categoria: Vicolo corto
I giovani laureati italiani: tanto talento al servizio di altri Paesi
Post di Valentina Soncini, studentessa presso l’università LIUC – Carlo Cattaneo di Castellanza, iscritta al primo anno di magistrale percorso Banche, Mercati e Finanza d’Impresa –
Secondo il rapporto Education at a glance, redatto ogni anno dall’Ocse, solo il 19% degli italiani di età compresa tra i 25 e i 64 anni è laureato (cifra che rappresenta la metà della media Ocse, pari al 37% circa). Molti neodiplomati (circa il 30%) optano per un percorso di laurea in ambito umanistico, ignorando che i tassi di occupazione più bassi risultano essere associati proprio a queste discipline, mentre i più alti si riferiscono alle discipline scientifiche, ossia Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica. Un servizio di orientamento permetterebbe ai giovani di scegliere la propria università conoscendo le possibilità di carriera in ambito lavorativo ad essa associate.
Negli ultimi dieci anni 182 mila laureati hanno lasciato il nostro Paese, di cui 29 mila solo nell’ultimo anno. Ad andarsene sono tantissimi giovani ad alto potenziale che potrebbero far crescere l’Italia attraverso l’innovazione e potrebbero contribuire ad uscire dalla crisi economica, demografica, educativa e occupazionale con cui da troppo tempo conviviamo. L’Italia, tuttavia, non riesce a valorizzare i propri neolaureati, che sono invece apprezzati all’estero. Essi sono specializzati in tutti i settori e provengono da tutto il Paese; circa la metà si stabilisce in Europa, gli altri migrano principalmente negli Stati Uniti e in Australia.
Quello che spinge all’emigrazione è la ricerca di un’occupazione in grado di ripagare gli sforzi fatti durante il percorso formativo, che offra un guadagno e delle buone prospettive di crescita a livello di carriera. Altri partono per curiosità e ambizione, in cerca di occasioni di sviluppo personale che l’Italia non è in grado di offrire. Chi termina gli studi, infatti, sente l’esigenza di mettere in pratica ciò che ha imparato e di apprendere qualcosa in più, di lavorare in un ambiente stimolante, con colleghi all’altezza e risorse che offrano una prospettiva di carriera.
Il mondo del lavoro di certo non incentiva a rimanere in Italia: l’Ocse stima che i laureati italiani con un’età compresa tra i 25 e i 34 anni guadagnano solo il 10% in più rispetto ai loro coetanei con un diploma. Al contrario, i laureati italiani tra i 55 e i 64 anni beneficiano di guadagni tra i più alti d’Europa (65%). È quindi possibile ribadire ancora una volta che gli anziani vengono valorizzati penalizzando i giovani, nonostante abbiano lo stesso titolo di studio.
All’estero è inoltre possibile trovare una qualità della vita più alta: secondo Eurostat, l’Italia manca di dinamismo culturale e sociale, guadagnandosi uno degli ultimi posti nella classifica della qualità di vita in Europa. Le società estere risultano essere più eque, con poca corruzione e nepotismo. Ma soprattutto, all’estero la meritocrazia non è solo un’utopia come nel Bel Paese.
Secondo l’Ocse, l’Italia ha il più alto gap educativo tra emigrazione e immigrazione: dal nostro Paese escono gli italiani con un buon percorso di studi e arrivano stranieri che hanno studiato meno. Ciò risulta essere dannoso per l’economia, poiché mancano coloro che potrebbero portare innovazione a livello tecnologico, ingegneristico e scientifico; ci si concentra invece su attività più semplici come la ristorazione, il turismo e l’edilizia.
Che il nostro Paese non investa abbastanza nei giovani non è una novità: secondo Eurostat, per ogni euro speso in educazione, l’Italia ne spende 3,5 in pensioni, il secondo numero più alto d’Europa (dopo la Grecia). E per ogni euro in università, ne spende 44 in pensioni, di gran lunga il numero più alto. Nelle società estere, invece, i giovani sono considerati un valore aggiunto, in quanto portatori di idee innovative. Infatti, i giovani italiani all’estero hanno l’opportunità di fare più esperienze lavorative rispetto ai loro coetanei che invece restano in patria. Se essi tornassero a casa, l’economia italiana potrebbe avere una svolta, poiché essi porterebbero con loro esperienza ed innovazione.
Il loro ritorno aiuterebbe a risolvere un altro problema che grava sul nostro paese: il gap demografico. Un rientro in Italia permetterebbe di ridurre il tasso di dipendenza (secondo Eurostat, per ogni persona in età pensionistica ci sono 2,8 persone in età lavorativa). A partire dagli anni Sessanta il tasso di natalità ha avuto un trend negativo: nel 1964 ci sono state 1.016.120 nascite, nel 1980 640.401. L’Istat ha stimato per il 2020 un calo delle nascite (da 432 mila a 426 mila nati) a causa del clima di incertezza associato alla pandemia in corso; nel 2021 potrebbe esserci una ulteriore diminuzione: il numero potrebbe ridursi a 396 mila.
Il contributo demografico alla crescita economica può essere stimato attraverso un indicatore chiamato demographic dividend, pari alla differenza tra il tasso di crescita della popolazione in età da lavoro e la popolazione complessiva; un valore maggiore di zero evidenzia un contributo positivo.
Negli ultimi venticinque anni e nelle simulazioni per il prossimo cinquantennio i dati e le previsioni prospettano un’evoluzione sfavorevole della composizione per età con una riduzione della quota di popolazione in età lavorativa e conseguentemente effetti negativi sulla crescita economica italiana. Se non si limita l’emigrazione di coloro che potrebbero creare ricchezza, il tenore di vita a cui siamo abituati sarà per forza ridimensionato.
È arrivato il momento che il nostro governo faccia qualcosa per incentivare il rimpatrio. In passato si è cercato di trovare una soluzione a questo problema, ma le agevolazioni proposte non sono state abbastanza pubblicizzate (il 21% degli italiani all’estero non sapeva della loro esistenza) e secondo il 75% degli italiani non erano sufficienti per rientrare.
Non possiamo sperare di risolvere tutti i problemi dell’Italia senza affidarci alla competenza e al merito. L’editore Raffaello Cortina ha spedito a tutti i parlamentari una copia del volume di Steven Sloman e Philip Fernbach “L’illusione della conoscenza”, dove si spiega quanto chiunque sappia pochissimo delle cose fuori dalla propria specifica competenza. La chiave della nostra intelligenza sta nelle persone e nelle cose intorno a noi, solo affidandoci a “mani sapienti e coscienze rette” (Menichella, cit.), potremo uscire dalla palude dell’immobilismo italico.