Perché il Green Deal europeo è più ancorato alla realtà della versione Usa

scritto da il 27 Gennaio 2020

L’autore del post è Flavio Menghini, fellow di The Smart Institute, esperto di commercio internazionale e foreign direct investment; si occupa in particolare di relazioni esterne dell’Unione Europea e sviluppo sostenibile –

Il Green Deal Europeo, proposto dalla presidente Ursula von der Leyen dopo l’insediamento della nuova Commissione, rappresenta la risposta del nuovo esecutivo europeo all’emergenza climatica. Un’analisi di questo testo programmatico, volto a delineare la nuova linea politica europea ben oltre quella ambientale, porta a pensare che esso sia anche un punto di svolta nella strategia comunicativa dell’Unione Europea, ora intenta a riallacciare un rapporto diretto con i propri cittadini.

Presentato con una Comunicazione intitolata ‘The European Green Deal’, il nome rimanda senza mezzi termini al Green New Deal (GND) proposto al Congresso americano dalla ormai celebre deputata Alexandria Ocasio-Cortez e dal Senatore Ed Markey. Tuttavia, benché entrambi i progetti siano ambiziosi, quello europeo è molto più ancorato alla realtà di quanto non lo fosse il precedente americano.

Alexandria Ocasio-Cortez

Alexandria Ocasio-Cortez

Già bocciato al Senato, il GND da un lato proponeva obiettivi quali quello di soddisfare con energie rinnovabili il 100% del fabbisogno energetico statunitense in soli 10 anni oppure di garantire un lavoro a tutti i cittadini degli Stati Uniti; dall’altro però tralasciava qualsiasi menzione alla necessaria copertura finanziaria, stimata da alcuni (American Action Forum e separatamente da Noah Smith su Bloomberg Opinion) tra i 50 e i 90 triliardi di dollari sui prossimi dieci anni, ovvero fino a 600.000 dollari per ogni nucleo familiare – con l’accorgimento che queste sono mere stime, visto che il GND era tanto ambizioso quanto vago.

Ursula von der Leyen

L’assenza di velleità utopistiche e la forza comunicativa 
Questa completa indeterminatezza non si riscontra invece nel Green Deal Europeo, il quale non scade in velleità utopistiche ma tiene in seria considerazione sia le necessità di bilancio sia i conflitti che inevitabilmente sorgeranno tra obiettivi ambientali, sociali e di sviluppo economico – si veda a questo proposito la recente presentazione del ‘Just Transition Fund’. Tuttavia l’aspetto forse più innovativo di questa proposta sta nella sua portata comunicativa, ossia nell’abilità della Commissione di avere individuato con prontezza un tema di grande attualità, si pensi a tutte le mobilitazioni per il clima, attraverso cui, una volta catturata l’attenzione, trattare di molteplici argomenti.

Tutte le declinazioni del Green Deal
Il Green Deal Europeo non si limita infatti a delineare la politica ambientale ma anzi utilizza la tutela dell’ambiente come pretesto per definire e promuovere numerosi elementi dell’agenda politica europea – dai trasporti alle abitazioni e dall’agricoltura all’industria. Tutto ciò porta a pensare che l’emergenza climatica sia stata utilizzata come grimaldello per spezzare l’isolamento delle istituzione europee e rinnovare la strategia comunicativa dell’UE. Dopo che troppo spesso negli ultimi venti anni l’Unione si è prodigata per assegnare nuovi diritti e tutele in capo ai cittadini europei senza che questi ultimi avessero alcuna idea della loro origine comunitaria, è forse arrivato il momento in cui anche i politici europei hanno colto l’importanza di stabilire un dialogo diretto con l’elettorato.

Tra i molteplici aspetti affrontati dal Green Deal, si prenda ad esempio quello del commercio con i paesi terzi, uno dei più notevoli sia per le innovative proposte avanzante sia per il suo tradizionale rilievo mediatico – di tutte le iniziative intraprese dall’UE negli ultimi anni, alcune delle più ampiamente discusse e commentante, online e non, sono state il defunto accordo commerciale con gli Stati Uniti (TTIP) e quello concluso con il Canada (CETA). Presentando gli accordi commerciali attraverso le lenti della tutela dell’ambiente, la nuova Commissione sembra voler celare i tecnicismi propri degli addetti ai lavori che, pur essenziali nel testo dei trattati internazionali, troppe volte hanno dato adito a distorsioni mediatiche e sommarie condanne.

Pertanto, in questo spirito di rinnovata strategia comunicativa, la Commissione introduce la ‘Green Deal diplomacy’, ovvero una politica volta a ‘persuadere gli altri attori a fare la propria parte nella promozione di uno sviluppo più sostenibile’, il che non sembra discostarsi radicalmente da ciò che l’UE faceva da tempo. Al contrario, la politica commerciale e diplomatica dell’Unione – due ambiti che per la peculiarità delle competenze europee molto spesso si sovrappongono – già da parecchi anni operava in questa direzione, benché con risultati mediatici discutibili.

Uno degli esempi più emblematici è l’oblio cui sono state relegate le coraggiose previsioni sulla tutela ambientale introdotte negli accordi commerciali e d’investimento dell’Unione Europea, alle quali hanno fatto da contraltare fraintendimenti e mistificazioni che nulla hanno a che vedere con il reale contenuto di tali accordi. Ciò a cui stiamo assistendo con il Green Deal Europeo fa pensare che l’UE abbia deciso di tentare una nuova caratterizzazione mediatica del proprio operato onde evitare che siano i suoi detrattori ad occuparsene, travisandolo, come è successo in passato.

Coraggiosi balzi in avanti
Il Green Deal non si riduce però a questo ma propone anche dei coraggiosi balzi in avanti, non solo cercando di promuovere ampie riforme fiscali interne, che richiederanno il contributo unanime degli Stati membri, ma anche con la possibilità di introdurre ‘per determinati settori, un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, al fine di ridurre il rischio di rilocalizzazione delle emissioni’. Quest’ultima proposta è volta ad evitare che gli sforzi per ridurre l’emissione di anidride carbonica nel mercato comune si riducano a uno mero specchietto per le allodole dietro cui si cela una strategia di rilocalizzazione geografica. Infatti, poiché l’ambiente è uno solo e non si cura dei confini, sarebbe inutile una politica volta a ridurre le emissioni nell’UE se questa non si occupasse anche di risolvere il problema del ‘carbon leakage’, ossia il fenomeno per cui la produzione industriale potrebbe essere rilocata in paesi dalle regole meno rigide. Si noti per inciso che il medesimo problema e le sessa soluzione avrebbero potuto essere presentati anche in chiave di competitività economica, ma è altresì certo che non avrebbero avuto lo stesso riscontro mediatico.

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ll rischio dei dazi e di penalizzazioni indebite
Benché questo non sia il luogo adatto per una disamina approfondita, non si può celare che vi siano parecchie complessità di natura sia pratica che giuridica di fronte al possibile concretizzarsi di quelli che sarebbero dei veri e propri dazi volti a colpire le tecniche di produzione dei partner commerciali (i cosiddetti PPMs, Processes and Production Methods). In chiave pragmatica è utile tenere a mente la distinzione tra emissioni e concentrazione di inquinanti. Non si può infatti scordare che a parità di emissioni antropogeniche in ambienti naturali di diversa costituzione e con capacità di assorbimento diverse le concentrazioni di inquinanti risultano diverse.

Per questa ragione, una tassa che non tenga in alcun modo conto delle specifiche capacità di assorbimento ambientale di ogni partner commerciale si trasformerebbe in un’indebita penalizzazione nei confronti di paesi che altro non fanno che trarre vantaggio dalle peculiarità del proprio territorio. Inoltre, anche volendo tenere conto in via teorica di tali caratteristiche, si dovrebbe poi affrontare l’impresa titanica di valutare l’impatto ambientale di migliaia di prodotti importati, i cui componenti potrebbero a loro volta essere realizzati in una molteplicità di paesi terzi.

Il prisma della tutela ambientale
Sul piano giuridico, invece, se da un lato si allontana il timore che l’organo giudiziario dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) possa bocciare le previsioni sui PPMs ambientali – salvo nel caso in cui venissero adottate in maniera discriminatoria – dall’altro vi è il rischio molto tangibile che sorgano annose dispute giudiziarie proprio a causa della difficoltà a determinare tali dazi in maniera oggettiva e del timore che essi possano essere utilizzati in chiave protezionistica. In aggiunta a questo, e di fronte alla concreta possibilità che tali dispute non vedano mai la fine – in questo caso in senso letterale, vista la paralisi dell’organo di appello del WTO – si profila l’eventualità di nuove guerre commerciali, il cui risultato è quasi sempre un impoverimento di tutte le parti, direttamente coinvolte o meno.

Allontanandosi dai tecnicismi del diritto del commercio internazionale, ciò che appare davvero innovativo è non tanto la lodevole iniziativa per l’ambiente, ma la scelta della nuova Commissione di affrontare dei temi di grande complessità attraverso il prisma della tutela ambientale, rendendoli così più accessibili a tutti. Il Green Deal è un semplice documento programmatico e molto ancora dovrà essere fatto per apprezzarne la portata, ma ciò che si può dire fin d’ora è che la Commissione sembra avere appreso appieno l’importanza di ristabilire il contatto con i cittadini di questa Unione.

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