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Milioni di persone senza lavoro, ma i prezzi al supermercato aumentano
Solo nel mese di aprile, tre milioni e mezzo di persone sono state messe in cassa integrazione. A marzo, un milione e duecentomila. In totale, nel periodo dell’indagine, svolta dall’ISTAT durante l’emergenza sanitaria, che contiene un logico focus sul bimestre marzo-aprile 2020, 7.600.000 persone sono risultate ufficialmente inattive. In quei giorni, inevitabilmente, vuoi per processi sociali ansiogeni vuoi per istinto indeterminato, gli italiani hanno incrementato le proprie scorte addirittura del 17,8%. Secondo Altroconsumo, per farine e miscele si è giunti a una media d’incremento del 105,9%, con un picco del 187% nella quinta settimana dell’emergenza. Il volume di spesa per alcol, ammoniaca, igienizzanti et similia è aumentato dell’88,1%.
Lungo questo itinerario informativo, si potrebbe procedere ancora a lungo. Le fonti sono ormai piuttosto numerose e particolareggiate. E la divulgazione non è mancata. La questione tuttavia è un’altra. Per dirla in breve, i prezzi sono stati aumentati subdolamente e furbescamente. Non una tantum, si badi bene! Dalla lettura del Rapporto annuale 2020 circa La situazione del Paese, a cura dell’ISTAT, come s’è detto sopra, si apprende che la frequenza degli aumenti per i beni alimentari trasformati è salita del 54,4% solo nel mese di marzo. Per certi aspetti, il dato fa rabbrividire, tant’è che le segnalazioni di Altroconsumo hanno messo in moto l’Antitrust, che ha rivolto l’attenzione a 3.800 punti vendita all’interno del sistema della Grande Distribuzione Organizzata. In verità, la GDO non sarebbe l’unica colpevole. Con la scusa della sanificazione e della tassa COVID-19, alcuni parrucchieri avrebbero fatto lievitare il costo dei tagli mediamente del 25%, anche se alcuni sono arrivati a oltre il 60%: se ne parla specificamente in un articolo de Il Sole 24 Ore del maggio scorso. Non sono stati da meno i bar, dove i rincari sul caffè sono stati del 53,8%. Il Codacons, invece, ha fatto notare che le famiglie, nel 2020, spenderanno 536 euro in più al supermercato a causa dell’aumento dei prezzi.
Come sostengono alcuni, si tratta di naturali processi di scambio tra domanda e offerta. Nulla da eccepire. Dopo ogni catastrofe, qualcuno diventa sempre più ricco di qualcun altro e, soprattutto, qualcuno ha sempre quell’idea geniale che, incontrando i nuovi bisogni della gente, diventa presto monetizzabile. Il caso in specie, però, non è proprio così naturale e logico. Se alcune attività commerciali diventano prioritarie per decreto, la libera concorrenza si riduce ai minimi termini e si configura una sorta di oligopolio forzoso, allora l’aumento strategico e, in taluni casi, occulto dei prezzi potrebbe essere considerato come il segno d’un’amplissima responsabilità istituzionale. Nessuno, qui, sta evocando il calmiere d’un Caio Gracco, per carità. Una certa ‘vigilanza prudenziale’, tuttavia, sarebbe stata opportuna, oltre che doverosa. Il COVID-19, infatti, ha congestionato domanda e offerta fin quasi ad annullarne la dialettica economica che conosciamo. Il 45% delle imprese è stato chiuso per decreto, mentre un’azienda su sette ha sospeso spontaneamente le attività. Ciò ha causato una terribile contrazione dell’offerta, specie se si considera che il 70% delle imprese inattive ha dichiarato che il fatturato è sceso di più del 50% nel bimestre marzo-aprile. Il 41% di quest’ultime – continuano i redattori del Rapporto ISTAT – dava lavoro al 74% degli occupati nazionali; il che, nel primo trimestre del 2020, ha fatto registrare un calo del PIL del 5,3% rispetto al trimestre conclusivo dell’anno precedente.
La riflessione diventa ancora più ‘amara’, se valutiamo altri aspetti di domanda e offerta aggregate. Oggi, in Italia, il 60% delle società di capitale non è in grado di sostenere il proprio debito, mentre il 43% delle imprese italiane ha seri problemi di liquidità. Tra le altre cose, molto probabilmente, mediante il ricorso all’ex DL 23/2020, faranno crescere il proprio debito, a meno di volersi abbandonare all’insopportabile agonia, dato che la loro capacità di ottenere redditività operativa sembra inferiore al costo medio del capitale. In sostanza, è venuto meno l’equilibrio tra i fattori della produzione. Capitale e lavoro, nel contesto emergenziale, sono diventati disfunzionali, cosicché produzione aggregata e remunerazione dei fattori si sono trasformate in delle variabili oscure.
Solo nel mese di aprile, per esempio, 274.000 persone in Italia hanno perso il lavoro. Tale dato costituisce la peggiore flessione occupazionale degli ultimi sedici anni. A marzo, i numeri sono stati meno spaventosi, ma di certo non confortanti: -124.000 lavoratori. Insomma, la metafora del bollettino di guerra è scontata e, indubbiamente, inelegante, ma altrettanto indubbiamente congruente. Con quest’aggiunta, adesso, si può comprendere il motivo del richiamo a domanda e offerta aggregate. Il prezzo, infatti, svolge una funzione decisiva nell’equilibrio di cui abbiamo parlato sopra e delle spinte al rialzo, falsamente inflattive, se esasperate e continuate, potrebbero indebolire ulteriormente la fondamentale propensione al consumo dei prossimi mesi. Di certo, nonostante le altissime concentrazioni d’acquisto di certi prodotti, la spesa delle famiglie si è già ridotta del 6,6% e, secondo le stime dell’ISTAT, la flessione del PIL, nel 2020, sarà pari all’8,3%.
L’indice di produzione delle costruzioni è sceso di più del 50%. Il settore tessile ha perduto il 41,4%, la fabbricazione di gomma e materie plastiche ha subito un calo del 39%, mentre quella dei mezzi di trasporto del 38,4%. Gli indicatori, purtroppo, sono chiarissimi. E così pure le contraddizioni. Nel testo del Rapporto, si legge che “la gravità della condizione è aumentata”. La povertà assoluta del nostro paese, infatti, era stabile; non s’erano fatti grandi progressi: un milione e seicentomila famiglie, che si traducono in quattro milioni e seicentomila individui. Se a questo disagio socio-economico si aggiunge che i beni di largo consumo sono diventati sempre meno accessibili e i posti di lavoro altrettanto, allora occorrerebbe una misura d’urgenza, misura della quale non si ha notizia.
Gli ammortizzatori sociali, tra i quali, in questo periodo, spicca giocoforza la cassa integrazione (ordinaria, straordinaria o in deroga) dovrebbero essere considerati come espressioni d’una politica economica consequenziale, non già quali interventi di cui un esecutivo dovrebbe mostrarsi particolarmente fiero. La fierezza, al contrario, dovrebbe provenire da un piano d’incentivi e stimoli che aiutassero direttamente le imprese e agevolassero nuovamente l’occupazione. Di certo, l’indebitamento, per quanto avvenga a garanzia statale, appare una pessima soluzione: sia per il bilancio delle aziende sia, eventualmente, per quello dello Stato.
Il fatto è che non si può né si deve ragionare all’interno della finestra temporale emergenziale. Già a marzo, CERVED stimava una perdita di fatturato per le aziende italiane per l’anno in corso di 470 miliardi di euro. Tale perdita avrà ripercussioni, al momento incontrastabili, almeno fino a tutto il 2021 e, rebus sic stantibus, non si può sperare che l’occupazione abbia una sorte diversa. Lo shock, dunque, è multifattoriale. E sarebbe appena il caso di affidarsi più agli economisti puri che ai politici.
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