categoria: Res Publica
Per Mario Draghi un futuro a Palazzo Chigi o al Quirinale?
Da parecchi mesi ormai si affaccia sempre più spesso nel dibattito pubblico il tema dell’adeguatezza dell’attuale compagine governativa italiana ad affrontare la più grave crisi economica e sociale dal secondo (se non dal primo) dopoguerra. In effetti, le recenti stime della Commissione Europea prevedono una caduta del reddito nazionale nel 2020 nell’ordine del 10%, seguito da una lenta ripresa dovuta allo scarso potenziale di crescita dell’economia (stimato intorno allo 0.6% reale annuo), che porterebbe l’Italia a tornare a livelli di attività economica pre-crisi non prima di un decennio. Come necessaria conseguenza della caduta del PIL, il tasso di disoccupazione salirebbe anch’esso dallo 10,8% di fine 2019 a circa 12% stimato per fine 2020.
Secondo una narrativa corrente, questa caduta dell’attività economica e dell’occupazione avrebbe due conseguenze molto rilevanti. Da una parte, ne deriverebbe una crisi sociale di vaste proporzioni con ondate di scioperi e manifestazioni di strada. Dall’altra, produrrebbe un ritorno dei Non-Performing Loans nel sistema bancario italiano (che sono strettamente correlati ai tassi di occupazione e disoccupazione) sopra livelli di guardia, con il rischio di una riproposizione degli eventi di fine 2011 – 2012, quando il paese rischiò il default sovrano a seguito della tempesta che infuriava sui mercati finanziari.
A fronte di questo scenario apocalittico, una narrativa proposta da diversi esponenti appartenenti a tutto l’arco delle forze politiche, sostiene che l’attuale classe governativa non sia all’altezza di affrontare una crisi economico, finanziaria e sociale di così vaste proporzioni e che quindi si imporrebbe un ricambio di governo e perfino di classe dirigente. In teoria questo potrebbe avvenire con nuove elezioni politiche ma, sostiene ancora questa narrativa, tale strumento sarebbe precluso dalla successione di eventi che parte dal referendum costituzionale del settembre 2020 per confermare il taglio del numero dei parlamentari e porta all’inizio del semestre bianco del presidente Mattarella nell’agosto 2021 (passando per la sessione di bilancio di fine 2020 ed altre considerazioni di opportunità politica e galateo istituzionale).
Pertanto, nell’impossibilità di procedere ad un ricambio di governo e classe dirigente attraverso il passaggio elettorale, l’Italia dovrebbe affidarsi ancora una volta ad un governo tecnico sostenuto dal più ampio schieramento possibile di forze parlamentari, in modo da avere la legittimazione e forza politica per approvare le misure necessarie a fronteggiare la crisi descritta poco sopra. E per far ciò – conclude il ragionamento – bisognerebbe chiamare a guidare questo governo una persona al di sopra e di fuori dagli schieramenti politici con un’autorevolezza tale da poter agire efficacemente con il supporto del parlamento nel contrasto della crisi socio-economica e finanziaria. La persona individuata dai proponenti di questa narrativa sarebbe Mario Draghi, con l’accordo politico tra le parti che lo porterebbe, nel Gennaio-Febbraio 2022, a passare dalla Presidenza del Consiglio a Palazzo Chigi alla Presidenza della Repubblica al Quirinale.
A nostro avviso, questa narrativa ha indubbi punti di forza, a cui si accompagnano criticità che vale la pena esplorare.
Tra i punti di forza secondo si possono annoverare i seguenti:
1) È senz’altro vero che l’Italia sta affrontando uno dei passaggi più difficili della sua storia recente, con gli effetti economici e sociali di una pandemia che si sommano all’impatto sanitario che ha portato alla morte di decine di migliaia di persone a causa del Covid-19;
2) Da questa crisi socio-economica potrebbe in teoria scaturire una crisi finanziaria che parte dalla sostenibilità del debito pubblico (che la Commissione stima essere al 159% del PIL a fine 2020, con un deficit oltre l’11%) e poi si riverbera sulla solidità delle banche;
3) L’attuale maggioranza di governo Cinque Stelle-PD-LEU non sempre dà prova di solidità, pare lontana dal costituirsi come alleanza politica organica e si regge su numeri sempre più risicati, soprattutto al Senato;
4) Non tutti i rappresentanti della compagine governativa paiono essere sempre all’altezza del compito gravoso che devono affrontare, in stato di emergenza;
5) Un cambio di governo e classe dirigente attraverso il passaggio elettorale sembrerebbe precluso dalla consecutio temporum di referendum costituzionale confermativo, necessità di revisione dei collegi elettorali e opportunità di modifica della legge elettorale per entrambi i rami del parlamento; non opportunità istituzionale da parte del Presidente di sciogliere le Camere e far eleggere un parlamento che potrebbe essere politicamente non pienamente rappresentativo, ed inizio del semestre bianco; a cui si unisce la rilevanza della sessione di bilancio che generalmente sconsiglia lo scioglimento delle Camere nella seconda metà dell’anno solare;
6) Mario Draghi rappresenta senz’altro, per l’altissimo profilo personale ed il curriculum professionale, una riserva preziosissima della Repubblica, cui poter attingere in casi di crisi, o per posizioni di massimo rilievo istituzionale. E avrebbe senz’altro l’autorevolezza necessaria ad intraprendere quelle iniziative governative che difficilmente sarebbero proponibili da esponenti politici o anche rappresentanti istituzionali di minor calibro percepito.
A tali punti di forza, si contrappongono a nostro avviso le seguenti criticità in questa narrativa:
1) La crisi economico-sociale, e (in potenza) anche finanziaria è evidente, ma tale è anche la rete di protezione messa a disposizione dal governo (con poderosi scostamenti di bilancio) e dalle istituzioni Europee tramite i programmi BEI, SURE, MES ed adesso la Recovery and Resilience Facility, a cui si aggiunge il sostegno degli acquisti dei titoli della Banca Centrale Europea (che nella versione PEPP sono svincolati – nel breve termine – dalla Capital Key della BCE stessa e quindi possono essere utilizzati in modo selettivo maggiormente a favore dell’Italia).
2) Se è pur vero che l’attuale maggioranza di governo è fragile e spesso divisa, e non appare ancora come chiara scelta alternativa politica allo schieramento di centro-destra, è anche vero che numericamente si può rafforzare con il contributo di altre forze parlamentari, per esempio di singoli esponenti di Forza Italia, quasi a ricomporre quello schieramento che Romano Prodi battezzò “Ursula” (PD, M5S, Forza Italia) che ha contribuito ad eleggere il presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen al Parlamento Europeo;
3) Se questa maggioranza è divisa al suo interno, a fortiori la maggioranza che dovrebbe sostenere il governo Draghi sarebbe ancora più eterogenea e animata da obiettivi politici opposti;
4) Se è pur vero che non tutti gli esponenti di governo si sono sempre dimostrati all’altezza del proprio compito, è comunque vero che il governo ha – pur con tutti i limiti del caso – gestito l’emergenza Covid con un’efficacia riconosciuta in sede internazionale; ed il suo presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che gode del più alto gradimento tra gli attuali leader politici italiani, ha comunque negoziato efficacemente con i partner comunitari l’approvazione del Recovery and Resilience Facility che porterà all’Italia oltre 200 miliardi di euro nei prossimi anni tra prestiti a condizioni vantaggiosissime e sovvenzioni a fondo perduto;
5) Se anche si procedesse ad un cambio di governo che portasse Mario Draghi a Palazzo Chigi, la sua capacità di manovra sarebbe comunque limitata dall’eterogeneità della base parlamentare del suo governo, che potrebbe addirittura diventare variabile a seconda dei provvedimenti da adottare;
6) L’efficacia nelle istituzioni (di cui Mario Draghi ha dato amplissima prova nell’arco della sua pluridecennale esperienza) non necessariamente ed automaticamente si traduce in efficacia “nel paese”, laddove le controparti non sono necessariamente altri soggetti istituzionali, adusi alle regole del gioco, ma soggetti anche non istituzionali, che delle regole e del diritto fanno strame;
7) Il passaggio dalla Presidenza del Consiglio alla Presidenza della Repubblica è tutt’altro che scontato (tantomeno automatico) anche in presenza di un forte accordo teorico tra forze politicamente contrapposte, essendo l’elezione del Presidente il più delle volte una lotteria da cui spesso scaturisce un nome neanche immaginato all’inizio delle votazioni. Prova ne sia che nessuno dei più forti esponenti politici della cosiddetta prima repubblica (un esempio per tutti, Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio), è mai riuscito a comporre una maggioranza in grado di eleggerlo al Quirinale (a causa del voto segreto e del fenomeno dei cosiddetti franchi tiratori). Ma ciò potrebbe avvenire anche solo semplicemente se una delle forze politiche inizialmente contraente il patto si ritirasse anche alla luce del sole, motivando la scelta per esempio con l’impopolarità delle misure nel frattempo adottate da Draghi quale capo del governo.
Sulla base degli argomenti precedenti, ci pare di intravedere che i proponenti della soluzione “Draghi a Chigi” diano per scontata la riproposizione degli eventi che portarono all’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla Presidenza della Repubblica nel 1999, dopo che esso era stato capo del governo “tecnico politico” del 1993-94 e successivamente ministro del Tesoro e delle Finanze del governo Prodi nel 1996-1998. Ed in effetti Ciampi è stato il mentore ideale di Mario Draghi fin quando nel 1991, l’allora Governatore della Banca d’Italia Ciampi suggerì al ministro del Tesoro Guido Carli di richiamarlo in Italia dalla Banca Mondiale, dove era Direttore Esecutivo. L’esperienza di Governatore della Banca d’Italia che accomuna i due illustri personaggi rafforza il parallelismo e spinge all’assimilazione dei percorsi e degli esiti.
E tuttavia l’esperienza Ciampi potrebbe apparire solo come punto di riferimento ideale (i maggiori detrattori della soluzione “Draghi a Chigi” lo definirebbero “specchietto per le allodole” – riferendosi a quei parlamentari che potrebbero farsi affascinare dall’idea senza riflettere su tutto il percorso) che non necessariamente si potrebbe riproporre nella realtà profondamente mutata dell’Italia del 2020.
In questo senso, le esperienze di altri governi tecnici del passato possono offrire indicazioni importanti. Nella sua storia più recente, l’Italia ha avuto i seguenti governi tecnici: 1) Carlo Azeglio Ciampi (1993-1994); Lamberto Dini (1995-1996); e Mario Monti (2011-13), e sono stati conferiti incarichi di formare un governo tecnico a Antonio Maccanico (1996) e Carlo Cottarelli (2018), escludendo Conte (2018), che pur da tecnico e’ stato richiesto di formare un esecutivo politico tra due formazioni che si erano presentate separatamente alle elezioni (M5S e Lega).
Dell’esperienza Ciampi si è detto. Per quel che riguarda Dini, le cose andarono diversamente. Nella fase finale del suo governo, Dini (anch’egli proveniente dalle fila della Banca d’Italia, ed essendo stato ministro del Tesoro del precedente governo Berlusconi), formò un suo partito politico (Rinnovamento Italiano), che con il 4.3% ottenuto alle elezioni del 1996 contribuì alla vittoria dello schieramento guidato da Romano Prodi.
Mario Monti rappresenta l’esperienza più efficace nel ricordare il mancato automatismo del passaggio Chigi-Quirinale. Arrivato a Palazzo Chigi nei giorni drammatici del Novembre 2011 con l’Italia sull’orlo del default, e subito accolto a furor di popolo e sostenuto da un amplissimo fronte di forze parlamentari, Monti si era trovato a dover approvare una serie di misure di emergenza tra cui il Salva Italia, l’introduzione dell’IMU e le riforma delle pensioni, che alla prova dei fatti (e crediamo della storia) si dimostrarono decisive per evitare il fallimento dell’Italia e riportare il paese su un percorso di sostenibilità economico finanziaria. Inizialmente approvati con il voto favorevole di tutte le forze politiche a sostegno del governo (e principalmente Forza Italia e PD), questi provvedimenti sono stati via via disconosciuti sopratutto dallo schieramento di centro destra, lasciando di fatto il solo PD a difendere le politiche di austerità varate del governo tecnico alla vigilia del voto nel 2013. Con il risultato di consentire a Silvio Berlusconi la clamorosa rimonta effettuata a danno del PD nelle elezioni che videro l’esplosione del M5S e l’arrivo sulla scena del partito fondato dallo stesso Monti (Scelta Civica), che raccolse circa l’8-9% dei voti. Si ricorderanno i drammatici eventi che portarono alla rielezione (prima volta nella storia) del Presidente Giorgio Napolitano nell’aprile del 2013, quando lo stesso Mario Monti sedeva ancora a Palazzo Chigi e avrebbe potuto essere eletto (seguendo la logica di cui sopra) al Quirinale.
Le esperienze di Antonio Maccanico (a cui il Presidente Scalfaro conferì l’incarico di formare un nuovo governo nel 1996) e di Cottarelli, Presidente del Consiglio incaricato da Sergio Mattarella nel Maggio 2018 di formare un governo che portasse il paese alle urne in breve tempo, dopo l’approvazione della legge di bilancio, ricordano poi come – in assenza di un solido accordo politico tra le forze che dovrebbero poi sostenere il governo in parlamento) l’affidare l’incarico ad un tecnico (per quanto di grandissimo valore ed esperienza) non necessariamente si tramuta nella nascita del governo che da esso dovrebbe essere guidato.
Sulla scorta degli argomenti esposti in precedenza, ci sentiremmo di fare le seguenti considerazioni:
1) Esiste la possibilità (per taluni il rischio) che alcuni settori del centrodestra stiano avanzando l’ipotesi di un governo Draghi in modo puramente strumentale, al solo scopo di far cadere questo governo guidato da Giuseppe Conte e sostenuto dall’attuale maggioranza M5S – PD – LEU. Una volta raggiunto questo obiettivo, invece di contribuire a dare effettivamente vita al governo Draghi, il centrodestra potrebbe seguire una delle seguenti alternative:
a) Sostenere che, a causa del mutato quadro politico, l’ipotesi Draghi non sia più praticabile, dovendosi invece individuare un altro presidente del Consiglio incaricato; oppure
b) Appoggiare l’incarico a Draghi, ma far fallire il tentativo nella fase delle consultazioni (come accaduto a Maccanico e Cottarelli); ovvero
c) Far nascere il governo Draghi, anche concedendo la fiducia o un’astensione, per poi allontanarsene politicamente all’avvicinarsi della scadenza elettorale del 2022 o 2023.
2) Nel caso astratto che ad un certo punto si rendesse necessario o inevitabile un cambio di governo, riteniamo che l’ipotesi Draghi verrebbe testata solo di fronte ad un’autentica emergenza economico-sociale e finanziaria, che richiedesse al presidente Mattarella di ricorrere ad una delle più autorevoli “riserve della Repubblica”.
3) Se la condizione di cui sopra si verificasse, e cioè se fosse il presidente Mattarella a chiedere a Draghi di assumere l’incarico di formare il governo per gestire un’autentica emergenza che rischiasse di travolgere il paese, pensiamo che Draghi, per l’altissimo senso delle istituzioni che lo caratterizza, alla fine accetterebbe l’incarico, come fece a suo tempo il suo mentore Ciampi quando la stessa richiesta fu avanzata dal Presidente Scalfaro.
4) Se il governo Draghi avesse un largo consenso parlamentare, cementato (anche se temporaneamente) dalla necessità di gestire l’emergenza, avrebbe senz’altro la forza e autorevolezza di presentare e implementare le misure che si rendessero necessarie a stabilizzare l’economia, il quadro di finanza pubblica, e finanche il sistema socio-politico e finanziario.
5) La probabilità che, con il tempo, le forze politiche che sostenessero il governo Draghi, inizino a prendere le distanze dalle decisioni dell’esecutivo in vista dell’appuntamento elettorale rimarrebbe molto alta. Il PD sarebbe, come nel caso del governo Monti, probabilmente l’ultimo partito a sfilarsi; uno tra Lega, Cinque Stelle e Fratelli d’Italia probabilmente sarebbe il primo, a meno che…
6) … se davvero diventasse plausibile e conveniente a tutte le forze che sostengono il governo Draghi una sua elezione al Quirinale, le forze politiche che sostengono il governo manterrebbero la fiducia e l’appoggio fino all’elezione del Presidente della Repubblica, per potersela intestare.
7) Viceversa, qualora le forze politiche decidessero di non dare seguito al patto per l’elezione di Draghi a Presidente della Repubblica, è probabile che i “distinguo” politici inizierebbero da subito.
8) Alla fine del percorso, Mario Draghi probabilmente rimetterebbe il mandato nelle mani del nuovo Presidente della Repubblica, che con tutta probabilità gli chiederebbe di rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti in vista delle probabili elezioni nella primavera del 2022.
In conclusione, direi che coloro che attualmente sostengono l’ipotesi “Draghi a Chigi” in modo da poter poi avere “Draghi al Quirinale”, potrebbero semplicemente dimostrare di voler far buon uso del prezioso apporto che Mario Draghi può dare alla vita democratica del Paese anzitutto non chiamandolo in causa in una fase in cui il suo arrivo alla guida del governo non dovrebbe essere data per scontata. E, successivamente, impegnandosi fattivamente a eleggerlo Presidente della Repubblica nel 2022 con il loro voto nel collegio elettorale (Camere riunite con rappresentanti regionali).
Da quell’altissimo ruolo istituzionale, e per 7 anni, sarebbe in grado di guidare il paese senza condizionamenti politici come prima di lui hanno fatto illustri predecessori. L’esperienza degli ultimi anni insegna, infatti, che la Presidenza della Repubblica – lungi dall’essere un luogo per puri passaggi formali e timbrature “notarili” di decisione prese altrove – rappresenta lo snodo fondamentale della vita democratica del paese e dei rapporti politici ed economico-finanziari con l’Europa e con gli alleati geo-strategici dell’Italia.
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