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Covid e maternità: cosa sta accadendo sul mercato del lavoro?
Post di Azzurra Rinaldi, responsabile del corso di laurea in Economia del turismo presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza –
Questo incipit non vi stupirà. Parliamo di Covid e dei suoi impatti sul mercato del lavoro e, in particolare, sulle donne lavoratrici: 470.000 occupate in meno rispetto al secondo trimestre 2019 (di queste, 323.000 con contratto a tempo determinato). Un tasso di occupazione femminile che torna al 48,4%, ovvero inferiore al 50%, con punte più basse nell’Italia meridionale.
Ma non è di dati che voglio parlare oggi (e questo sì, vi stupirà). Perché, con ogni probabilità, la crisi ancora non è iniziata. E perché rischiamo di perdere di vista le storie, le vite delle persone. Per un’economista non è facile, rinunciare ai dati. Ma mi sono persuasa del fatto che vi siano occasioni in cui possa valere la pena anche uscire dal ruolo e dalla comfort zone che il ruolo ci garantisce. Così, nelle scorse settimane, ho raccolto storie e testimonianze di donne lavoratrici, alle quali ho chiesto in quale modo il Covid stesse modificando il percorso professionale, la carriera, la ricerca stessa di lavoro. Per onestà intellettuale, devo subito riconoscere che non sono stata lasciata sola e che anzi, il lavoro di raccolta è stato reso possibile da una serrata rete di donne, appartenenti peraltro ad ambiti differenti, dal blogging alla moda (Mammadimerda; Giada Sundas; Gaia Segattini; Justine Romano FunkyMama; MammaFrau, solo per citarne alcune).
Partiamo da un grande tema, attorno al quale si sviluppa da sempre ampio dibattito in economia: quello dell’incertezza. È ben noto che il Covid abbia colpito soprattutto settori ad elevata concentrazione occupazionale femminile, che quindi sono attualmente in fase di grande sofferenza. A ciò si aggiunga, per le madri lavoratrici (che nel nostro paese sono circa 3 milioni), l’incertezza legata all’anno scolastico in corso: “Sono libera professionista in uno studio di consulenza, sono autonoma ma ho comunque dei capi – comprensivi- a cui rendere conto. Ma c’è un limite anche per loro. Questa incertezza fa in modo che alcuni miei clienti siano passati ad altri, perché la mia disponibilità è per forza di cose limitata”. La stessa incertezza assume contorni più definiti quando scrivono le piccole imprenditrici, le commercianti: un’attività che rischia di chiudere a singhiozzo, ad ogni raffreddore del proprio figlio, non può sostenersi.
Un secondo cardine di un gran numero di mail che ci sono pervenuti è, come prevedibile, lo smart-working. Negli ultimi mesi (improvvisamente) nel nostro paese se ne parla moltissimo, analizzando anche le varie configurazioni che sta assumendo nelle diverse imprese e notando, altresì, che in molti casi non è realmente smart working, quanto piuttosto home working. Per alcuni mesi, ci è parsa come una soluzione non solo sanitaria, ma anche ambientale. Tuttavia, alcune aziende faticano ad implementarla o a mantenerla: “Sono una mamma single. Lavoro come dipendente nella moda. La mia azienda non vede di buon occhio lo smart working e io sono terrorizzata dal pensiero del primo colpo di tosse dei miei figli”. Lo smart working, declinato in questo modo, non è una banalità, soprattutto se si hanno dei figli in età scolare: “Sono due settimane che mi faccio gli schemi con excel per organizzare il calendario da qui a fine anno, su chi va e a che ora va a prendere figlia 2 al nido e figlio 1 all’asilo, cercando di incastrare smart working alternato a congedi tra me e mio marito”. Oltretutto, non lo si può dare per scontato: “Mi hanno accordato lo smart working dopo tante insistenze da marzo, ma per loro è stato un favore concesso e nemmeno dopo mesi hanno capito che in smart working lavoravamo anche di più”.
Come vedevamo anche dai dati in apertura, c’è chi ha perso il lavoro o teme di perderlo: “Sono una mamma single di 36 anni con due figlie. A giugno ho perso il lavoro (contratto scaduto e mai più rinnovato) e da lì stavo aspettando notizie sulla scuola per ricominciare anche solo a cercarne uno”. Anche le imprese sono in difficoltà e alcune volte le risposte non sono in linea con le aspettative: “Ho chiesto di fare 36 ore settimanali anziché 40: mi hanno risposto proponendomi un licenziamento concordato”.
A volte, fare un passo indietro non è rassegnazione, ma appare come una scelta obbligata: “Ho tre figlie piccole: mi sono licenziata”.
E poi, il grande ostacolo per molte lavoratrici: la progressione di carriera. Sono anni che parliamo di glass ceiling e di segregazione verticale, ma, tra Covid ed incertezza sulle scuole, fare carriera sembra per molte un miraggio. Qui le testimonianze spaziano da “Quale carriera?” a “Tutti mi vogliono, riconoscono la mia professionalità, ma io non so che disponibilità posso dare, quali garanzie”. È difficile rimanere competitive sul mercato del lavoro, in questa circostanza: “Ho due figli piccoli e sono seriamente convinta che quest’anno scolastico segnerà la fine della mia carriera lavorativa. Quanto un datore di lavoro può passare sopra a ripetute assenze? Vivo con l’ansia”.
Il problema è, come sempre, prima di tutto culturale, perché nel nostro paese vige ancora la mentalità del padre breadwinner (che esce tra le intemperie a procacciarsi il cibo) e non quella più nordica del modello del double earner (in cui sono entrambi i genitori a provvedere alle necessità, anche economiche, della famiglia). Infatti: “So già che a casa in quarantena con i bambini ci starò io. Non abbiamo nonni qui e dove lavora mio marito non esiste il congedo parentale. E questo influirà (di nuovo) sulla mia carriera. Perché non puoi fare il capo stando a casa. Il mio presidente mi chiede come può farmi general manager se da un momento all’altro devo correre a casa.. dice che scherza, ma non è vero”.
Come rispondere a questa situazione? Alcune lavoratrici si stanno organizzando per lasciare il paese: “Stiamo anche cercando attivamente di emigrare, mandando CV in Lussemburgo e in Svezia, sperando che da qualche parte si apra qualche porta soprattutto per me: mi viene da piangere al pensiero di aver fatto università e dottorato tra mille sacrifici per ritrovarmi in casa a fare homeschooling improvvisato in 54 metri quadri”.
Altre si troverebbero anche in circostanze favorevoli per la propria professione, ma temono non solo il virus del Covid, ma anche quello della discriminazione di genere: “Ora il lavoro è ripartito e anzi, potrei dire che è ripartito benissimo. Il superbonus 110% ha portato nuovi clienti e nuovi progetti. Di questo dovrei essere molto contenta ma mi chiedo se riuscirò a portare avanti e a gestire tutto questo carico lavorativo, a seguire bene i cantieri avendo sempre l’incognita dei bimbi che potrebbero rimanere a casa al primo colpo di tosse. I nonni, molto preoccupati dal covid, ci hanno fatto capire che se i bambini dovessero ammalarsi non ci darebbero una mano. Questa settimana a 4 giorni dal rientro al nido, il piccolo si è raffreddato. Sono quindi rimasta a casa con lui perdendo ore lavorative che in qualche modo dovrò recuperare per non rimanere indietro. Sono molto preoccupata e arrabbiata perché questa misura incentiverà solo il lavoro di uomini professionisti lasciando indietro chi è madre professionista impegnata nel settore”.
Lo sappiamo: la maternità, in questo paese, si paga (ma non solo in questo paese, tanto è vero che in letteratura è un fenomeno dibattuto e noto come Motherhood Penalty): “Lavoro come impiegata per una grossa multinazionale ed essendo noi donne una minoranza e le madri ancora meno è come se fossimo trasparenti e parlassimo senza voce”. Sono numerose le testimonianze di questo tenore: “Sono in fondo alla classifica sociale dell’ufficio, in molti fanno fatica a salutarmi perché ho figli. Il lavoro me lo devo tenere per ovvi motivi”.
L’abitudine a riorganizzarsi e il senso pratico comunque, non vengono meno, anche in una situazione che assume contorni drammatici, se una giovane madre lavoratrice ci scrive: “La preoccupazione non è: “Sarà Covid?”. Ma “adesso, io come faccio?”.
E la domanda che dovremmo porci, sotto un profilo macroeconomico ritengo che sia questa: possiamo davvero, con una prospettiva di contrazione del PIL dell’11%, permetterci di non utilizzare appieno tutte le risorse del paese? Possiamo davvero rinunciare al lavoro delle donne (che quindi non produrranno reddito e non consumeranno), in un momento come questo? Non è che, per caso, questo ci condurrà a peggiorare gli esiti della crisi? (Spoiler: ovviamente, sì).
Twitter @economistaxcaso