categoria: Vicolo corto
Il gregge prima dell’immunità. Cosa ha cambiato il virus, come ne usciremo
L’autore di questo post è Luca Bianchetti. Laureato in ingegneria e psicologia, ha un MBA. Ha fatto il consulente direzionale con società multinazionali, si è occupato di molti progetti di trasformazione delle organizzazioni e di ridisegno dei processi. –
Con l’esperienza si capisce che quando si sta nel mezzo delle cose spesso non si riesce a coglierle con la chiarezza e la profondità che si può avere dopo. Molte delle situazioni in cui mi sono trovato non mi sembravano così dense di significato come mi sono apparse a posteriori, magari raccontate da qualcuno più bravo di me. La caduta del Muro, il G8 di Genova, ma anche vicende come la gravidanza della mia compagna e la nascita di mia figlia.
Ora ci troviamo nel mezzo dell’evento più grande della vita di tutti noi che possiamo leggere queste righe. Chi ha vissuto la seconda guerra mondiale con la capacità di ricordarne qualcosa ha ormai ben oltre 80 anni.
Non starò a fare inutili analogie tra questa situazione e la guerra, ce ne sono molte, così come molte cose le differenziano. Certamente però questi tempi ci espongono all’incertezza, a restrizioni crescenti, a un potere distante e incontrollato, a scelte estreme e poco ponderate, a rinunciare all’aspettativa ormai scontata di essere curati fino alla guarigione, alla paura della morte e di sofferenze nostre e dei nostri familiari inimmaginabili fino a pochi giorni fa, alla vista e alle notizie della morte di persone sempre più vicine, ad essere privati persino del processo del lutto, all’impoverimento immediato e alla prospettiva di una grave crisi economica.
È inevitabile, e anche utile, domandarsi quali conseguenze avrà questo evento così potente, come queste esperienze individuali e sociali cambieranno la nostra visione del mondo. Cosa resterà, cosa sparirà, cosa cambierà per un po’, cosa cambierà per sempre. Utile per prospettarci cosa ci aspetta, utile per affrontare l’attesa che ci separa dal dopo, utile per predisporlo e per attrezzarci a fare quello che dobbiamo fare da bravi esseri viventi sul percorso dell’evoluzione: adattarci. Noi e le nostre organizzazioni.
Cercherò di farlo senza propendere per alcuna tesi, e a proposito voglio citare John Keats: “ (…) ho capito qual è la qualità che ci vuole per fare un uomo di successo, (…) intendo dire la Capacità Negativa e cioè quando un uomo è capace di stare nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione (…) perché incapace di rimanere appagato da una mezza conoscenza.”
Le giornate dell’isolamento, per quanto monotone e per molti poco attive, ci espongono a moltissimi pensieri e riflessioni, quelli formalizzati della stampa e degli articoli, ma soprattutto quelli che acquisiamo attraverso le chiacchiere tra persone, che si snodano in questi momenti con molta libertà, anche attraverso i social, uno strumento che mostra il mondo in un modo distorto ma molto ampio.
In questi pensieri si notano alcune tendenze, alcune nette, altre ambivalenti che provo a esporre.
Relazioni e vicinanza
In termini relazionali, si sente spesso che le cose non saranno più come prima per lungo tempo. La gente ha imparato a diffidare degli altri senza cattiveria. Ha acquisito, tutto in una volta, un automatismo simile al riflesso condizionato: quando vede un consimile si allontana e cambia marciapiede. Sembra la stessa cosa che capita quando mangiamo qualcosa che ci fa stare male e immediatamente dopo la sua vista ci provoca la nausea. Un meccanismo evidentemente innato e chiaramente evolutivo. Così profondo da farci pensare che non torneremo mai indietro, che avvelenerà i nostri rapporti e ci farà passare la voglia di abbracciare un amico o di baciare il nostro amore nuovo.
Eppure le grandi epidemie del passato sembrano scomparse in fretta dalla mente delle persone. L’epidemia di influenza Spagnola del 1918/19 fu disastrosa: provocò 600 mila morti in Italia, tanti quanti la guerra mondiale che stava per finire, ma non impedì al tasso di natalità del 1920 di superare quello del 1914 (l’ultimo utile al confronto prima della guerra. 31,95 nati per mille abitanti, contro 30,51). Segno che le persone non sentivano particolare esigenza di mantenersi distanti. Le due epidemie dette Asiatica del 1957 (30 mila morti e 25 milioni di contagi in Italia) e Hong Kong del 1968/69 (20 mila morti e 13 milioni di contagi in Italia) non hanno lasciato ricordi particolarmente sensibili nei miei familiari appositamente interrogati. I miei genitori si conobbero nel 1968 e io sono nato nel 1970. Mi sento di escludere che le vicende sanitarie abbiano rallentato lo svolgersi delle relazioni loro e dei loro amici, di cui conosco personalmente la storia e i figli.
Si dice che dovrà cambiare il servizio dei ristoranti, che i cinema distanzieranno le poltrone, che al lavoro non si faranno più riunioni. Eppure mi capita ogni tanto di sedermi nello stesso palco della Scala che ha visto succedersi tutte queste influenze, oltre a quelle del 1830/33, del 1889/92 e alle tante epidemie di vaiolo e colera del XIX secolo. Se qualcosa cambierà sarà perché il virus resterà attivo a lungo e dovremo trovare un modo per conviverci, non perché saremo cambiati noi. Ma nessun virus finora è sopravvissuto per anni con una diffusione tale da modificare le abitudini delle persone. Speriamo non sia così anche stavolta.
Società e valori
La cosa più vistosa e terribilmente dolorosa che si avverte è la scomparsa di tutte le esigenze speciali. Siamo tutti nella stessa barca e dobbiamo tutti stare al nostro posto. Ogni minimo scartamento è malvisto e genera una riprovazione ampiamente condivisa. Questo crudele restringimento della capacità di differenziarsi e comprendere l’altro non ammette nemmeno le eccezioni più ovvie. Le esigenze dei bambini, dei disabili, di chi ha disturbi, sono azzerate. Portare fuori i bambini è un orpello a cui si penserà in seguito. I provvedimenti fatti con l’accetta sono ritagliati male attorno ai requisiti più ovvi e comuni, figuriamoci se considerano gli ultimi e i problematici.
Tutto quello che esce dallo stretto indispensabile è visto con sospetto. Si genera una spinta equalizzante: dobbiamo soffrire tutti la nostra parte e non lamentarci per non affliggere gli altri che hanno già il loro fardello. Ognuno si tenga il suo e buonanotte. È una spinta moralistica, che fa apparire come non degne di considerazione tutte le cose che chiunque ritiene di conforto. E insieme al moralismo si fa strada la ricerca dei capri espiatori. Chi fa una passeggiata danneggia tutti (anche se non si sa bene come), l’acquisto di beni voluttuari è malvisto. Il chiacchiericcio dipinge queste cose, le uniche a disposizione con cui prendersela, come dei reali problemi e la politica li affronta per accontentare il consenso e sviare l’attenzione, legittimandoli come problemi concreti.
La focalizzazione sull’essenziale resterà facilmente nelle nostre menti a lungo. Perderà il carattere estremo di questa fase ma è facile immaginare che le esigenze che si sono aggiunte per ultime nella società, su un sistema di bisogni ormai consolidato e soddisfatto, perderanno la centralità che hanno avuto negli ultimi anni. Mi riferisco soprattutto ai temi della sostenibilità e della diversità, una serie di stereotipi centrati sulla correttezza politica, che verranno messi da parte a fronte dei timori che scuotono ciò che pensavamo di avere per certo. Auto elettriche, borracce e cibi cruelty free, come le loro degenerazioni come novax e simili, perderanno l’obbligo di considerazione che hanno avuto negli ultimi anni, nei quali erano passati dall’essere interessi di poche nicchie a diventare segni di appartenenza alla collettività.
Si tratterà di vedere se resterà un vuoto a impoverire ulteriormente la società di valori aggreganti. Oppure se riemergeranno quelli del passato, come la laboriosità, la competenza, la tranquillità economica piccolo borghese più o meno tutelata, che rievochiamo con la forte idealizzazione dei bei vecchi tempi. O ancora se saranno rimpiazzati da nuovi valori, magari maggiormente improntati alla competitività del mondo anglosassone o alla spietato controllo sociale di quello orientale.
Oppure, viceversa, aver sperimentato un assaggio della “fine del mondo” renderà più saliente e vivido il rischio di eventi disastrosi come l’innalzamento dei mari, i disastri idrogeologici, il cambiamento climatico. Sarà più di una previsione astratta, diventerà concreto e darà una nuova forza più compiuta e consapevole alla richiesta di sostenibilità.
In tutti i casi i valori che si affermeranno saranno privati del sistema di stereotipi che si era costruito, e dovrà generarsene un altro, augurabilmente all’insegna di una maggiore autenticità, portatrice di un atteggiamento veramente solidale o equamente meritocratico ma chissà, anche in una modalità moralistica o paternalistica che riproporrebbe una situazione un po’ ingessata, di gruppi di potere e clientele.
Politica
La docilità con cui il paese si è fatto privare delle più elementari libertà e si è assoggettato a una sostanziale reclusione è sorprendente. A fronte delle privazioni non ha preteso alcuna garanzia, si è trasformato in gregge prima di conseguirne l’immunità. Si avverte una vera e propria inclinazione a farsi imporre limitazioni, che conferma l’eterno bisogno di dipendenza nel momento della difficoltà. Il sistema politico non è stato in grado di proporre altro che una stanca liturgia di numeri sempre meno convincenti, nessuna prospettiva e anzi la privazione di essa, in continui “vedremo” e con modifiche quotidiane delle restrizioni, ispirate al “se non funziona abbastanza, aumentiamolo”. Il solo strumento fornito non è stato ad esempio una procedura per alleviare le difficoltà del fare la spesa, ma una autodichiarazione dalla logica zoppicante che ha attratto l’attenzione di tutti come fosse una cosa di effettiva utilità. La promessa di utilizzare l’esercito per le strade è stata accolta con soddisfazione, perché “in Italia tutti (gli altri) non rispettano le regole”. E se le regole non sembrano rispondere a una logica forte, non importa.
Si scorgono l’angoscia, l’accettazione dell’autoritarismo, l’idea che la sofferenza possa avere qualche funzione salvifica.
Significativa la vicenda del tracciamento delle persone attraverso i telefoni cellulari. Fino a che è stato discusso tra persone competenti è stato trattato per ciò che in effetti è: uno strumento per individuare i potenziali contagi, fare test mirati e gestire l’isolamento col fine, in definitiva, di limitarlo il più possibile. Non appena è apparso sulla grande stampa si è trasformato in una sorta di braccialetto elettronico per verificare la consegna della reclusione generale, la più ampia possibile.
Tutto questo sembra spianare ulteriormente la strada alle tendenze autoritarie di cui si colgono da qualche tempo abbondanti segnali, eppure può anche esserci l’aspettativa che tanta inerzia e così poca sostanza metta a nudo l’inadeguatezza di una classe politica costruita in un’epoca in cui la chiave di giudizio del pubblico è stata l’affinità percepita tra sé e i candidati, anziché la competenza.
Sistema economico
L’enorme portata dei danni economici e la necessità di mettere in condizione di vivere i molti che hanno perso il reddito senza avere risparmi, obbligheranno gli Stati ad acquisire un peso nell’economia ancora superiore al passato, superando qualunque ragionamento sul bilanciamento tra liberismo e statalismo.
L’esito prevedibilmente disastroso dell’epidemia negli Stati Uniti, associato alla mancanza di tutele universali per il lavoro e la salute, incrinerà anche la roccaforte del pensiero privatista.
A livello politico questo sembra mettere fuori gioco le istanze liberiste che seppur minoritarie hanno avuto qualche ruolo negli ultimi venticinque anni in forma di soluzioni tecnocratiche. Sembra prospettarsi un rafforzamento delle tendenze stataliste che negli ultimi si sono sposate a visioni sovraniste, nazionaliste e populiste. Il nostro paese incasserà verosimilmente anche dei rifiuti da parte delle autorità dell’Unione e dagli altri paesi europei, che daranno ulteriore vigore a queste posizioni.
Una visione nazionalista è alimentata anche da diverse altre necessità. Chiudere i confini per evitare il contagio, anzitutto: Schengen diventa inapplicabile senza necessità di discussioni, realizzando ciò che fermentava sottotraccia ma restava indicibile fintanto che era collegato alle istanze anti-migratorie. La difesa del proprio paese davanti al pericolo della malattia ha spinto tutti i paesi ad accaparrare per sé le risorse sanitarie disponibili, mostrando evidenti asimmetrie di valutazione: la Germania che, prima di essere dissuasa, trattiene la mascherine nei suoi magazzini viene condannata ma altrettanto si fa con il commerciante italiano che vende respiratori all’estero. La ricollocazione delle catene produttive nei paesi occidentali evidenzierà il problema di accedere a materie prime su cui abbiamo perso la presa geopolitica e accenderà rivalità internazionali basate sul mero potere negoziale.
Lo spostamento verso una condotta assistenziale sarà reso inevitabile anche dalla oggettiva condizione di necessità di vaste categorie di lavoratori che non possono contare su alcuna riserva di ricchezza propria o del datore di lavoro: colf, camerieri, avventizi, collaboratori con contratti brevi o interrompibili se non addirittura privi di contratto. Peraltro molte aziende non disporranno della liquidità per onorare i contratti di lavoro in essere, pur volendolo e indipendentemente dalla disponibilità di sostegno statale, fintanto che non si concretizzi in cassa prontamente accessibile. Si prospettano differenze sociali ancora più marcate, di natura molto diversa da quelle evidenziate in questi anni di dibattito sulle disuguaglianze, individuate finora soprattutto tra super-ricchi e categorie con difficile accesso al lavoro. Poi queste disuguaglianze si evidenzieranno in modo bruciante all’interno del cuore della società, delle sue categorie più rappresentative e generali.
Nelle organizzazioni si può immaginare che questo porterà, nella misura in cui la disponibilità economica esista e quindi per definizione nel settore pubblico, a una maggiore collusione con atteggiamenti egualitaristi, corporativi o di rivendicazione di bisogni, anziché al riconoscimento dei contributi più produttivi.
D’altro canto la minore capacità di generare ricchezza e la necessità di riconfigurare le filiere produttive, viceversa, potranno spingere verso soluzioni veramente funzionali e che richiameranno competenze che abbiamo recentemente messo da parte. La produzione manifatturiera non potrà più affidarsi esclusivamente ai paesi orientali, ma dopo decenni di mercati abituati a prezzi bassi non potrà che essere riorganizzata in occidente con gli stessi obiettivi di efficienza, basati su pratiche poco coerenti con la cultura della tutela accennata prima.
In generale si deve osservare che quanto più ci si occupa di tutele quanto più si assume una mentalità diversa da quella che produce sviluppo economico e sociale, proprio in un momento in cui la stasi prolungata ed estesa rende necessario realizzare una cospicua crescita, anche solo per soddisfare aspettative già consolidate in passato. L’atteggiamento che consegue risultati è piuttosto quello dell’ottimismo della volontà, orientato all’esplorazione, che tollera il rischio e ha fiducia negli elementi credibili, senza richiedere dimostrazioni puntigliose.
Organizzazione
Il passaggio forzato allo smart-working è stato salutato da un entusiasmo generalizzato. Si dice che nulla sarà come prima attribuendo alla nuova modalità dei vantaggi intrinseci. Certamente la costrizione avrà abbattuto le resistenze e le strutture avranno molto più spazio di organizzarsi senza vincoli logistici. Forse questo aiuterà a riconoscere i veri benefici della presenza fisica, che smetteranno di essere associati alla pretesa di controllo e si riveleranno nella loro vera essenza, fatta di comunicazione implicita, socialità, influenza reciproca, empatia, intesa, sintonia. La limitazione dei contatti diretti alle occasioni in cui si desidera e si verifica la sussistenza di queste condizioni, viceversa, evidenzierà l’efficacia dello smartworking in tutte le altre occasioni. Nel favorire la concentrazione sull’impegno personale e l’esplicitazione del contributo individuale all’organizzazione, spingendo a una compiuta assunzione di responsabilità sui risultati, più dei sistemi di incentivazione che puntano sulla motivazione estrinseca.
È interessante notare anche come l’isolamento casalingo, con tutti i mezzi tecnologici e informativi a disposizione, realizzi quelle condizioni che secondo il luogo comune consentono di lavorare in pace sugli obiettivi di lungo periodo, di pensare a cose non immediatamente necessarie, di ampliare gli orizzonti. Nelle aziende è diffusissima la giustificazione autoindulgente secondo la quale le urgenze e l’interferenza delle relazioni destrutturate con i colleghi, le telefonate, le emergenze, la pressione, sottraggono il tempo che si vorrebbe dedicare allo sviluppo delle idee. Eppure non pare di rilevare grandi idee partorite in questo periodo. Al contrario sembra di constatare una migliore efficienza delle attività già strutturate. A conferma del fatto che il sale della creatività sta nelle influenze reciproche e nelle relazioni.
Infine, la tendenza a tagliare il futile, il passaggio dal piano della comunicazione a quello della concretezza, il verosimile ritorno in occidente delle produzioni manifatturiere per differenziare i rischio di fornitura, riportano in auge le competenze della parte più anziana della popolazione attiva, di chi ha conosciuto le organizzazioni gerarchiche e strutturate, di chi ha visto i processi produttivi, di chi ha imparato dei mestieri. Una parziale rivincita delle generazioni malviste dalla rivoluzione digitale. Si tratterà di vedere come sapranno interagire con le generazioni più giovani, divise tra gli inesperti, prigionieri del sistema del precariato, e i nuovi profeti, portatori di una cultura organizzativa appena affermata ma forse già superata dagli eventi.
Twitter @lbianchetti