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In ricordo di Guido Roberto Vitale, finanziere alieno e italiano anomalo
Quando l’Italia del maestro Manzi leggeva la Gazzetta dello Sport per familiarizzare con la lingua italiana, Guido Roberto Vitale leggeva il Financial Times. Laureato brillantemente in economia – senza lode perché il barone di turno scoprì di non essere citato nella tesi sulle operazioni di mercato aperto della Federal Reserve – all’Università di Torino, Vitale partì per Londra e New York (specializzato alla Columbia University), per poi lavorare a Mediobanca. Possiamo dire che abbia portato il merchant banking in Italia, attraverso Euromobiliare, da lui fondata nel 1973.
Guido Roberto Vitale, scomparso giusto un anno fa, era un alieno in territorio straniero. Un predicatore nella terra degli infedeli. Un italiano anomalo: grande innovatore, lungimirante, intollerante verso il compromesso (si dimise appena Michele Sindona comprò la Centrale Finanziaria, nonostante il finanziere siciliano gli offrisse un assegno in bianco), fautore del merito, affascinato dai giovani, trasparente. Praticamente, la nostra classe dirigente al contrario. Dove regnava il sotterfugio, lui voleva chiarezza. Amava la competenza e le persone preparate. Nei tempi dell’«uno vale uno», un extraterrestre. Credeva nei giovani, veramente, li spronava in continuazione. Ne serbo testimonianza diretta. Un vero talent scout. Ha allevato da maestro di vita una generazione di persone, alle quali raccomandava il rispetto rigoroso delle regole, degli investitori, del mercato.
L’italiano ama gli arabeschi, Vitale preferiva la linea retta della franchezza. Le idee dovevano emergere, così come la verità, senza mezze misure. Un giorno, vedendomi indeciso se pubblicare o no un testo forse troppo incisivo, mi disse: «Si farà qualche nemico in più, ma è il prezzo che si paga per essere liberi e intellettualmente onesti».
Le sue riflessioni, mai banali, erano concreti inviti a lavorare per cambiare le cose.
Quando eravamo in dirittura d’arrivo per il volume “L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti”, una mattina di buon’ora mi chiamò – lui aveva già letto tutti i quotidiani, amava in modo viscerale la carta stampata – per dirmi: «Dottor Piccone, la citazione di Einaudi sul “silenzio degli industriali” vale il libro (ripubblicò anni fa Le lezioni di politica sociale). Adesso chiamo Claudio Cerasa del “Foglio” per chiedergli di pubblicare integralmente quel testo». Gli risposi: «Dottor Vitale, ho appena riletto l’intervento di Einaudi in occasione del suo insediamento al Quirinale nel 1948». E gli citai il passaggio chiave, dove l’economista liberale invitava a puntare, con il consueto stile asciutto e puntuale, sull’«eguaglianza delle condizioni di partenza». Non potevo che rallegrarlo, vista la sua netta contrarietà alla «nefasta preferenza dell’egualitarismo che malauguratamente permea la nostra società».
Quando Vitale fondò la Vitale e Associati (2001), decise di pubblicare ogni due anni un volume da regalare ai clienti, con l’obiettivo di far dibattere le classi dirigenti, secondo lui tra i maggiori responsabili del declino italiano. La cultura, per lui, aveva un valore imprescindibile. E doveva legarsi a un piano d’azione successivo. Sono diversi i libri pubblicati negli anni. Uno edito nel 2008 ricordava il pensiero economico di Luigi Sturzo, formidabile intellettuale e politico, tra i primi a combattere contro lo statalismo: «Di bestie enormi della democrazia ne ho individuate proprio tre: lo statalismo – la partitocrazia – l’abuso di denaro pubblico; il primo va contro la libertà, la seconda contro l’eguaglianza, il terzo contro la giustizia».
Nel volume del 2015 di Sergio Romano “Breve storia del debito da Bismarck a Merkel”, nell’introduzione di Fabrizio Saccomanni si deprecava l’atteggiamento schizofrenico di far crescere il deficit pubblico con le politiche keynesiane (“all’italiana”, che come diceva Marcello De Cecco favoriscono i soliti noti), e al contempo dichiarare di voler ridurre il debito. Se il debito pubblico è la somma dei deficit del passato, non si capisce come possa essere ridotto aumentando la spesa pubblica corrente. Non a caso il compianto civil servant in nota vergava così: «Il nesso tra debito e deficit era ben chiaro al signor Micawber, personaggio di David Copperfield di Dickens, il quale, imprigionato dai debiti nel carcere di Marshalsea a Londra, predicava una sua filosofia economico-morale: “Reddito annuale venti sterline, spesa annuale diciannove sterline e sei pence, risultato: felicità. Reddito annuale venti sterline, spesa annuale venti sterline e sei pence, risultato: miseria”».
Nel novembre 2017 Vitale decise di affidarmi il compito di scrivere un volume sul capitalismo italiano. Ogni settimana ci vedevamo per confrontarci e scrivere l’indice insieme. Non ha mai voluto sindacare il mio pensiero. Ma nei numerosi nostri incontri, il confronto era serrato. C’era sempre da imparare. Senza contare che Vitale mi stimolò con la presenza di un discussant di pregio, Francesco Giavazzi, che poi ha scritto la prefazione al volume che, con una felice intuizione di Vitale stesso, uscì col titolo L’Italia: molti capitali, pochi capitalisti.
Un giorno Vitale mi invita a pranzo e, appena seduto, mi fissa negli occhi e mi dice: «Dottor Piccone, ho letto con attenzione l’ultimo capitolo e non mi sono piaciute le ultime righe». Preoccupato, prendo le bozze e chiedo spiegazioni. Leggiamo insieme un passaggio di Tommaso Padoa-Schioppa che invitava tutte le classi sociali ad impegnarsi per invertire le aspettative, per uscire dall’invidia, dal rancore e dalla nostalgia. TPS scriveva sul Corriere della Sera: «Si ritornerà alla crescita solo se all’ansia della rincorsa, che ci ha sospinto per anni, subentrerà, quale spirito animatore, una ambizione nazionale. Desiderio di eccellere come Paese, fiducia nelle sue forze, sguardo lungo». Vitale si concentra sul termine desiderio e mi dà una lezione di vita: «Piccone, il desiderio è insufficiente, non basta. Se gli americani avessero desiderato andare sulla Luna, non ci sarebbero andati. Occorre un impegno deciso, il commitment, a cui va affiancata la responsabilità delle classi dirigenti che devono scegliere le persone giuste per gli obiettivi fissati, stendere un budget coerente e trovare le risorse».
Alessandro Galante Garrone definiva quelli che considerava i suoi maestri «i miei maggiori». Vitale è stato sicuramente uno di essi. Milano e l’Italia perdono con lui un ulteriore punto di riferimento. Dopo Umberto Eco, Umberto Veronesi, Inge Feltrinelli e altri nostri «maggiori», ci troviamo ancora più orfani senza Vitale. Quando se ne vanno i migliori, siamo indotti a pensare che non ci siano eredi all’altezza. Allora impegniamoci con la passione civile dell’Italia migliore, dell’«altra Italia», quella laica sognata da Ugo La Malfa, Giovanni Spadolini, Carlo Azeglio Ciampi e Guido Roberto Vitale, che nell’ultima telefonata mi disse: «Lasciamo lavorare le intelligenze».
Twitter @beniapiccone