categoria: Draghi e gnomi
Eurodebito pubblico e privato, l’ultima spiaggia sarà ancora la Bce
Pare ormai ben condiviso il principio secondo cui la risposta per contrastare e attenuare gli effetti economici delle misure adottate contro la diffusione del virus debba avvenire da parte dello Stato, assorbendo parte delle perdite del settore privato con il proprio bilancio. Detto con le parole usate recentemente da Mario Draghi: “I livelli di debito pubblico dovranno essere incrementati. Ma l’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo”.
Se la risposta è condivisa nel principio, in Eurozona la discussione è impantanata su come (e se) adottare una risposta comune. Non esistendo al momento un organo veramente federale la risposta non può che passare per i singoli Stati. La sospensione del patto di stabilità e delle norme sugli aiuti di Stato riafferma la logica che ciascuno Stato dovrà fare da sé per introdurre una prima linea di difesa. Ed è una logica che, tenendo conto anche del ritardo con il quale un organo federale di nuova costituzione potrebbe iniziare ad operare, ha una sua razionalità.
Il dibattito si è fino ad oggi focalizzato sulle differenze nei debiti pubblici, e quindi sulla capacità di indebitamento aggiuntivo di cui ciascuno Stato dispone. Ma se l’intervento del settore pubblico è funzionale alla conservazione della capacità produttiva e di consumo del settore privato, le risorse che dovranno esser mobilitate non dipenderanno solo dalla capacità di indebitamento dei singoli Stati, ma, soprattutto, dalle caratteristiche dei loro sistemi economici. Lo shock provocato dalla pandemia è esogeno e simmetrico perché colpisce tutte le economie dell’eurozona, ma l’impatto che esso potrà avere in ognuna di esse può essere ben differente, perché esistono ancora significative differenze nel tessuto industriale e finanziario delle stesse.
Saranno le fragilità o i punti di forza del settore privato dei singoli Paesi a determinare la quantità di risorse necessarie e verso quali settori dovranno esser maggiormente impiegate. Economie con famiglie e imprese che hanno bilanci più solidi avranno, con buona probabilità, un conto a carico dello Stato più basso rispetto a quello di economie con il settore privato più fragile. Esaminare i punti di forza o debolezza dei vari settori privati nazionali dev’essere un fondamentale complemento per valutare l’eredità che questa crisi porrà a carico dei bilanci pubblici.
Esistono innanzitutto delle importanti differenze nei debiti privati, di imprese non finanziarie e delle famiglie residenti nei vari Stati, e quindi sono differenti le soglie di “resistenza” che il settore privato può avere prima che si attivino spirali distruttive di deflazione da debito (fig.1). Alcuni Paesi (Belgio, Slovacchia e Francia fra tutti) si presentano a questa crisi con livelli di debito privato significativamente più elevato rispetto a quello che avevano prima della crisi del 2007.
fig.1 Debito di imprese non finanziarie e famiglie in punti di Pil nel 2018. Fonte dati: Eurostat
Da considerare anche l’impatto che si può determinare sul settore immobiliare, in considerazione del ruolo che storicamente questo settore esercita nell’amplificare gli shock negativi sulla domanda interna. Paesi come Irlanda, Portogallo, Germania e Austria hanno visto negli ultimi anni importanti aumenti dei prezzi degli immobili, che sono ormai da mesi ai massimi storici (fig.2).
fig.2 Variazione percentuale dei prezzi nominali degli immobili rispetto al 2012. Dati rilevati nel terzo trimestre 2019. Fonte dati: Eurostat
Esistono poi differenze nel grado di dipendenza dalla domanda esterna, e quindi nella dimensione dello stimolo alla domanda interna che è richiesta per poter controbilanciare il calo che ci si aspetta nel commercio internazionale (fig.3). Inoltre, i Paesi maggiormente dipendenti dalla domanda estera subiranno tanti meno danni quanto più ampio sarà lo stimolo fiscale nelle economie estere loro clienti.
fig.3 Incidenza percentuale delle esportazioni di beni e servizi sul Prodotto Interno Lordo nel 2019. Fonte dati: AMECO
Ci saranno poi diversità nell’impatto che il settore bancario di ciascun Stato si potrà trovare ad assorbire, perché se l’esposizione verso la cosiddetta “economia reale” è un tratto comune alla gran parte del settore bancario europeo, ad esso si aggiunge il rischio che è significativamente aumentato per le grandi banche internazionali nelle loro esposizioni verso i Paesi emergenti (così duramente colpiti dal calo della domanda dei Paesi sviluppati), nella loro attività in posizioni derivate, ed in generale nell’attività del cosiddetto mercato dell’eurodollaro nel caso si dovesse rimanifestare uno scenario stile 2008.
Settori privati più fragili avranno pertanto bisogno di un sostegno pubblico più elevato, tanto che, alla fine, non è affatto certo come i vari Paesi usciranno in termini di aumento del debito pubblico. A quel punto, un’ordinata gestione dell’eredità di debito pubblico lasciato da questa crisi dovrebbe essere nell’interesse di ciascun Stato membro. Razionalità vorrebbe che sia un organismo federale, con autonoma capacità fiscale e di indebitamento, ad intervenire per sgravare i singoli bilanci statali dal debito assunto nel contrasto dell’emergenza. La soluzione che invece sta emergendo dalle indiscrezioni sul prossimo Eurogruppo e Consiglio Europeo, è, come al solito, una mezza soluzione.
La mutualizzazione del debito che avverrà con la capacità di indebitamento della Unione Europea, del Meccanismo Europeo di Stabilità e della Banca Europea degli Investimenti non è destinata a interventi diretti sul territorio ma a finanziare, con privilegio, gli Stati membri. Non ci sarà alcun tipo di mutualizzazione, perché ogni Stato rimarrà con il proprio debito nei confronti delle istituzioni europee, con il probabile stigma dei mercati (nel caso solo alcuni ne dovessero ricorrere) e maggiori difficoltà a rifinanziare il debito esistente. Ancora una volta mi chiedo quale sia la razionalità di tale soluzione. Si rischia una situazione simile a quella del 2012, quando le mezze misure (acquisti SMP, intervento EFSF/MES/Troika) portarono l’eurozona molto vicina al collasso.
Ma è proprio guardando a quell’esperienza che è possibile ipotizzare una soluzione di “last resort” per non disperdere il “capitale politico” investito nel progetto comunitario dinanzi alle reciproche ripicche e gelosie. La soluzione rimarrebbe quella di affidarsi al vero strumento federale di questa unione monetaria: la Banca Centrale Europea.
La BCE potrebbe sterilizzare l’impatto sulla sostenibilità dei debiti pubblici attraverso una semplice, ma rilevante, variazione al programma di acquisto per l’emergenza pandemica. Dichiarandosi disponibile a reinvestire per un periodo di tempo sufficientemente ampio (30 o 40 anni) quanto acquistato in termini di debito pubblico e di debito privato, la banca centrale solleverebbe “il mercato” dal doverli assorbire nei propri portafogli. Non si tratterebbe di una vera e propria monetizzazione, né tantomeno di una mutualizzazione del debito, perché gli acquisti rimarrebbero comunque in capo alle singole banche centrali nazionali. Ma resterebbe chiaramente una decisione di emergenza, alla quale ricorrere se, come avvenne nel 2012, il consenso al non disperdere il capitale politico investito nell’euro, non fosse in grado di poter essere canalizzato verso una risposta pienamente federale, con l’introduzione di interventi federali sul territorio dei vari Stati, finanziati con tasse federali e vero debito federale.
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