Perché l’avanzo primario è importante, falsi miti ed errate concezioni

scritto da il 06 Ottobre 2020

Post di Luca Giangregorio dottorando in Social Sciences presso l’Università Pompeu Fabra di Barcellona e Ivan Giovi laureato magistrale in Economia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore e analista presso l’Osservatorio Globalizzazione, entrambi collaboratori di Kritica economica.

Nel contributo pubblicato qui su Econopoly l’11 settembre, in risposta al contributo pubblicato invece l’8 settembre di Enrico Mariutti, all’autore Fabrizio Ferrari preme per dimostrare come l’Italia sia una irrimediabile cicala, tema che è stato oggetto anche di ampio dibattito su Kritica economica. Con questo contributo, il nostro obiettivo è di confutare e puntualizzare le argomentazioni di Ferrari in favore delle opinioni del Mariutti.

Nel tentativo di tratteggiare l’Italia come una cicala, Ferrari, anzitutto guarda al tasso di risparmio e afferma che le cattive performance dell’Italia portino ad una conseguenza negativa per i tassi di accumulo di capitale e investimenti. In questo senso ci sembra utile chiarire meglio le dinamiche del risparmio privato e capire perché, in realtà, l’Italia non sia così cicala. Anzitutto, tralasciando la concezione tipicamente neoclassica – che ha origine anti-ricardiana à la Senior con l’introduzione del concetto di sacrificio del capitalista (utilità negativa) come contributo all’economia e cui compenso è il profitto – per cui è l’astinenza dal consumo i.e. risparmio a stimolare l’economia, è importante guardare a cosa determina un minor tasso di risparmio netto rispetto ai quattro frugali, ma comunque superiore alla media dei paesi avanzati.

In questo senso torna utile il “Capitale nel XXI secolo” di Piketty. Infatti, l’economista francese mostra nel lungo periodo come l’Italia abbia avuto in media un tasso di risparmio lordo pari al 15% del reddito nazionale. A rendere il tasso di risparmio inferiore al 10% del reddito nazionale è sostanzialmente il deficit pubblico: in tutti i paesi avanzati il risparmio nazionale risulta essere inferiore al risparmio privato per via dei risparmi pubblici negativi. Ne consegue che maggior livelli di indebitamento assorbono maggior quota di risparmio privato e che l’indebitamento pubblico risulta essere superiore rispetto agli investimenti pubblici, ossia parte delle spese correnti vengono finanziate a debito.

Tuttavia, questo significa necessariamente che siamo una cicala? Forse, se guardiamo agli scarsi investimenti pubblici. Ma in realtà, l’assorbimento di risparmio privato da parte del deficit pubblico significa che il settore privato sta finanziando il governo. In altre parole, il settore privato sta aumentando la sua ricchezza finanziaria, accumulando capitale grazie al risparmio pubblico negativo.

Infatti, l’ultimo rapporto di Bankitalia-Istat sulla ricchezza delle famiglie e società non finanziarie, afferma che la ricchezza netta delle famiglie italiane è più di 8 volte il reddito disponibile annuo e la componente che cresce di più è proprio quella della ricchezza finanziaria. Insomma, di capitale – che appunto altro non è che l’ammontare totale di attivi che possono essere posseduti e scambiati sul mercato – in Italia ve ne è in abbondanza, caratteristica non proprio di una cicala. Piuttosto, sarebbe utile chiedersi perché quest’abbondanza di capitale non corrisponda ad un maggior tasso di crescita e produttività.

Qui, come evidenzia già benissimo Mariutti nell’intervento dell’8 settembre, il nodo della questione rimane quello della produttività, diversamente da quello che si pensa però del capitale, non del lavoro e della specializzazione produttiva. Infatti, le riforme strutturali negli anni proposte – e alcune attuate – hanno sempre avuto l’obbiettivo di ridurre il livello dei salari reali attraverso la flessibilità del lavoro. Questo se per alcuni può sembrare una buona cosa, i.e. gli imprenditori, in realtà per l’economia nel suo complesso non lo è, perché ciò spinge l’economia a specializzarsi in settori a basso valore aggiunto e ad alta intensità di lavoro (labour intensive, che come scrive egregiamente Mariutti, non stimolano gli altri settori ad aumentare la produttività attraverso la domanda interna), ma anche sfavorendo gli investimenti (non ho necessità di investire in nuovi sistemi di produzione se il costo del lavoro è basso, non ho incentivo alla sostituzione), riducendo così il livello tecnologico nazionale e perdendo competitività sul resto del mondo. La questione del livello tecnologico del paese, soprattutto nelle imprese strategiche cioè quelle che producono beni capitali, non è per nulla irrilevante, infatti, siamo al paradosso che ad un aumento degli investimenti, aumenta la quota di beni capitali importati, come mostra la figura 1.

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Figura 1: Produzione beni capitali in Italia, 2000=100 (scala sinistra), investimenti fissi lordi Italia, 2000=100 e saldo attivo commerciale della Germania sull’Italia per i beni capitali (scala di destra), elaborazione su dati OCSE. Fonte: “La sostenibilità economica e finanziaria dell’industria lombarda” a cura di Està e FIOM.

Il secondo aspetto che ci preme sottolineare muove dall’affermazione “infatti, anche qualora si verificasse un avanzo primario positivo, il rapporto debito/PIL potrebbe ugualmente aumentare a causa della scarsa crescita del PIL (g(t)) e/o dell’eccessivo costo del debito pubblico (r(t))” e dalla tesi per la quale sarebbe inutile guardare all’avanzo primario perché il pagamento di interessi sul debito “è semplicemente un trasferimento a beneficio di alcuni agenti, i quali – anche grazie al reddito da interessi che guadagnano sul debito pubblico – contribuiscono alla formazione del PIL. In altre parole, il pagamento di interessi sul debito pubblico non è concettualmente diverso da un qualsiasi trasferimento dello Stato a favore di un qualsiasi agente economico

Secondo queste affermazioni, una prima conseguenza consisterebbe nel fatto che trasferire una risorsa ad un soggetto nella parte bassa della distribuzione dei redditi – come i percettori di un sussidio di welfare – è equivalente ad un trasferimento ai quintili superiori della distribuzione, in piena contraddizione con il principio di Pigou-Dalton secondo il quale un trasferimento dai più ricchi ai più poveri è desiderabile (a patto che i ricchi non diventano più poveri degli poveri destinatari di trasferimento). Inoltre, considerare gli interessi come un qualsiasi altro trasferimento e affermare che l’avanzo primario è un indicatore inutile significa sostanzialmente dichiarare che non esistono moltiplicatori.

Infatti, se è vero che gli interessi sul debito rappresentano un reddito per i detentori di titoli pubblici – così come ad un minor rendimento degli stessi corrisponde ad un maggior “effetto ricchezza” – gli effetti di spesa da parte dei detentori di attività finanziarie sono inferiori rispetto a quelli generati da un sussidio/pensione. In altri termini, la propensione marginale al consumo dei soggetti che detengono attività finanziarie è inferiore dato che si trovano nella parte più alta della distribuzione dei redditi (Indagine sui bilanci delle famiglie italiane di Bankitalia).

In merito all’inutilità dell’ avanzo primario, sappiamo che se il rapporto debito/Pil aumenta è perché il denominatore cresce meno rispetto alla spesa per interessi. Ma il tasso di crescita del Pil non è indipendente dalle variabili che compongono l’avanzo primario per l’esistenza dei moltiplicatori fiscali (dove quello della spesa è superiore a quello delle entrate). Inoltre, come introdotto da Haavelmo, anche un bilancio in pareggio produce un effetto positivo sul Pil proprio per il maggior effetto fiscale derivante dalla componente di spesa.

Non guardare all’ avanzo primario non consente di capire quali sono gli effetti della politica economica sul denominatore e soprattutto la giustificazione utilizzata dall’autore, ossia la concorrenza degli interessi al Pil, non è sufficiente perché il suo contributo positivo alla crescita non è sicuramente compensativo di una riduzione di spesa. Ed anche per questo non siamo cicale. Insomma, è sempre decisamente facile rifugiarsi nel “i dati non dicono questo”, salvo poi selezionare i dati che confermano unicamente le tesi che si vogliono presentare, oltretutto tralasciando le cause e le spiegazioni dei fenomeni economici. In pratica, facendo dire ai dati quelli che si vuole che dicano.

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