La sconfitta di Trump non cancella le ragioni dell’ascesa del populismo

scritto da il 10 Novembre 2020

La fresca vittoria di Biden alle elezioni americane, non eclatante come molti si aspettavano, non deve indurci a sottovalutare il fenomeno del populismo, o a credere in una sua improvvisa scomparsa. Infatti, sono molteplici gli eventi che in un passato recente hanno attirato l’attenzione verso questo tema sempre più discusso, come la Brexit, l’ascesa della Lega Nord e del Movimento 5 Stelle.

Volendo dare inizialmente una definizione di questo fenomeno, nonostante non esista unanimità al riguardo, mi sembra essenziale menzionare Cas Mudde, che nel famoso libro “Populist radical right parties in Europe” nell’identificazione dei partiti populisti enfatizza aspetti quali il sentimento anti-establishment, la protezione dei valori locali o nazionali, l’autoritarismo, l’esaltazione di principi di democrazia diretta e spesso l’identificazione del partito nella figura di un leader unico. Alla base del sentimento anti-establishment vi è la volontà di questi partiti di sottolineare il valore delle persone comuni, oneste, sempre giustificabili, contrapposto alle élite, accusate di ricercare il potere per il perseguimento dei propri interessi personali, raggiunti attraverso la corruzione e l’inganno.

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Percentuale di partiti populisti al potere dal 1900 al 2018, considerando un campione di 60 paesi.
Fonte: Funke et al. (2020) “Populist leaders and the world economy”

Per comprendere meglio l’offerta politica di queste forze, consideriamo anche la definizione data dall’enciclopedia britannica, che aggiunge un aspetto fondamentale: l’offerta di soluzioni immediate, facili da realizzare, omettendo sistematicamente i costi futuri delle politiche promesse, sfruttando, spesso a dismisura, il patto intergenerazionale.

Queste prime definizioni sicuramente hanno portato il lettore ad identificare alcune politiche di cui negli anni si è parlato spesso, come ad esempio, l’abbandono dell’euro. Tuttavia, essendo il populismo definito anche come una “terza ideologia”, o meglio, “non ideologia”, è impossibile definire a priori una politica come populista, così come nemmeno il posizionamento del partito dal quale proviene. Le motivazioni sottese, se rivolte soltanto al perseguimento della volontà popolare, e le scelte di comunicazione che veicolano la politica, se semplicistiche e frequentemente aggressive, sono le discriminanti in tale identificazione.

Se la ricerca di una definizione di populismo non ha ancora portato un risultato univoco, c’è ancora più dissenso sulle motivazioni che spingono le persone a preferire partiti populisti.
I due più importanti filoni di ricerca si sono concentrati sulle ragioni culturali ed economiche.
Le spiegazioni culturali riguardano principalmente il rigetto dei valori progressisti, come il pluralismo e l’uguaglianza, da parte di alcune categorie che si sentono minacciate dallo sviluppo di una nuova società, che progressivamente rischia di fargli perdere il proprio status sociale.

Tra le cause economiche rientrano la globalizzazione, il progresso tecnologico, le crisi economiche e l’austerità, che vanno ad incidere in modo sempre più rilevante su specifiche classi sociali, ossia i low skilled worker. Al contrario i benefici sono distribuiti principalmente sulle classi medie e benestanti, che possono trarre un duplice vantaggio: incremento del valore del proprio lavoro e riduzione dei prezzi dei beni di consumo dovuta a minori costi di produzione.

Sia le cause economiche, sia le cause culturali si riferiscono alla medesima fetta di popolazione. Proprio per questo alcuni ricercatori, come Yotam Margalit, sostengono che la parte più conservatrice della comunità ha sempre provato avversione nei confronti delle élite, in quanto promotrici di valori progressisti, tuttavia, soltanto nel momento in cui la loro situazione economica è peggiorata hanno espresso tutto il proprio risentimento attraverso il supporto a partiti populisti.

Molto simile è l’intuizione che scaturisce dalla ricerca di Colantone e Stanig (“The economic determinants of the “Cultural Backlash”: globalization and attitudes in Western Europe”, 2018). Viene confermata l’importanza della componente economica: gli individui maggiormente esposti alla globalizzazione (misurata mediante l’import dalla Cina e la composizione settoriale dei distretti pre e post shock) supportano maggiormente leader forti. Tuttavia, tale effetto incide in modo eterogeneo su segmenti diversi della popolazione e, in particolare, le persone con un grado di istruzione più basso si sono dimostrate più suscettibili a valori antidemocratici.

Se l’intervento dello stato è spesso motivato da principi paternalistici, di questa rimonta del populismo non possono essere incolpati soltanto i cittadini. La colpa, molto spesso, dovrebbe ricadere anche sui cosiddetti partiti tradizionali, che non sono stati in grado di mettere in campo politiche adeguate a supportare i “perdenti” dei recenti shock economici.

Dall’altro lato, i partiti populisti sono stati in grado di raccogliere le istanze di quella parte di popolazione che si è sentita inascoltata. Tuttavia, non sono certamente privi di colpe. Se sul fronte dell’informazione e della comunicazione è un po’ utopistico poter credere che i cittadini possano essere informati in modo onesto ed esaustivo di tutti i pro e i contro delle politiche proposte, solo in questo modo potremmo effettivamente parlare di democrazia rappresentativa, una democrazia in grado di rappresentare le opinioni informate dei cittadini.

Elevando la moralità a un valore da perseguire soprattutto per i politici, almeno la menzogna, la semplificazione eccessiva e la fomentazione di paure e comportamenti pericolosi andrebbero evitati e non sfruttati per creare ben più dei “due minuti di odio” di George Orwell. I partiti populisti dovrebbero sfruttare il proprio capitale in modo costruttivo, guidando i cittadini e riconvogliando la loro rabbia all’interno dei confini istituzionali e democratici, rendendoli parte di un pluralismo che spesso negano.

Sabrina Fazio