Locazioni e negozi, un credito d’imposta da fare all’esatto contrario

scritto da il 17 Aprile 2020

L’autore di questo post è Costantino Ferrara, vice presidente di sezione della Commissione tributaria di Frosinone, già giudice onorario del Tribunale di Latina, presidente Associazione magistrati tributari della Provincia di Frosinone –

Una delle misure anticrisi introdotte dal Decreto Cura Italia, a sostegno delle imprese penalizzate dal coronavirus, prevede l’istituzione di un credito d’imposta pari al 60% del canone di locazione del mese di marzo, per negozi e botteghe, a condizione che l’immobile locato rientri nella categoria catastale C/1.

L’agevolazione è pensata per agevolare quei negozianti che, magari costretti alla chiusura delle proprie attività, sono comunque tenuti a pagare l’affitto dei propri negozi, poiché nessuna norma tra quelle previste dai decreti sinora promulgati ha esonerato costoro dal pagamento del canone; né, tantomeno, esiste nell’ordinamento una norma precedente che consenta di sospendere l’affitto in caso di cessazione temporanea dell’attività.

In sostanza, pur nella debenza del canone per intero, l’impresa potrà recuperare il 60% dell’importo attraverso un credito d’imposta, utilizzabile in compensazione, per pagare ad esempio i contributi, l’iva o altri tributi.

Con la recente circolare n.8/e dello scorso 3 aprile, l’Agenzia delle Entrate ha reso un chiarimento, a tratti sorprendente, specificando che il credito spetta solamente nel caso in cui il canone venga effettivamente pagato al locatore, nonostante la norma non preveda affatto una tale condizione: “Ancorché la disposizione si riferisca, genericamente, al 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione”, afferma l’Agenzia, “a stessa ha la finalità di ristorare il soggetto dal costo sostenuto costituito dal predetto canone, sicché in coerenza con tale finalità il predetto credito maturerà a seguito dell’avvenuto pagamento del canone medesimo”.

Un’interpretazione che, a parere di molti, appare discutibile, poiché il tenore letterale della norma (art. 65 del DL 18/2020) e la stessa relazione tecnica lasciavano intendere tutt’altro. Come prospettato nel quesito sottoposto all’attenzione dell’Agenzia, l’articolo 65 citato prevede testualmente che il credito è riconosciuto <<nella misura del 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione di marzo 2020>>. Quindi, letteralmente, sembrerebbe spettare in relazione al canone pattuito senza necessità di verifica dell’eventuale pagamento del medesimo; peraltro, la relazione tecnica ha effettuato la stima sulla base dei contratti registrati che riportano il canone pattuito.

Nulla di fatto. Il credito spetta solo a chi è in grado di pagare l’affitto, che potrà recuperarlo quando riprenderà l’obbligo di versamenti fiscali e contributivi. Al di là del tenore della norma, l’interpretazione resa da chi sarà chiamato a fare i controlli va tenuta in debita considerazione ed è opportuno attenersi a tali indicazioni, onde evitare recuperi fiscali ed annesse sanzioni.
Ma ciò conduce ad una riflessione più profonda e nemmeno tanto complessa, a parere di chi scrive. E la conclusione del percorso argomentativo che ci si appresta a fare è che si poteva (anzi doveva) fare molto meglio, costruendo la misura in maniera diversa e maggiormente efficace, pur a parità di costo per l’erario.

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Partiamo da un presupposto. Chi chiude il negozio e di conseguenza smette di incassare, necessariamente si confronta con una crisi di liquidità che rende difficoltoso effettuare regolarmente i pagamenti, ivi compreso quello del canone. Dunque, la misura non è di alcun impatto e/o aiuto immediato per il negoziante che oggi è tenuto a corrispondere un importo al 100% (in un momento in cui è in difficoltà finanziaria), per poi recuperarne il 60% domani quando avrà riaperto. Già la prima contraddizione della norma appare evidente, laddove si chiede di sborsare del denaro in un momento in cui il denaro non entra (il negozio e chiuso), “in cambio” di un credito da utilizzare domani quando il negozio riaprirà (e quindi riaffluirà denaro).

Ciò che si verifica all’atto pratico è che molte imprese non pagheranno comunque l’affitto ai propri locatori, perché i soldi non ci sono e l’incentivo postergato non li crea di certo.
Il locatore, dunque, non percepisce il canone e il conduttore, di contro, si vedrà esposto ad azioni di recupero e sfratti che causeranno, in alcuni casi, la cessazione di molte imprese.
Eppure, sarebbe bastato invertire il meccanismo, cioè riconoscere il credito d’imposta al locatore, anziché al conduttore, in presenza di un canone di locazione eventualmente “non riscosso”, anche parzialmente. In altri termini, si poteva prevedere che, a fronte del mancato pagamento del canone da parte del negoziante, il proprietario dell’immobile potesse recuperare il 60% di quel canone non percepito attraverso il credito d’imposta.

Lo scenario, a parere di chi scrive, sarebbe completamente cambiato, dando vita anche a possibili accordi di riduzione e/o abbonamento del canone.

In primis, in questo modo, sarebbe stato tutelato l’interesse di entrambe le parti, poiché il locatore sarebbe stato più propenso ad accettare una riduzione dei propri introiti (che ci sarà comunque, giocoforza), sapendo di poter recuperare parte del mancato guadagno attraverso il credito d’imposta, mentre il conduttore avrebbe potuto respirare un po’, scontando il pagamento di un canone che, senza gli incassi del proprio negozio, farebbe fatica a pagare.
Anche le cause legate alla morosità, con annessi maggiori costi a carico di tutti (non solo le spese legali per gli esercenti, ma anche il costo della giustizia per lo Stato) sarebbero state in gran parte scongiurate: fermo restando, poi, che la morosità è causa di sfratto e lo sfratto è causa di chiusura dei negozi, cosa fortemente da evitare.

Dulcis in fundo, la manovra, così concepita, avrebbe avuto il medesimo “costo” erariale per lo stato, poiché lo sconto totale sarebbe stato parametrato comunque al 60% del canone di locazione, ovvero pressoché lo stesso budget utilizzato per introdurre la misura attuale. A volte non servono necessariamente più risorse per fare meglio le cose.

Del resto, si tratta di concepire le norme in base a ciò che accade concretamente nella realtà. Se il negoziante deve chiudere, difficilmente avrà i soldi per pagare l’affitto. Dunque, ha poco senso direzionare il credito in questo modo, legandolo ad un pagamento improbabile e difficile da eseguire. Di contro, l’inversione del credito d’imposta rappresenterebbe una sorta di “sospensione indiretta” degli affitti, misura invocata a gran tenore dagli esercenti, tutelando al contempo anche i proprietari degli immobili.