categoria: Res Publica
L’audace colpo dell’Organizzazione mondiale della tassazione e la fine della concorrenza
Il dibattito in materia di fiscalità internazionale appare viziato da un eccessivo orientamento all’attualità, alle presunte emergenze del momento, all’identificazione immediata di vincitori e vinti. In qualche misura, ciò è comprensibile: si tratta di una partita di grande e diretta rilevanza tanto per il conto economico delle imprese interessate, quanto per il capitale politico dei leader che si sono spesi sul tema. È naturale leggere l’impegno dell’Ocse sul progetto Beps – distillato il 5 ottobre scorso in un’articolata e incisiva strategia – con la lente del presente: ma, così facendo, se ne trascurano le implicazioni e le radici profonde, che poco hanno da spartire con le opportunistiche fughe in avanti di alcuni governi europei.
Per apprezzare la portata complessiva dell’iniziativa occorre astrarre, per un momento, tanto dagli strumenti tecnici impiegati, quanto dalle giustificazioni polemiche adottate, in modo da isolarne l’ispirazione teorica. Il primo elemento da sottolineare, in tal senso, è la continuità tra la recente elaborazione dell’Ocse e il percorso inaugurato nel 1998 con l’influente rapporto sulla “concorrenza fiscale dannosa“. Già, ma dannosa per chi? Non certo per le imprese, i consumatori o i contribuenti, bensì per i governi dei Paesi ad alta tassazione, che dell’Ocse sono i principali mandatari e che da anni denunciano il rischio di una corsa al ribasso in grado di azzerare le aliquote applicabili a certe fonti di reddito.
Vediamola in opera, questa corsa al ribasso, prendendo in esame il caso dell’imposta sul reddito d’impresa, su cui il progetto Beps si concentra quasi esclusivamente. Nei decenni passati, la progressiva apertura agli scambi internazionali e il ridimensionamento delle restrizioni ai movimenti di capitale hanno senz’altro incentivato la concorrenza fiscale, con un risultato tangibile: come si ricava dal grafico che segue, l’aliquota legale media dell’imposta sul reddito d’impresa nei paesi Ocse è scesa in trent’anni dal 47,5% al 25,5% – una riduzione certo significativa, sebbene il paventato azzeramento sia ancora lontano dal realizzarsi. L’andamento del gettito racconta una storia ancor più rassicurante per le amministrazioni finanziarie: mentre l’aliquota calava, gli introiti (misurati in proporzione del prodotto interno lordo) aumentavano costantemente, con l’eccezione di un rallentamento imputabile alla grande crisi del 2008.
Non si riscontra, dunque, alcun allarme relativo al livello complessivo della tassazione del reddito d’impresa, nonostante le stime esorbitanti dell’Ocse – da 100 a 240 miliardi annui “persi” dai governi (e non, si badi bene, “recuperati” all’economia privata). Il tema che rileva, semmai, è quello della sua distribuzione tra settori economici e, naturalmente, tra Paesi. Nella narrazione dell’ente parigino, con la nozione di concorrenza fiscale “dannosa” fa il paio quella di pianificazione fiscale “aggressiva”, da cui deriverebbe una “distorsione” nell’allocazione del capitale a livello internazionale.
Una simile ricostruzione tradisce due pericolosi pregiudizi: da un lato, si assume che le aziende debbano prestare un’acquiescenza supina alle pretese del fisco; dall’altro, s’ipotizza che possa sussistere una distribuzione – per così dire – naturale degli investimenti, impermeabile alla configurazione dei diversi regimi fiscali. In realtà, un’organizzazione dei processi aziendali che (tra l’altro) minimizzi il carico tributario dell’impresa non solo non ha nulla di “aggressivo”, ma anzi appare come un’ovvia declinazione delle responsabilità dei manager verso gli azionisti; e, in ragione di ciò, è comprensibile (e auspicabile) che le decisioni di stabilimento dei soggetti economici siano influenzate dalle specificità dei sistemi tributari.
A ben guardare, la grande dicotomia della fiscalità internazionale non è quella tra principio della fonte e principio della residenza o tra principio d’origine e principio di destinazione, bensì quella tra concorrenza fiscale e sovranità fiscale. Bizzarramente, illustrando la relazione tra il progetto Beps e la concorrenza fiscale, l’Ocse si dilunga sulla sovranità fiscale, finendo per sovrapporre due nozioni mutualmente esclusive.
Taxation is at the core of countries’ sovereignty, and each country is free to set up its corporate tax system as it chooses, including charging the rate it chooses. The work is not aimed at restricting the sovereignty of countries over their own taxes; instead, it is aimed at restoring and strengthening sovereign taxing rights by ensuring that countries can tax the profits arising from the economic activities undertaken there.
Pensare che la concorrenza fiscale si possa compendiare nella facoltà di un Paese di determinare autonomamente le proprie aliquote – a base imponibile intatta – è grottesco, così come lo sarebbe parlare di concorrenza tout court a proposito di due negozi che fissassero liberamente i propri prezzi in un regime in cui i consumatori fossero impossibilitati a preferire l’uno all’altro. È evidente che non possa esistere concorrenza fiscale ove non si preservino, per i governi meno esosi, la possibilità di attrarre investimenti che, a parità di condizioni, sarebbero destinati altrove; e per le imprese, l’opportunità di esercitare un pur rudimentale controllo sul regime d’imposizione a cui i propri utili sono soggetti.
Il quadro tratteggiato sin qui potrebbe sembrare eccessivamente fosco, in mancanza di un effettivo riscontro nelle proposte dell’Ocse. Chiariti i presupposti ideologici dell’operazione Beps, conviene, allora, affrontarne brevemente alcuni risvolti pratici. Un deciso giro di vite riguarderà il requisito della stabile organizzazione, che giustifica la pretesa impositiva dello Stato rispetto alle imprese non residenti: la lista delle eccezioni per attività preparatorie o ausiliarie sarà rivista in senso restrittivo e saranno scrutinate con particolare attenzione le ipotesi di frammentazione dell’attività tra imprese collegate e quelle di sovrapposizione tra filiali locali e casa madre nella predisposizione e conclusione dei contratti.
Come ha ribadito Raffaele Russo, intervistato sul Sole 24 Ore, non rientrano tra gli interventi caldeggiati dall’Ocse proposte più radicali come la ritenuta sulle transazioni elettroniche e la cosiddetta stabile organizzazione virtuale, da riconoscersi in forza di una significativa presenza digitale – si tratta dell’idea alla base della digital tax, rilanciata dal premier Renzi nelle scorse settimane. Invece di limitarsi a dare rilevanza ad alcune forme di organizzazione prima esentate o di difficile qualificazione, queste misure implicano il superamento dell’idea stessa di stabile organizzazione – e mettono in crisi il modello della concorrenza fiscale, a tutti gli effetti neutralizzando le decisioni di localizzazione delle imprese. Peraltro, come chiarito esplicitamente dall’Ocse, il fatto che non siano state raccomandate non impedisce che gli Stati procedano unilateralmente.
In una direzione simile puntano anche le disposizioni in materia di country-by-country reporting, in virtù delle quali le aziende multinazionali saranno tenute a condividere una serie di dati economici e finanziari con le amministrazioni fiscali dei Paesi in cui operano. Sorvolando sugli evidenti rischi per la riservatezza d’informazioni sovente strategiche e confidenziali, questa scelta di trasparenza assoluta appare propedeutica a meccanismi di apporzionamento dei redditi sul modello della Common Consolidated Corporate Tax Base, già ampiamente discussa in Europa e da poco riesumata dalla Commissione. Anche in questo caso, l’effetto sarebbe quello di sterilizzare le scelte organizzative delle imprese, limitando drammaticamente la concorrenza fiscale.
Per quanto imperfetto, lo strumento della concorrenza fiscale è l’unico in grado di frenare l’appetito dei governi e schermare in qualche misura i contribuenti dall’arbitrarietà del prelievo. Quello verso cui ci stiamo muovendo è, invece, un modello che svilisce i tradizionali principî del diritto tributario internazionale, rimpiazzandoli con meccanismi di redistribuzione della base imponibile che non hanno alcuna relazione con la produzione del valore.
Non meraviglia che l’Ocse faccia il proprio mestiere, tutelando gl’interessi del cartello dei Paesi ad alta tassazione – una funzione che le ha procurato l’etichetta (forse ingenerosa, ma suggestiva) di Organizzazione mondiale della tassazione. Quel che stupisce è che bastino la bandiera dell’equità fiscale e un utilizzo sapiente degli aggettivi per piegare la resistenza di consumatori, contribuenti e imprese (e dei Paesi a bassa tassazione).
Twitter @masstrovato