categoria: Econopoly
Coronavirus, cosa ci insegnano le crisi del passato
La crisi causata dal proliferare del coronavirus è sicuramente una crisi per molti versi atipica. Ciononostante vale la pena ricordare che numeri drammatici come quelli visti nelle Borse in questi giorni non sono un caso isolato nella storia economica. In passato le economie mondiali hanno dovuto affrontare diversi periodi duri, in cui i principali indici azionari hanno vissuto ribassi da record contrastati attraverso importanti progetti di politica economica, sia monetaria che fiscale. Questa, dunque, non è la prima crisi, non sarà l’ultima, e proprio per questo riguardare ai difficili periodi economici precedenti può esserci di aiuto.
1999-2003: La Crisi Argentina
Tra il 1990 e il 1998 l’Argentina ha vissuto un periodo di forte espansione: crescevano il Pil, le esportazioni e il MERVAL, l’indice di borsa. Quest’ultimo ha raggiunto nel mese di luglio 1997 un picco di 859 punti. Tuttavia l’adozione da parte del governo di un piano di convertibilità sul rapporto peso/dollaro e di forti riforme sociali ha portato a conseguenze disastrose. A dicembre 2001 l’Argentina ha dichiarato la bancarotta, i bond argentini sono diventati inesigibili, il Fmi ha bloccato i prestiti precedentemente contratti dal paese e il governo aveva contingentato i prelievi. Con il successivo abbandono dell’obiettivo di parità del peso argentino con il dollaro, la ripresa si è fatta attendere fino al 2003, con l’elezione di Néstor Kirchner.
Durante il suo mandato, grazie a importanti sconti sui prestiti concessi dal Fmi, il Pil è cresciuto con ritmi simili a quelli cinesi, con punte addirittura del 10%. La prospettiva economica era del tutto differente da quella degli anni Novanta: la valuta debole aveva reso le esportazioni argentine competitive all’estero e aveva scoraggiato le importazioni. Inoltre, l’alto prezzo della soia sui mercati internazionali ha causato un grande afflusso di valuta estera, specialmente cinese. Il peso, lentamente, è stato oggetto di rivalutazione da parte del governo, il quale è stato in grado, nel tempo, di concedere prestiti accessibili alle imprese, incoraggiando la produzione locale grazie ad un rigoroso controllo della spesa in altri campi. Anche grazie a questo il MERVAL, che dopo il crollo di novembre 2001 aveva toccato i 193 punti, ha intrapreso un’impennata che si è arrestata solo nel 2008, con la crisi dei subprime: a ottobre 2007 ha raggiunto un massimo di 2354 punti (vedi grafico 1). Il crollo del 2001, a partire dal collasso del 1997, è stato del 77%. Ma la successiva ripresa ha raggiunto uno straordinario +1119% nel 2007.
2007-2013: la Grande Recessione e la paura di un nuovo ‘29
Nel 2006 il calo dei prezzi delle case, unito alla scarsa qualità dei mutui concessi per queste, ha scatenato un vero e proprio terremoto all’interno del sistema finanziario americano. Dal fallimento della Lehman Brothers nel 2008, i prezzi delle azioni sono crollati in tutto il mondo, i consumatori avevano ridotto la spesa, tagliando a ruota investimenti e produzione delle imprese. Negli Stati Uniti è intervenuta la Federal Reserve a portare il tasso di interesse sul dollaro dal 5,2% del 2007 allo 0,16% nel dicembre 2008. Poi è stata la volta del governo con il TARP (Troubled Asset Relief Program), che all’inizio prevedeva una soglia nominale massima di 700 miliardi di dollari, ma è finito per ammontare a 7700 miliardi di dollari. Si trattava di liquidità immessa nel mercato bancario al tasso dello 0,16% dalla Fed, a sostegno delle banche nel triennio 2007-2009. Grazie all’azione americana e non solo, gli istituti di credito sono stati in grado, lentamente, di riprendersi, ma si trattava di una vittoria di Pirro: i governi si sono ritrovati con elevati debiti pubblici ed enormi disavanzi di bilancio, per via delle forti politiche espansive resesi necessarie. Gli interessi sui titoli di stato quindi sono cresciuti, e i governi hanno predisposto politiche restrittive volte a diminuire la spesa pubblica e gli interessi da pagare sul debito, aumentando le tasse e riducendo drasticamente domanda e produzione.
In Europa il declino della produzione è stato così drammatico che la crisi dei subprime è diventata la crisi dell’euro. Per avere un’idea dell’impatto sui titoli delle imprese europee, si può osservare l’andamento dell’EURO STOXX 50, che comprende una rappresentazione dei settori industriali più importanti dell’area euro. L’indice è disponibile in diverse valute e varianti. È composto da 50 titoli degli 11 paesi dell’eurozona al momento della creazione dell’indice, nel 1998. Viene utilizzato dalle istituzioni finanziarie come riferimento per un’ampia gamma di prodotti di investimento.
L’indice ha perso il 60% tra luglio 2007 e marzo 2009, ma si è ripreso, fino a toccare a febbraio 2020 i 3867 punti, un aumento del 113% rispetto al precedente crollo (vedi grafico 2). Mettendo a confronto l’EURO STOXX 50 con il Dow Jones e il FTSE.MIB, si può notare che nello stesso primo periodo i due indici hanno avuto, rispettivamente, un crollo del 54% e del 72%. La loro ripresa, a febbraio 2020, è stata del 357% per Dow Jones e di circa il 98% per il FTSE.MIB.
2010-2015: “Whatever It Takes”
L’indebitamento accumulato negli anni della Grande Recessione ha messo in ginocchio i già fragili conti dei paesi dell’eurozona più vulnerabili, ovvero Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (i c.d. PIIGS). Con il dissesto dei conti pubblici della Grecia, la crisi ha preso ufficialmente il via. Nel 2010, i paesi dell’eurozona e il Fmi hanno approvato un prestito per questa di 110 miliardi di euro (di cui 30 del Fmi). Successivamente, è stato il turno dell’Irlanda prima, salvata con un prestito da 85 miliardi di euro, e del Portogallo poi, risanato con 78 miliardi di euro. Al culmine della crisi dell’euro, l’allora neo Presidente della Bce Mario Draghi si era dichiarato pronto a fare “whatever it takes” pur di dare respiro ai conti dei Paesi in difficoltà. Successivamente, dopo politiche fiscali di austerity da parte dei governi europei e dopo molti tentativi di intervento anche da parte dell’Ue, nel marzo 2015 la Bce ha messo in campo l’EAPP, (European Asset Purchase Programmes), anche noto come quantitative easing, un programma non convenzionale di acquisto di titoli, che ha abbassato notevolmente i rendimenti dei debiti sovrani nell’eurozona.
La percezione del rischio sovrano si era attenuata, e il calo dei rendimenti di titoli pubblici era stato in grado di ridurre la spesa per il servizio del debito, rendendo più agevole la realizzazione delle misure di contenimento della spesa. In aggiunta ad EURO STOXX 50 e FTSE.MIB, diventa emblematico nella rappresentazione di questa crisi un ulteriore indice azionario: si tratta del FTSE/Athex Large Cap, che racchiude i titoli delle 25 più importanti aziende del Paese ellenico. Come si evince dal grafico 3, EURO STOXX 50, FTSE.MIB e FTSE/Athex Large Cap hanno seguito un andamento piuttosto simile: nell’ordine, questi sono crollati, tra fine 2009 e giugno 2012, del 35%, 49% e 28%; le riprese sono state, rispettivamente, del 92%, 94% e 160%, dal crollo fino ad inizio 2015 (fatta eccezione per il FTSE.AT, la cui ripresa si è conclusa un anno prima). Sebbene la ripresa percentuale è stata molto importante, l’indice greco non ha mai rivisto i livelli pre-crisi e il livello di 442 punti raggiunto a marzo 2014 fu un traguardo che, ad oggi, non è più stato centrato.
E adesso?
Dato il profondo periodo di crisi che il globo sta vivendo, interi sistemi economici finiranno per subire un colpo non indifferente. A causa di questa pandemia, le attività produttive di tutto il mondo si stanno fermando. In passato, ci sono volute politiche economiche molto coraggiose per dare respiro ai conti pubblici; ad oggi, le istituzioni si stanno muovendo, in sincronia, per fornire ai paesi colpiti il giusto sostegno. La Bce ha dato il via ad un quantitative easing da 750 miliardi di euro, mentre la Commissione Ue ha attivato la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità, così da dare la possibilità ai paesi europei di erogare importanti somme di denaro per sostenere imprese e consumatori; la Fed, dopo aver tagliato il costo del denaro, ha annunciato un quantitative easing complessivo da 700 miliardi, oltre ad un’iniezione d’urgenza di più di 1.500 miliardi di liquidità momentanea a Wall Street. La People’s Bank of China, infine, ha deciso di ridurre i tassi sui finanziamenti a medio termine e i tassi di riferimento sui prestiti, immettendo nell’economia un totale di 400 miliardi di yuan, più di 50 miliardi di euro. Anche i governi, in Europa e non solo, stanno studiando manovre di emergenza con cui fronteggiare questa crisi. Il passato ci ha insegnato che, con strategie economiche audaci, si può ripartire.
Testo a cura di Mattia Moretta