categoria: Vicolo corto
Non chiamatelo smart working: il grande malinteso del lavoro da remoto
Post di Nadia Bertaggia, HR Director Sodexo Italia e Mediterranean Region –
La seconda ondata di Covid-19 ci costringe a tirare le fila dei cambiamenti fatti negli ultimi mesi nella gestione del business e a formulare strategie non solo reattive, ma di prevenzione e di innovazione a lungo termine.
In questa direzione è centrale definire un corretto rapporto tra gestione aziendale, benessere dei collaboratori e “smart working”. Dall’inizio dell’emergenza sanitaria, infatti, questa espressione è entrata a far parte del linguaggio della politica, dei media e dell’opinione pubblica, seconda solo al vocabolario legato al virus, purtroppo in maniera impropria.
A oltre 6 mesi dall’inizio della pandemia, però, è fondamentale rendersi conto che quello che abbiamo chiamato smart working in una situazione emergenziale altro non è che telelavoro, o remote working.
Esistono diverse opzioni per un’organizzazione “agile”: la soluzione emergenziale, quella legata al welfare, in risposta a bisogni individuali, e lo smart working inteso come “filosofia manageriale”. Questo in particolare si basa su una cultura aziendale applicabile solo a settori idonei dove, prima ancora dello smart worker, deve esserci uno smart manager, un’organizzazione impostata sulla responsabilizzazione dei collaboratori e su una struttura del lavoro per obiettivi condivisi.
Oltre alla confusione terminologica, il rischio che si corre realmente oggi è quello di improvvisare, senza tenere conto delle possibili ricadute sul lavoratore e sull’azienda. Chiudere le sedi fisiche può sembrare la soluzione più semplice nell’immediato, ma può rivelarsi dannosa a lungo termine se non accompagnata da momenti in presenza e da un’adeguata strategia di coinvolgimento e comunicazione con i propri collaboratori.
Come evidenziato da “Worklife after lockdown” – ricerca condotta per Sodexo da Harris Interactive Institute* – il lavoro a distanza non supportato da una cultura aziendale adeguata comporta infatti alcuni aspetti problematici. I principali sono la mancanza di interazione sociale per il 44% degli intervistati, difficoltà a collaborare (34%), difficoltà di concentrazione (32%), minore identificazione con l’azienda (32%), difficoltà nel raggiungere un buon equilibrio lavoro-vita privata (32%) e senso di isolamento (30%).
Di fronte a queste possibili criticità, è fondamentale quindi promuovere l’interazione dal vivo, con le precauzioni necessarie, a beneficio della capacità di lavorare del team, del benessere emotivo e del senso di coinvolgimento del singolo. L’interazione umana è una componente benefica anche per le organizzazioni che oggi sono chiamate ad evolversi e trasformarsi, in una direzione anche inaspettata.
Per plasmare il futuro dell’organizzazione del business, infatti, ogni azienda deve poter contare sul network e sulla collaborazione tra realtà e generazioni diverse per favorire resilienza, innovazione e sicurezza a lungo termine.
* Ricerca condotta intervistando i dipendenti di 8 paesi con 4824 interviste online secondo criteri di sesso, età, categoria professionale e regione.