La rivoluzione verde è una fake news? Ecco tutte le risposte

scritto da il 22 Dicembre 2020

L’autore del post è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG). Autore di “La decarbonizzazione felice” 

Il post pubblicato l’11 novembre ha scatenato una pioggia di commenti e di domande. Pensare che la “rivoluzione verde”, per come è concepita oggi, comporterà quantomeno un raddoppio del prelievo di risorse naturali rispetto a quello odierno è, per molti, un concetto sconvolgente.

Vale la pena, perciò, tornare su alcuni aspetti tecnici che, per privilegiare una divulgazione più “larga”, non sono stati approfonditi a dovere in prima battuta.

“La fonte dei dati relativi al fabbisogno di materiali di base, calcestruzzo, acciaio, rame etc, è un commentary. I commentary non sono veri e propri articoli scientifici”. Al contrario: l’unica differenza tra un commentary e un paper è che il commentary viene commissionato direttamente dal board editoriale della rivista (in questo caso la più prestigiosa del suo settore, Nature Geoscience) mentre i paper vengono proposti autonomamente dai ricercatori.

“Perché il testo non utilizza i Life Cycle Assessment (LCA) per determinare l’intensità dei materiali?”. Alcune delle fonti accluse nel testo, come il paper di PNAS, sono esplicitamente LCA. Anche le altre, tecnicamente, sono LCA, solo che non adottano questa dicitura nel titolo. Un LCA, infatti, è semplicemente un’analisi dell’impatto ambientale – declinato sotto forma di emissioni di CO2, inquinamento, intensità di materiali o altro – correlato a un prodotto o a un servizio.

“Ma le centrali tradizionali o gli impianti di cattura diretta non richiedono, a loro volta, un mare di materiali?”. No, o almeno non in misura paragonabile alle rinnovabili. Il fotovoltaico o l’eolico sono tecnologie che funzionano esattamente al contrario rispetto a tutte quelle che abbiamo sviluppato negli ultimi 6.000 anni: non consumano energia primaria per produrre materiali, consumano materiali per produrre energia primaria. Quindi il rapporto si inverte: prima avevamo bisogno di infrastrutture relativamente piccole e quantità di energia primaria molto grandi (i combustibili fossili), domani avremmo bisogno di infrastrutture mastodontiche per lasciare i combustibili fossili (l’energia primaria) sottoterra. Ma il bilancio del prelievo dall’ecosistema non tiene conto di queste differenze qualitative, misura solo la quantità: il fabbisogno di risorse naturali aumenterà drasticamente. Semplicemente, ogni miliardo di tonnellate in meno di gas naturale, petrolio o carbone lo baratteremo con 4/6 miliardi di tonnellate di minerali e metalli in più.

“Non è vero che per produrre pannelli e turbine eoliche serve più energia di quella che produrranno durante la loro vita operativa. L’EROI è positivo”. Generalmente, con EROI, Energy Return on Investment, si intende il ritorno energetico sull’investimento economico. Quanta energia otteniamo investendo un milione di euro, per semplificare. Il ritorno energetico sull’investimento energetico, quanta energia otteniamo investendo un MJ di energia, si definisce più propriamente EROEI (Energy Return on Energy Investment). E i modelli più avanzati attribuiscono quantomeno all’energia solare un EROEI negativo: serve più energia per costruire un impianto fotovoltaico di quanta poi ne produca nella sua vita operativa. Oltretutto, la situazione rimarrà problematica anche nei prossimi decenni.

Ritorno energetico sull’investimento energetico
Scenario 2060 100% rinnovabili

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Fonte: Energy Strategy Review

“Il Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems, un istituto di ricerca molto autorevole, sostiene che un pannello fotovoltaico ripaga l’energia usata per produrlo in 1/1,5 anni”. Sì, è vero, ma bisogna fare quantomeno tre puntualizzazioni. 1) il Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems prende in esame esclusivamente il fabbisogno energetico correlato alla produzione dei wafer di silicio. Quindi, il 99% dei materiali impiegati nella costruzione dell’impianto – dal calcestruzzo all’acciaio, dal rame all’alluminio, dall’indio alle terre rare – non sono contabilizzati. Una scelta quantomeno bizzarra. 2) Il Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems non correda queste affermazioni con alcuna fonte, studio scientifico o riscontro sperimentale. 3) Il Fraunhofer Institute for Solar Energy Systems è un centro di ricerca che adotta come mission la promozione dell’energia solare ed è finanziato per oltre il 70% da capitali privati.

“Perché nel testo viene indicato che per produrre una tonnellata di alluminio servono 30.000 kwh di energia quando la World Aluminium Association indica un fabbisogno medio di 14.000 kwh per tonnellata?”. Gran parte dei metalli di largo consumo vengono prodotti tramite fusione, con energia termica insomma. La riduzione dell’allumina ad alluminio, invece, richiede elettricità. Il dato della World Aluminium Association indica precisamente il fabbisogno di elettricità necessaria a produrre una tonnellata di alluminio. Per paragonare questo dato con quello degli altri metalli, perciò, bisogna incorporare la trasformazione dell’energia termica in energia elettrica. Dato che mediamente una centrale elettrica ha un’efficienza del 30%, la letteratura scientifica e le fonti istituzionali suggeriscono un fabbisogno energetico complessivo compreso tra 40 e 60.000 kwh per ogni tonnellata di alluminio prodotta. Nel testo, invece, ho adottato una stima cautelativa, visto che una quota consistente della produzione globale di alluminio è alimentata da impianti idroelettrici (quindi un processo in cui l’energia elettrica non viene prodotta a partire da energia termica).

“Non è vero che di alcuni materiali alla base della rivoluzione verde le riserve conosciute basterebbero per pochi anni in uno scenario 100% rinnovabili”. In realtà le prospettive sono ancora più fosche. La Banca Mondiale stima che la domanda cumulata di indio della sola industria fotovoltaica potrebbe ammontare a 80.000 tonnellate da qui al 2050. Le riserve globali di indio ammontano a circa 15.000 tonnellate. Parallelamente, il fabbisogno di litio per la costruzione di batterie potrebbe eccedere di oltre tre volte le attuali riserve (oltre 50 milioni di tonnellate a fronte di 17 milioni di tonnellate di riserve). In poche parole: le riserve di almeno una decina di materiali rischiano di esaurirsi ben prima di arrivare a uno scenario 100% rinnovabili. Ci siamo già dimenticati “I limiti dello sviluppo” o forse le considerazioni del Club di Roma sono valide solo per i combustibili fossili?

Domanda cumulata di Indio per l’industria fotovoltaica
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Elaborazione grafico Banca Mondiale

Domanda cumulata di Litio per l’industria degli accumulatori
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Elaborazione grafico Banca Mondiale

“L’innovazione tecnologica ci permetterà di sostituire i materiali più rari con nuovi materiali, più comuni”. Se dovessimo puntare sull’innovazione tecnologica l’opzione su cui giocarsi tutto è senza alcun dubbio il nucleare di quarta generazione (la celeberrima fusione): energia illimitata, economica, sicura e pulita. Ma l’innovazione è una scommessa, perché non è prevedibile. Quando saranno disponibili i reattori di quarta generazione? C’è chi dice tra 10 anni, c’è chi dice non prima della fine del secolo. Abbiamo pochi decenni prima che la crisi climatica ci sfugga definitivamente di mano, siamo disposti a giocare d’azzardo sulla pelle delle prossime generazioni?

“Nell’analisi manca il riciclo dei materiali”. Il riciclo dei materiali, che senza alcun dubbio è una direttrice di sviluppo estremamente strategica, ha un potenziale molto limitato in questo contesto. Per tanti motivi. Innanzitutto, perché il materiale di cui avremo più bisogno, il calcestruzzo, non si ricicla. Poi, perché parlare di riciclo in uno scenario in cui la domanda aumenta esponenzialmente non ha senso logico: si può riciclare quello che abbiamo già consumato ma se la domanda raddoppia ogni 2/4 anni avremo necessariamente bisogno di un costante apporto di materiali vergini. E infine perché parliamo di dispositivi estremamente complessi, come le batterie, in cui coesistono materiali che si deteriorano a poco più di 200 gradi (il litio) e altri che fondono a 1000 (il rame). Non a caso, in tutto il mondo, non esiste un singolo impianto su scala industriale destinato specificamente al riciclo delle batterie litio-aria. La costruzione del primo, molto piccolo e molto costoso a dire il vero, inizierà negli USA nel 2022.

“Ma se già oggi il 50% delle batterie al litio viene riciclato!”. No, si tratta di una leggenda metropolitana. Secondo i dati dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) e del Dipartimento dell’Energia USA attualmente meno del 5% delle batterie al litio viene riciclato. A sostenere il contrario c’è solo un centro di ricerca privato inglese, specializzato nel consulting in ambito ambientale. Non solo, bisogna specificare che cosa si intende con riciclare. Al momento, la gran parte delle batterie “riciclate” vengono smaltite in impianti destinati ad altri scopi, che operano a 1000/1500 gradi e sono adatti a riciclare nickel, cobalto e rame ma distruggono la parte più preziosa delle batterie: litio, alluminio e terre rare. Oltretutto, parliamo di impianti altamente inquinanti e di processi che emettono più CO2 di quanta ne facciano risparmiare, quindi estremamente problematici dal punto di vista ambientale.

“Qual è la fonte dell’affermazione secondo cui la transizione energetica costerà 5/6.000 miliardi di dollari l’anno?”. La fonte è il modello dell’OCSE, adottato dall’IPCC tra i 3 modelli econometrici di riferimento, e di gran lunga il più approfondito a disposizione, almeno per il momento.

“La cattura diretta della CO2 costa 600 euro la tonnellata”. Su questo punto bisogna fare chiarezza, perché negli ultimi anni si è creata una grossa confusione. Attualmente c’è una sola azienda al mondo che ha pubblicato su una rivista scientifica (Joule) gli schemi industriali con cui opera il suo impianto pilota e l’analisi dei costi. Si tratta di Carbon Engineering, startup fondata dal professore di Harvard David Keith e finanziata da Bill Gates. La pubblicazione, oltretutto, è stata revisionata dall’Accademia delle Scienze USA e le conclusioni sono molto chiare: da tre anni l’impianto pilota di Carbon Engineering cattura la CO2 a un costo inferiore a 100 dollari la tonnellata. Da tre anni, altro che proiezioni future. Tutti i dati citati in alternativa a questo, come quelli della startup svizzera Climeworks, non hanno alcun valore scientifico, visto che non sono state rese pubbliche le schede tecniche, non sono stati presentati i bilanci economici dei processi industriali e non c’è stata alcuna revisione scientifica sui valori proposti dall’azienda. Non a caso, Carbon Engineering sarà il primo operatore a costruire un impianto su scala industriale, che sarà pronto nel 2023 e catturerà 1 milione di tonnellate di anidride carbonica l’anno. Da notare, infine, che l’Accademia delle Scienze britannica (Royal Society) adotta già oggi come valore di riferimento per la cattura diretta 50 dollari la tonnellata.

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L’impianto pilota di Carbon Engineering

“La cattura diretta è un’opzione che entrerà in gioco tra molto tempo e avrà un impatto limitato”. Questa è la posizione dell’IPCC. Negli ultimi tre anni, però, le tre principali Accademie delle Scienze mondiali, quella europea, quella americana e quella inglese, hanno pubblicato ampi report in cui spingono per un cambio di prospettiva sulla cattura diretta, sollecitando lo sviluppo immediato. E anche nomi pesanti dell’ambientalismo, come James Hansen o Peter Wadhams, si sono associati a questa esortazione. Il motivo? Perché altrimenti non ce la facciamo. Nessun preconcetto contro le rinnovabili, insomma.

“Che senso ha catturare la CO2 se possiamo non emetterla?”. Che senso ha andare in palestra per perdere peso quando si può mangiare meno? I sistemi complessi non sono coerenti. E, se già l’essere umano è un sistema complesso, una comunità di esseri umani è un sistema iper-complesso.

In conclusione, il punto non è demonizzare le rinnovabili ma richiamare l’attenzione sulla necessità di diversificare il portafoglio di strumenti a nostra disposizione per contrastare il cambiamento climatico. Strumenti concettuali, culturali e tecnologici.

Lo scenario 100% rinnovabili è irrealistico. È irrealistico sotto il profilo del fabbisogno di materiali, è irrealistico sotto il profilo della condivisione internazionale, è irrealistico sotto il profilo del dell’impegno sociale. Tutti i 100% sono, di per sé, una garanzia di insuccesso. Ce lo insegna la Storia.

E qualcuno a Bruxelles, su indicazione sapiente della Commissione, se n’è accorto: le ultime decisioni dell’Unione Europea vanno esattamente in questa direzione, uno scenario composito che spazia dalla gestione forestale all’impiego del gas naturale come fonte energetica di transizione. Non parliamo di anarco-capitalismo o turbo-liberismo, parliamo dell’unica strada razionalmente percorribile.

Questo non significa che, per esempio, il Mar Baltico non abbia grandi potenzialità energetiche. O che le petro-monarchie del Golfo non dovrebbero diversificare il loro approvvigionamento energetico attraverso massicci investimenti nell’energia fotovoltaica e termodinamica. Questo non significa che, in ambito urbano, le energie rinnovabili non abbiano un futuro o che l’eolico galleggiante e quello ad alta quota (ancora meglio: la combinazione dei due) non siano tecnologie estremamente interessanti.

Molto più semplicemente, questo significa che non esiste alcuna ricetta per un problema complesso. Esistono solo visioni, cioè modelli che mettono a sistema decine di ricette diverse.

Il resto sono favole della buona notte per un pubblico poco attento.