categoria: Tasche vostre
Cashback o flashback? Storia dell’ennesima fregatura in inglese
L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –
Una misura particolarmente discussa di questa fase pandemica è certamente quella del cosiddetto “cashback”, argomento così rilevante da trovare la difesa in prima linea addirittura da parte del premier in una delle ormai consuete conferenze stampa (o dirette “streaming”) per annunciare i DPCM.
Si tratta, in sintesi, di un rimborso del 10% (con limite pari a 15 euro per singola transazione) sugli acquisti fatti pagando con carte di credito, bancomat e app di pagamento, fino a un massimo di 150 Euro a semestre. Per usufruirne, bisogna registrarsi utilizzando un app che si può scaricare sul proprio cellulare.
L’idea degli esecutori rientra nel più ampio piano di abbandono dell’utilizzo del contante nelle transazioni economiche, privilegiando i pagamenti tracciabili, che passano attraverso gli istituti bancari.
Su questo argomento si è detto tutto e il contrario di tutto. La mia breve disamina intende soffermarsi su tre specifici aspetti legati a questa misura:
1) il primo, di carattere lessicale, legato alla scelta del termine inglese per dare un nome al provvedimento;
2) il secondo, legato all’utilizzo ormai smodato di tecniche di marketing nelle misure politiche e fiscali;
3) il terzo, legato alla effettiva “funzionalità” della stessa rispetto all’obiettivo dichiarato (la solita lotta all’evasione)
Sono tre aspetti su cui riflettere, perché ci dicono molto e, forse, senza peccare di presunzione, ci portano ad immaginare il reale significato di queste misure.
Partiamo dall’ennesimo anglicismo: cashback. In scia all’invasione dei termini inglesi, proliferata durante la pandemia a ritmi ancor più sostenuti di prima. Il cashback viene dopo l’ormai arcinoto lockdown, periodo nel quale abbiamo lavorato in smart working, nell’attesa che arrivino i fondi per attuare il recovery plan, per poter finalmente sconfiggere il “coronavAirus” (pronunciato all’inglese dallo stesso ministro Di Maio).
Qual è il motivo per cui si usano così tanti termini inglesi nella politica, in generale, e in quella fiscale, in particolare? Si può forse ipotizzare che la lingua italiana non abbia risorse lessicali adeguate ad individuare nuovi concetti, o forse si può concludere che l’inglese sia lingua più precisa ed espressiva della nostra? Neanche per scherzo, è ovvio. In realtà si tratta di un vecchio trucco, molto diffuso nel mondo della politica: è null’altro che la versione 2.0 del “politichese”, termine forgiato oltre 50 anni fa per indicare l’utilizzo consapevole di un linguaggio criptico e non immediatamente e chiaramente comprensibile all’orecchio dei più.
Il termine inglese, dunque, non è certo più efficace, ma è sicuramente più “misterioso” e, in un certo senso, anche più “esotico”, espressione che rende molto bene l’idea. Niente di nuovo, dunque, si tratta di qualcosa che esiste da quasi un secolo a cui ben si accompagna, di recente, l’utilizzo abnorme di tecniche di marketing (anche questo è un termine inglese, li uso ormai anch’io senza rendermene conto!) nelle politiche fiscali. “Non perdere l’occasione di partecipare al cashback e alla lotteria degli scontrini!”. Non sono parole mie, bensì lo slogan che si legge accedendo a cashlessitalia.it, sito web a firma della Presidenza del Consiglio dei Ministri, appositamente dedicato a “Italia Cashless”, piano messo a punto dal Governo “per incentivare l’uso di carte e app di pagamento, al fine di modernizzare il Paese e favorire lo sviluppo di un sistema più digitale, veloce, semplice e trasparente”.
Ormai i cittadini vengono trattati alla stregua di consumatori. Per convincerli, si utilizzano metodologie importate dal mondo commerciale, tecniche di persuasione che appartengono a mondi diversi e che, sempre a mio parere, in essi dovrebbero rimanere confinati, senza invadere troppo la politica e il mondo fiscale (o quantomeno senza farlo in maniera così evidente e spudorata).
Dopo aver ragionato sulla scelta lessicale e sull’approccio commerciale utilizzato per veicolare queste misure, vien da chiedersi se almeno la funzione delle stesse sia idonea a raggiungere l’obiettivo perseguito.
L’idea è quella che abbandonando il contante, si riduca di pari passo l’evasione. In questo senso, lo Stato incentiva il cittadino al pagamento elettronico, con la promessa di restituirgli qualcosa. Il percorso è, tuttavia, pieno di lacune e viene da chiedersi se il cashback serva davvero a questo.
Partiamo da un esempio. Viene l’idraulico a sostituire un pezzo della caldaia guasta, costo della prestazione cinquecento euro. La proposta classica dell’artigiano “evasore” (non sono tutti così, ci mancherebbe) è: se mi paghi in contanti sono quattrocento euro. Il calcolo è semplice, perché senza emettere la fattura, l’esercente risparmia l’iva (il 22%) e le tasse che non pagherà sul ricavo. Il cittadino, dal canto suo, pagherebbe cento euro in meno. Se, invece, scegliesse di pagare con la carta, accedendo al cashback, recupererebbe da quella transazione quindici euro. L’evasione, è evidente, risulta più “conveniente” per entrambi.
Questo è un concetto che può sembrare abbastanza basico, ma è fondamentale per individuare l’efficacia di misure antievasione.
Il rischio è che il cashback, dunque, non serva a ridurre l’evasione ma, al contempo, lo stesso pesa sul bilancio dello Stato per diversi miliardi, che si trasformano in un mero (ed inutile) sussidio per chi usa le carte di credito e, soprattutto, per le banche che incassano le commissioni. Quest’ultimo è un aspetto determinante, anche a livello di percezione del pubblico, che scemo non è.
Se, ad esempio, la misura fosse stata accompagnata da una contestuale abolizione perpetua delle commissioni bancarie sulle transazioni elettroniche, il messaggio sarebbe stato, almeno a parere di chi scrive, completamente diverso.
Invece, ci troviamo di fronte all’ennesimo provvedimento che maleodora di favore alle banche, travestito all’inglese e spinto dalla locomotiva del marketing. Un flashback o, per usare un termine italiano, qualcosa di già visto in passato.