Italiani cicale o no? Il mondo alla rovescia dei (post?) keynesiani

scritto da il 21 Ottobre 2020

Post di Fabrizio Ferrari, laureato magistrale in Economics presso l’Università Cattolica di Milano –

Nel loro intervento del 6 ottobre, Luca Giangregorio e Ivan Giovi si propongono di confutare un mio intervento dell’11 settembre, nel quale—a loro avviso—avrei fatto cherry-picking (“selezionare i dati che confermano unicamente le tesi che si vogliono presentare”) e avrei omesso “le cause e le spiegazioni dei fenomeni economici”. Senza ripetere quanto già esposto nel mio intervento precedente—e che Giangregorio e Giovi non mi pare abbiano confutato—mi vorrei limitare a far notare alcuni (senza pretesa di esaustività) elementi della loro analisi che mi lasciano molto perplesso.

In primo luogo, Giangregorio e Giovi esordiscono con un’affermazione che, oltre ad essere ambigua e poco chiara (e, quindi, difficilmente testabile), mi pare evidentemente falsa: difatti, come mostrato in Figura 1, non è vero—almeno, negli ultimi 30 anni—che l’Italia presenta un tasso di risparmio “comunque superiore alla media dei paesi avanzati”: difatti, i dati del Fondo Monetario Internazionale (IMF) mostrano un 19,9% per l’Italia contro una media del 24,4% per i Paesi avanzati. (Giangregorio e Giovi parlano di “risparmio netto”, ma immagino si tratti di un refuso, dal momento che io non ho mai parlato di “risparmio netto”—e loro intendono confutare i dati da me presentati—e, in ogni caso, il risparmio lordo è un indicatore più obiettivo di quello netto—dal momento che non richiede di calcolare il deprezzamento del capitale.).

Figura 1: Risparmio Lordo Nazionale (% del PIL, Media 1990 – 2019) delle 39 Economie Avanzate individuate dal Fondo Monetario Internazionale (IMF). Elaborazione su dati IMF, World Economic Outlook Database, October 2019.

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In secondo luogo, Giangregorio e Giovi commettono una fallacia contabile piuttosto frequente—alla cui diffusione hanno senz’altro contribuito le teorie errate ed illogiche della Modern Monetary Theory—e piuttosto assurda. Infatti, sostengono che, quando il settore pubblico si indebita, “il settore privato sta aumentando la sua ricchezza finanziaria, accumulando capitale grazie al risparmio pubblico negativo”.

L’illogicità di questa affermazione è dimostrabile in due modi—uno intuitivo, l’altro algebrico.
Partiamo dall’intuizione: quando il risparmio pubblico è negativo—cioè, si ha un indebitamento pubblico netto—non è affatto vero che il settore privato sta incrementando la propria ricchezza finanziaria. Al contrario, ben che vada (cioè, se tutto l’indebitamento pubblico è finalizzato a investimenti), la ricchezza aggregata del settore privato rimane invariata, dal momento che lo Stato tasserà in futuro il settore privato stesso per ripagare il proprio indebitamento; mal che vada, invece (cioè, se tutto l’indebitamento pubblico è finalizzato alla spesa corrente in consumo pubblico di beni e servizi e/o trasferimenti), la ricchezza aggregata del settore privato viene ridotta, dal momento che lo Stato dirotta parte del risparmio privato dagli investimenti (cioè, dall’accumulo di capitale) al consumo (pubblico) di beni e servizi e/o (tramite trasferimenti) al consumo privato di agenti sussidiati (“tax-consumer”).

In ogni caso, il settore privato può benissimo accumulare ricchezza (finanziaria o reale) anche in totale assenza di indebitamento pubblico—ad esempio, comprando azioni o beni capitali. [1]

Algebricamente, basta considerare che il livello totale di investimento privato (IP)—cioè, l’aumento (lordo) della dotazione di capitale del settore privato—è sempre pari alla somma di: risparmio privato (RP); differenza tra tasse (T) e spesa pubblica (G), ovverosia, risparmio dello Stato (RS); risparmio del settore estero (RE). Quindi:

a) RP + RS + RE = IP
b) T – G = RS

Se il risparmio dello Stato (RS) diminuisce e diventa negativo—o perché G aumenta, o perché T cala—e il risparmio privato (RP) e quello estero (RE) rimangono costanti, allora il livello di investimenti privati (IP)—cioè, l’accumulo di capitale e ricchezza netti da parte del settore privato—deve per forza di cose ridursi.

In terzo luogo, Giangregorio e Giovi, citando l’indagine circa “La ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie italiane” redatta da Banca d’Italia, sostengono che in Italia di capitale ve ne sia “in abbondanza, caratteristica non proprio di una cicala”. A suffragio della loro affermazione citano la Figura 5 del documento, che riporta il rapporto tra ricchezza netta delle famiglie e PIL per alcuni Paesi (Italia, Canada, Francia, Germania, UK, USA): in effetti, l’Italia è prima in classifica. Ma, a ben vedere, quanto vale questo primato e quanto ci dice effettivamente della ricchezza netta italiana? La risposta è “poco o nulla”, per due motivi.
Il primo: come ogni rapporto, la grandezza in oggetto dipende sia dal numeratore—cioè, la ricchezza netta delle famiglie—sia dal denominatore—cioè, il reddito lordo disponibile delle famiglie stesse. Come mostra la Figura 2, l’Italia è il Paese—tra quelli presi in considerazione da Banca d’Italia—che presenta il denominatore più basso, restituendo così un’immagine della ricchezza netta delle famiglie italiane decisamente ottimistica e sovrastimata.

Figura 2: Reddito Lordo Disponibile delle Famiglie, Dollari, 2005 – 2018. Fonte: OECD (2020), Household disposable income (indicator).

schermata-2020-10-20-alle-15-33-05Non è un caso, infatti, che la Figura 6 del citato documento di Banca d’Italia (qui Figura 3) mostri come la ricchezza netta delle famiglie italiane non sia particolarmente elevata, posizionandosi al penultimo posto della classifica.

Figura 3: Tratta da “La ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie italiane”, pagina 6 – 

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In secondo luogo, i dati sulla ricchezza delle famiglie italiane sono influenzati dalla preponderanza della componente immobiliare, per la quale è molto difficile stimare un effettivo valore economico di mercato.[2]

Infine, vi è una critica molto più generale che vorrei muovere all’intervento di Giangregorio e Giovi, ma che si attaglia perfettamente a larga parte del dibattito economico—ed è ciò che motiva il titolo di questo intervento, dal momento che mi pare particolarmente calzante per gli ambienti (post?) keynesiani. Dare per scontato, come fanno i due autori, che “un trasferimento da più ricchi ai più poveri” sia oggettivamente (cioè, in termini di efficienza economica paretiana) desiderabile—dal momento che i più poveri consumano di più e stimolano di più l’attività economica—denota, a mio umile avviso, un punto di vista erroneo—seppur maggioritario all’interno del dibattito—circa due elementi di teoria economica.

Il primo, su cui si sono molto battuti economisti come Hayek, Mises e Rothbard: è assurdo credere che ciò che può valere a livello di una singola industria—cioè, che l’incremento dei consumi sia necessario a stimolare gli investimenti—debba valere anche a livello aggregato—cioè, che un incremento dei consumi abbia effetti maggiormente benefici rispetto al risparmio, negando così il trade-off tra risparmio e consumo. Per formare del capitale, è necessario del risparmio. Quindi, il trasferimento di risorse ad agenti con maggiore propensione al consumo non solo non stimola la produzione, ma distrugge capacità produttiva—consumando capitale.
Il secondo: l’economia non è una scienza empirica. Pertanto, trovo poco sensato provare a giustificare affermazioni controintuitive (come il Teorema di Haavelmo citato da Giangregorio e Giovi, o il paradosso del risparmio keynesiano) avvalendosi di presunti parametri empirici [3]. In economia, infatti, non esistono costanti e parametri empirici, ma scelte razionali di agenti economici motivati da finalità e bisogni in continua evoluzione. Che in un determinato contesto storico un incremento di X% della spesa pubblica si sia accompagnato ad una variazione di Y% del PIL—cioè, che sia esistito un moltiplicatore Z—è una questione di interesse storico, ma non riguarda, né può “verificare”, una teoria economica—dal momento che quella contingenza storica potrebbe aver risentito dell’influenza di variabili extra-economiche, non quantificabili, ecc.

Infine, come insegna il vecchio Guglielmo da Bascarvilla, credo che sia sempre opportuno ricordarsi del buon rasoio di Occam: molto spesso, la spiegazione più intuitiva—dopo essere stata sottoposta a stretto vaglio critico, logico e analitico—si rivela anche la più corretta. Se il resto d’Europa si è convinto che siamo cicale, i casi possono essere due: o i nostri concittadini europei sono irrazionali e poco intelligenti, oppure—forse, forse—potrebbero anche avere ragione loro.

Twitter: @Fabriziofer1994

NOTE:

[1] Per approfondire, si veda Murphy, Keynesian Fallacies Are Not Just Wrong, but Dangerous, 01/05/2020, Mises Wire. 

[2] Su quanto le statistiche relative alla ricchezza vadano maneggiate con cura, si veda Boldrin e Stagnaro, Per dire che gli italiani sono più ricchi degli americani ci vuole un fisico bestiale, 26/06/2020, Istituto Bruno Leoni. 

[3] Si vedano, ad esempio: Rothbard, Economic Controversies, 2011, pp. 3 – 23, 113 – 118, e Mises, Human Action, [1949] 1999, pp. 30 – 41.