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Che c’entra la MMT con le politiche monetarie? Ecco le nuove prospettive
Post di Federico Polese, Fondatore di Simplify Partners SA –
Diffusione globale della pandemia e crollo del mercato azionario hanno occupato la scena planetaria nelle ultime settimane ma, sullo sfondo, si sono messi in moto altri fenomeni, portatori di cambiamenti nelle politiche monetarie e quindi nel modo di gestire il denaro, che potrebbero segnare una svolta epocale.
L’adozione, da parte delle banche centrali dell’area occidentale, di misure ispirate alla Modern Monetary Theory (MMT) ha avuto un’improvvisa accelerazione. In un mondo che, nel prossimo futuro, sarà verosimilmente caratterizzato da bassa crescita e bassi tassi d’interesse, queste misure favoriranno le imprese con elevata capacità d’innovazione, capaci di creare crescita e cash flow superiori alla media indipendentemente dall’andamento del PIL. I cash flow, scontati per tassi artificialmente bassi, decreteranno il successo di soggetti come Facebook, Apple, Google e dei loro nuovi concorrenti, ammesso che emergano.
Vediamo meglio che cosa è successo lontano dai riflettori e perché si arriva a questa conclusione.
Nei giorni scorsi la gran parte dei (molti) gestori con portafogli costruiti per essere buoni in tutte le stagioni ha dovuto vendere qualsiasi asset class. Motivo: alla base di molte gestioni c’è il principio della risk parity, che prevede la ripartizione del portafoglio in funzione (anche) della volatilità dei singoli investimenti.
Per contenere la volatilità è stata quindi necessaria una vendita generalizzata che ha determinato la flessione delle quotazioni di tutte le asset class (azioni, obbligazioni corporate ad alta o bassa qualità, titoli di Stato, con alto e basso rating, oro e, per altri motivi, petrolio). Considerata l’entità delle masse oggetto di questi movimenti, si è innescato un circolo vizioso che si è sommato alla crisi di liquidità dei mercati dei titoli del Tesoro americano (in atto dal settembre scorso) e al timore, fondato, di un blocco dell’economia globale.
La contemporaneità di questi fenomeni (e la memoria, ancora ben viva, di quanto accaduto nel 2008) ha indotto governi e banche centrali a misure senza precedenti per sostenere imprese, banche e famiglie. Le banche centrali, in particolare, hanno annunciato iniezioni di liquidità, infinita (FED) o molto elevata (BCE), e l’acquisto di obbligazioni (governative e corporate) per evitare il rischio che l’assenza di compratori generasse ulteriori vendite.
Le azioni delle banche centrali, unite a quelle governative per contenere la diffusione del virus, hanno calmato i mercati, prontamente risaliti di qualche punto, ma questo rimbalzo non deve ingannare. L’analisi delle crisi del passato indica che, nel 70% dei casi in cui il mercato ha stornato in misura superiore al 30% (com’è accaduto quest’anno), sono stati poi toccati nuovi minimi. E quando lo storno è stato seguito da una severa recessione globale la discesa è continuata per qualche mese.
Vediamo ora come l’azione delle banche potrebbe determinare un cambio epocale nelle politiche monetarie ortodosse fin qui seguite e, quindi, nel modo di gestire e selezionare gli investimenti.
Il nuovo paradigma neokenesiano
La MMT, una specie di teoria keynesiana sotto steroidi, teorizza (tra l’altro) che governi e banche centrali indirizzino l’economia verso la piena occupazione attraverso la politica fiscale e la creazione di nuova massa monetaria. La teoria, molto contestata, ha fatto molti proseliti dopo la crisi del 2008 quando le banche centrali si sono trovate a dover fornire sostanziale liquidità al sistema economico non solo per rilanciare lo sviluppo ma per permettere al sistema finanziario di sopravvivere.
Nelle settimane scorse prima la FED e poi la BCE hanno guadato il Rubicone spingendosi con decisione nel territorio delle massicce iniezioni di liquidità, ipotizzando addirittura finanziamenti diretti all’economia. Interventi che, per entità, potrebbero anche superare quelli dei governi. Si stima, per esempio, che il bilancio della FED (arrivato oggi a circa quattro trilioni di dollari in conseguenza dei titoli acquistati negli anni) possa raggiungere i dieci trilioni mettendo così la parola fine alle speranze di tapering e normalizzazione delle politiche monetarie auspicate dai teorici dell’ortodossia monetaria.
Tra le possibili implicazioni dell’escalation negli interventi della banca centrale americana, una dovrebbe far riflettere gli investitori: la combinazione tra politiche monetarie e fiscali potrebbe determinare, nel lungo termine, la fine del rally decennale dei Treasury (iniziato nel 1981). Nel breve, tuttavia, potrebbe andare diversamente, dato che gli andamenti del PIL e del rendimento dei titoli di Stato sono ancora correlati e, quindi, una discesa del primo potrebbe determinare un nuovo rally dei secondi.
La permanente vitalità, nel quadro delineato, di due tendenze deflattive (invecchiamento della popolazione e innovazione tecnologica) non distoglierà la banca centrale americana dal rigido controllo dei tassi d’interesse per tenerli allineati alla curva dei rendimenti. Il che, nel lungo termine, condurrà il rapporto rischio/rendimento in una zona priva d’interesse per gli investitori.
Altra probabile conseguenza che gli investitori dovranno tener presente è l’orientamento di lungo periodo delle politiche monetarie. Le enormi pressioni dei governi occidentali hanno accelerato in questi giorni l’introduzione della MMT, ma se il virus, com’è ragionevole ritenere, sarà un fenomeno temporaneo, queste politiche sono probabilmente destinate a durare: lo insegna la storia.
Gli effetti della monetizzazione del debito
Una monetizzazione di fatto del debito di tale entità ha due soli precedenti nel passato (nel giugno del 1920 e nel marzo del 1947, all’indomani delle guerre mondiali) e, in entrambi i casi, determinò un’inflazione a doppia cifra per via dell’aumentata velocita di circolazione della moneta.
Una prima derivata di questo fenomeno è che verrà meno, o diminuirà, la correlazione inversa tra azioni e titoli di Stato, con buona pace delle gestioni bilanciate guidate dal principio della risk parity.
Qualora, in questo scenario, si decida di ridurre il rischio vendendo azioni e titoli di Stato, perché l’unico asset temporaneamente sicuro è la cassa, questo implicherebbe una sensibile modifica delle politiche di gestione.
Si potrebbe, anzitutto, smettere di acquistare i titoli di Stato dei Paesi in cui le banche centrali intervengono per modulare il rendimento e tenere i tassi artificialmente bassi perché non c’è possibilità di performance. Questo indurrebbe a guardare verso titoli dell’area orientale (Cina, Singapore, Indonesia o India).
Ancora più interessanti le implicazioni per il mercato azionario. In uno scenario di tassi tenuti bassi dalle banche centrali, le azioni registreranno performance relativamente superiori con la probabile eccezione dei settori a rischio di nazionalizzazione (come accadde alle banche dopo il 2008), a cominciare delle compagnie aree, si assisterà a un livellamento tra gli operatori con le compagnie low non più competitive come in passato. La nazionalizzazione, inevitabilmente, porrà limiti alla gestione, come il divieto di buy back, la riduzione nella distribuzione dei dividendi o, ancora, limiti alle politiche occupazionali. Lo stesso, probabilmente, accadrà per le compagnie petrolifere.
La preferenza dovrebbe così andare a chi saprà dimostrare di crescere indipendentemente dall’evoluzione del PIL: un cash flow (reale o prospettico) che cresce più del PIL e si sconta a un tasso artificialmente basso crea extra valore rispetto alla media dei corsi di Borsa. Fino a oggi, generalizzando, aziende di questo tipo sono state le quotate al Nasdaq. Facebook, Apple, Netflix e Google (FANG), alle quali aggiungere probabilmente Microsoft, sono, in quest’ottica, le favorite.
Infine, l’oro. Nelle ultime settimane la volatilità è stata massima: prima è stato venduto massicciamente (un po’ dai gestori risk parity ma soprattutto dagli hedge fund, chiamati a coprire le margin call sugli arbitraggi dei Treasury), poi comprato dopo l’annuncio della manovra espansiva della Fed. Il prezzo dell’oro ha un limite storico al rialzo di 1.921 dollari/oncia, stabilito nel 2011 quando sembrava che le banche centrali del G7 stessero perdendo il controllo della crisi del debito nazionale (crisi che, nel 2012, portò al famoso e tranquillizzante “whatever it takes” di Mario Draghi). È improbabile che, nel breve, le banche centrali del G7 accettino di rivedere quei livelli, ma restiamo convinti che ci siano ragioni per avere anche oro in portafoglio e che, banche centrali più ortodosse, saranno sempre interessate all’acquisto.
Concludendo, e tornando al breve periodo, saremmo stupiti se, nell’attesa di capire l’entità della possibile recessione globale, lo S&P 500 non ritestasse i livelli minimi raggiunti il 23 marzo.