alcuni profili di criticità
Tuttavia, anche a prescindere dalle motivazioni più recondite che hanno portate l’UE a negoziare questo accordo, non si può negare che vi siano molteplici profili di criticità, sia teorici che pratici, alcuni dei quali saranno qui elencati. Tra i primi, si noti che le parti hanno riconfermato la propria adesione ai principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, a proposito della quale si potrebbero ricordare i fatti, noti a tutti, di Hong Kong e dello Xinjiang.
Sul piano pratico, invece, si evidenzia che le parti contraenti si sono impegnate a continuare i negoziati sugli standard di protezione degli investimenti e sui meccanismi per la risoluzione delle controversie tra l’investitore e lo Stato che ospita l’investimento, nonché a concluderli entro due anni dalla firma del CAI. Il significato del primo punto non è pienamente chiaro ma si può supporre che sia un impegno a negoziare una protezione ancora più solida. Del secondo, invece, è chiaro il significato, ovverosia la totale assenza di un meccanismo di risoluzione delle controversie cui possano ricorrere gli investitori che si sentano vittime di una violazione dei diritti garantiti da questo accordo.
Essi, pertanto, possono solamente sperare di ottenere giustizia per il torto subito nelle corti domestiche dello stato ospitante l’investimento oppure attraverso un meccanismo Stato-Stato di risoluzione delle controversie, il quale non può però essere invocato dagli investitori, ma solamente dallo stato di appartenenza. Tuttavia, la giustizia cinese nel primo caso e la storia del meccanismo della protezione diplomatica nel secondo non faranno dormire sonni tranquilli agli investitori europei.
Infine, rimane di grande interesse verificare negli anni a venire l’interazione tra questo accordo ed il regolamento UE 2019/452, un regolamento volta ad istituire “un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione […] per motivi di sicurezza o di ordine pubblico” (art. 1, par. 1) e, non si dimentichi, promulgato proprio sull’onda di uno sforzo legislativo comunitario diretto ad affrontare le numerose perplessità legate all’iniziativa cinese della Belt and Road.
Le ricadute sui rapporti tra l’UE e gli USA
Un ulteriore profilo di criticità, benché avulso dal testo dell’accordo, si riscontra nelle ricadute che il CAI potrà avere sui rapporti tra l’UE e gli USA. Infatti, se il presidente Trump aveva fatto del contrasto alla Cina la pietra miliare della sua strategia “America First” – quasi sulla scia dell’idea del G2 teorizzata per la prima volta da Fred Bergsten nel 2005 – la neo Amministrazione Biden, a differenza di quanto già sta facendo sul resto, non sembra lasciar presagire un cambio di rotta nei confronti della Cina.
Lo stesso Biden, infatti, ha fortemente stigmatizzato l’intesa Bruxelles-Pechino come una preoccupante fuga in avanti e ha esortato le cancellerie europee a costituire un fronte comune con Washington per contrastare le aspirazioni egemoniche del Dragone asiatico. In linea con questo, il neo-presidente ha poi indicato come nuova rappresentante del commercio statunitense l’avvocato Katherine Tai, da sempre fortemente critica nei confronti delle politiche commerciali attuate da Pechino.
Del resto, lo scontro su più fronti tra i due colossi non accenna a placarsi. Uno degli ultimi lasciti della precedente Amministrazione è stato proprio quello di imporre nuove restrizioni ad alcune importanti aziende cinesi, aggiunte alla blacklist statunitense, perché sospettate di avere rapporti poco chiari con l’esercito cinese; tra queste anche il colosso del petrolio China National Offshore Oil Corporation (U.S. Department of Commerce, 14 gennaio 2021). In risposta, il ministero degli esteri cinesi non ha tardato a comunicare l’intenzione di infliggere delle sanzioni per i diplomatici americani accusati di ingerenze su Taiwan e Hong Kong.
Inoltre, in queste ultime ore, un altro terreno di scontro sta riguardando la valutazione del comportamento delle parti in relazione al primo step dell’accordo commerciale stipulato tra Washington e Pechino poco più di un anno fa, il 15 gennaio del 2020. Secondo fonti statunitensi, infatti, la Cina avrebbe disatteso gli impegni assunti in tale sede relativamente all’incremento di importazione di prodotti americani, le quali avrebbero raggiunto solamente 87 miliardi di dollari a fronte di un impegno assunto per quasi 160 miliardi. Al contrario, tuttavia, fonti cinesi contestano questi dati dichiarando che le importazioni in oggetto avrebbero raggiunto un importo di quasi 135 miliardi di dollari per un incremento pari a circa il 10% su base annua.
Se questi ultimi elementi di frizione tra USA e Cina rappresentano la cornice dello scontro, il suo cuore resta quello della guerra fredda digitale tra le due superpotenze e, in particolare, dall’interdizione emanata da Washington sulle cinesi Huawei e ZTE per l’implementazione della rete 5G. E proprio quest’ultimo è un tema di grande preoccupazione per l’intelligence americana rispetto all’accordo commerciale UE-Cina dopo che sono state diffuse alcune indiscrezioni, tutte da verificare, relative ad un intesa sull’ingresso di Deutsche Telekom nel mercato cinese in cambio del via libera all’allentamento della posizione tedesca su Huawei.
Un fatto che andrebbe a compromettere il forte apprezzamento espresso invece da Washington nei confronti delle linee guida europee contenute nel 5G Cybersecurity Toolbox e finalizzate a garantire la sicurezza delle reti di nuova generazione.
Di certo il CAI, nonostante i vantaggi economici per le aziende europee, rischia di rappresentare un elemento di frizione nei rapporti tra Bruxelles e la neo Amministrazione Biden, la quale, almeno negli intenti, si propone di ristabilire un clima più sereno nelle relazioni economiche e commerciali, e quindi anche politiche e diplomatiche, tra le due sponde dell’Atlantico.
Twitter: @DottAngiolillo