Partite Iva, Quinto Stato senza tutele ed emblema di una società diseguale

scritto da il 30 Marzo 2020

Qualche giorno fa Alessandro Baricco su Repubblica ha invitato gli intellettuali a far emergere pensieri “audaci” per la fine dell’emergenza coronavirus. Sì, ne usciremo. Presto o tardi ci libereremo di questo maledetto virus.

Tra le cose scritte da Baricco, una mi ha colpito e la riporto tale e quale: “Se c’è un momento in cui sarà possibile redistribuire la ricchezza e riportare le disuguaglianze sociali a un livello sopportabile e degno, quel momento sta arrivando. Ai livelli di diseguaglianza sociale su cui siamo attualmente attestati, nessuna comunità è una comunità: fa finta di esserlo ma non lo è. È un problema che mina alla base la salute del nostro sistema, che sbugiarda qualsiasi nostra ipotetica felicità e che si divora qualsiasi nostra credibilità, come un cancro”.

Allora un punto chiave della ricostruzione post coronavirus sarà disegnare un sistema di tutele per le cosiddette partite Iva, ossia tutti coloro che vivono con contratti a tempo determinato, gli ex co.co.co, i co.co.pro, i lavoratori autonomi, coloro che se fanno un giorno di malattia, non ricevono alcun sussidio, le ferie non esistono, gli orari di lavoro impossibili.

Non è più possibile avere un dualismo fortissimo tra chi è dentro il sistema – gli insider – coloro che sono dentro, gli ipertutelati – in particolare i dipendenti della Pubblica Amministrazione – e tutti gli altri – gli outsider – senza alcuna garanzia. Come scrive Maurizio Ferrera (La società del Quinto Stato, Laterza, 2019), l’impoverimento e l’insicurezza economica generano risentimento sociale. Più la frustrazione è radicata, più si traduce in rabbia e ribellione anche violenta.

In Italia non è stato creato un welfare a sostegno della concorrenza. Il nostro sistema di tutele è stato disegnato per periodi di crescita infiniti e senza discontinuità. Beniamino Andreatta sosteneva che in Italia “lo Stato sociale non si è attuato, come nel caso degli esempi nordici, a partire da una programmazione che nasceva da una idea di welfare: è nato sotto la spinta della pressione politica, affinché si tutelassero taluni interessi piuttosto che altri. Ha prevalso l’interesse alla sicurezza di fronte alla malattia e alla mancanza di reddito nell’età anziana della vita. Sono rimasti invece sacrificati quegli istituti propri del Welfare State che riguardano la protezione della disoccupazione e delle condizioni estreme al di sotto della linea di povertà”.

In un’epoca “liquida” (Zygmunt Bauman, cit,) è indispensabile disporre di politiche attive, che non ostacolino bensì facilitino il passaggio da un lavoro a un altro. Il nostro welfare è stato costituito quasi esclusivamente su politiche passive – cassa integrazione ordinaria e straordinaria, cassa in deroga, mobilità, prepensionamenti – le quali si concludono inevitabilmente su un sistema pensionistico che sostiene i pensionandi fin da giovani: a 45 anni si entra in cassa integrazione, poi in mobilità, successivamente si va in pensione, che viene naturalmente calcolata con il sistema retributivo, così si scaricano i costi sulle generazioni successive e sul debito pubblico.

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È vitale mettere mano al Welfare State basato solo su pensioni e politiche passive. Come scrisse Ernesto Rossi, tra i fondatori di Giustizia e Libertà e poi arguto commentatore sul «Mondo» di Mario Pannunzio, dobbiamo combattere l’assistenzialismo parassitario per creare un sistema capace di combattere la miseria senza creare dipendenze: «I sindacati degli operai delle grandi imprese si valgono per innalzare barriere sempre più alte in difesa di queste oasi di privilegio, […] bloccano i licenziamenti togliendo così la convenienza di tentare nuove strade e di iniziare nuovi lavori che potrebbero occupare saltuariamente la mano d’opera. […] Il dinamismo economico ha un costo […] rifiutarsi di pagare questo prezzo significa rinunciare al progresso».

Se un alieno arrivasse sulla Terra e chiedesse cos’è una partita iva, gli direi: “È un soggetto strutturalmente precario, caratterizzato da una forte instabilità lavorativa, vulnerabilità economica e scarsa protezione sociale. Se sei giovane, la probabilità di essere senza tutele, è ampia”. Come diceva Checco Zalone in “Quo vado”, “Si chiama tredicesima… se il tuo cuore non conosce questa gioia, allora taci, perché i tuoi dèi ti hanno condannato alla partita Iva”.

Baricco chiude il suo pezzo invocando uno scatto felino d’azione: “Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare”. A me, studioso vorace delle Carte di Paolo Baffi – governatore della Banca d’Italia dal 1975 al 1979 -, queste parole hanno ricordato una sua lettera del 1989 a Guido Carli: “Sarà forse uno scossone violento quello che scuoterà il Paese dal suo torpore”.

Siccome crediamo nella forza dello scuotimento, i giovani e le partite Iva devono essere supportate nelle loro carriere discontinue, non essere considerate persone invisibili, a cui il sistema di welfare ha riservato le briciole.

Così come l’Inps eroga un sussidio ai pensionati retributivi, dovrebbe essere una priorità trovare le risorse per “tamponare” i periodi di inattività del lavoratore autonomo. I tedeschi spendono il 10% nel sistema pensionistico, noi oltre il 16%. Impariamo da loro. Per prima cosa chiudiamo quota 100 (vi sembra normale mandare in pensione i medici e gli infermieri e poi ora nel mezzo dell’emergenza Coronavirus doverli richiamare in servizio?) e riduciamo i sussidi esagerati (fino a 15mila euro al mese per 7 anni ai piloti!) regalati ai lavoratori di Alitalia, un vuoto a perdere.

Nel quadro di Pellizza da Volpedo (1901) il “Quarto Stato”- quarto strato popolare in contrapposizione a nobiltà, clero e borghesia – avanzava compatto nel chiedere nuovi diritti. I borghesi e i capitalisti erano spaventati. I giovani in quest’Italia senza speranza che non fa più figli hanno ben pochi diritti e ancor meno forza politica. Sono “ambasciatori della fame” (il nome di un bozzetto precedente del pittore, ndr). Qualcuno, per favore, subito dopo questa pandemia, ha il coraggio di metterci la faccia?

Twitter @beniapiccone