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I costi e i non detti della violenza. Ma Usa e Ue sono proprio aree di pace?
Nel 2018, la violenza è costata al mondo 14,1 trilioni di dollari, che equivalgono all’11,2% del PIL globale. L’impatto maggiore s’è avuto in Siria, Afghanistan e Repubblica Centrafricana, dove conflitti e disagi hanno eroso, rispettivamente, il 67%, il 47% e il 42% del prodotto interno. La situazione si fa allarmante nello Yemen, dove 24 milioni di persone, cioè l’80% della popolazione ha urgente bisogno di protezione e assistenza. In sostanza, secondo il Global Peace Index 2019, un report prodotto dall’Institute for Economics & Peace, negli ultimi dieci anni, il livello medio di pace nel mondo è peggiorato del 3,78%. Ancora più significativo è il dato seguente: i 25 paesi meno pacifici si sono ‘fatti notare’ per un peggioramento dell’11,8% in quasi tutti gl’indici, mentre i più pacifici o presunti tali sono migliorati solo dell’1,7%.
Gl’indicatori statistici delle macroaree c’inducono, sulle prime, a puntare l’attenzione su alcuni paesi storicamente insanguinati dalle guerre: abbiamo già introdotto le variabili di Siria, Afghanistan, Repubblica Centrafricana e Yemen e possiamo senza dubbio estendere la considerazione specifico-tematica, per esempio, alla regione subsahariana, dove 27 paesi su 44 si sono drasticamente involuti. In Burkina Faso, Zimbabwe, Togo, Sierra Leone e Namibia, in seguito alla riduzione dei finanziamenti dell’ONU per il mantenimento della pace, s’è consumata una vera e propria escalation di violenze. Ed è appena il caso di riportare fedelmente un frammento del GPI, in cui si conferma che il MENA (Middle East and North Africa) costituisce ancora la chiave dell’equilibrio militare nel mondo: “While the deterioration in peacefulness has not been limited to any one region, indicator, or country, conflict in the Middle East has been the key driver of the global deterioration in peacefulness.” (GPI 2019, p. 27)
Tale ricostruzione, tuttavia, a ben riflettere, sarebbe parziale e inadeguata. Se ci limitassimo ai primi riscontri, indeboliremmo il processo di ricerca scientifico-informativa. Rebus sic stantibus, i significanti adottati, numeri, parole e, più in generale, dati, non avrebbero un vero e proprio rapporto col mondo e coi fatti, ma assumerebbero il ruolo strumentale di variabili all’interno d’un’incontrollata fantasia deduttiva. Il compito dell’analista consiste invece nello stabilire relazioni di significato, nel cercare ‘corrispondenze’ non mediate e, da ultimo, nel dimostrarne la validità. Steven Pinker, in un’opera del 1994, L’istinto del linguaggio, prende in esame il sintagma “azione di pace” e ne denuncia inequivocabilmente l’infedeltà pragmatica, essendo evidente che il militare in ‘azione di pace’, in realtà, compie azioni di guerra. Nel linguaggio specialistico, potremmo anche dire che si tratta di una litote, cioè di un’espressione con cui noi tendiamo eufemisticamente ad attenuare l’impatto emotivo delle parole. Insomma: non un ladro, ma uno che arreca danno alla proprietà privata.
Allo stesso modo, quando usiamo espressioni come “la democrazia più grande del mondo”, riferendoci agli USA, o “la regione più pacifica”, riferendoci all’UE, abbiamo anzitutto il dovere di consultare delle fonti che ci consentano almeno di comprovarne, come s’è detto in precedenza, la validità empirico-pragmatica: per esempio, il già citato GPI dell’IEP e il report del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute). L’osservazione ci conduce immediatamente a una sospensione del giudizio o, per lo meno, a una revisione delle tesi macroeconomiche e ‘geomilitari’ con le quali abbiamo sempre affrontato la trattazione. Possiamo e dobbiamo semplicemente aver paura del Congo, in cui da tempo imperversa la guerra per l’accaparramento del coltan? L’Iraq è sempre quel luogo temibile che l’opinione pubblica ha imparato a conoscere negli anni Novanta?
Il ranking dello IEP ci fa mettere in discussione alcuni assunti. “La più grande democrazia del mondo”, gli USA, paradossalmente, si colloca al 128° posto per livello di pace, contrassegnata dal bollino arancione, che naturalmente equivale a un livello di pace low. Non solo: gli Stati Uniti, oltre ad aver perduto addirittura quattro posizioni nell’ultimo anno, sono pure preceduti da Congo, Myanmar, Niger, Nicaragua et al., cioè da paesi cronicamente lontani dall’affermazione delle libertà democratiche, e superano solo di quattro posizioni lo Zimbabwe, il ‘terribile’ Zimbabwe. Nell’anno di studio del report, in Nicaragua, durante gli scontri tra polizia e manifestanti, sono morte 325 persone, ma il Nicaragua occupa la posizione 120, pur essendo scivolato indietro di 54 posti. Il Myanmar è sicuramente noto invece per la guerra civile più lunga della storia, eppure si colloca al 125° posto. Il Congo, al 121° posto della classifica, quel Congo belligerante, nel 2018, ha conquistato un ammirevole primato: è il paese al mondo che ha ridotto maggiormente la spesa militare, col 3,4%, seguito proprio da Iraq, col 2,5%, e dall’Oman, con l’1,1%.
A questo punto, bisogna tenere conto del fatto che i redattori del GPI, nel produrre il report e nello stilare le classifiche, non si attengono unicamente alla presenza o all’assenza di guerre in un determinato paese, ma includono altre variabili per poi studiarle in comparazione coi livelli globali. Di conseguenza, il costo del crimine delle imprese, la violenza domestica, le spese militari, quelle della famiglia per la sicurezza et cetera entrano a far parte d’un’indagine sistemica. Tale ulteriore approfondimento ci costringe pertanto a revocare sempre di più in dubbio il concetto di democrazia quale sostantivo politico-sociale rassicurante.
Se passiamo al report del SIPRI, non a caso, scopriamo che gli Stati Uniti, ancora una volta, hanno guadagnato il primato delle spese militari, con poco meno di 649 miliardi di dollari, surclassando la Cina, che raggiunge il secondo posto con 250 miliardi.
È bene notare che, in questa top ten, ben cinque paesi fanno parte del cosiddetto vecchio continente, quell’Europa che viene considerata la regione più pacifica del mondo, ma che, nel mondo, è tra i primi esportatori di armi. Infatti, dei 10 paesi con il più alto livello di esportazioni di armi pro capite 8 sono europei: gli altri due sono Israele e Stati Uniti. Nello stesso tempo, ci sia lecito fare un’aggiunta di metodo! L’obiettivo del presente lavoro non è quello di far passare la tesi dell’armonia ecumenica o del cieco pacifismo. Diversamente, si vuole riformulare un modello di narrazione quasi esclusivamente basato su dei meccanismi di scissione tra buoni e cattivi.
Non è un caso, quindi, che, tra gl’indicatori analizzati dallo IEP, si trovi anche il tasso di omicidi, che negli USA è in aumento addirittura del 9,9% e s’è attestato sulla quota di 7 ogni 100.000 abitanti, laddove, nella tormentata Ucraina, grazie a una riduzione dell’85,7% dei conflitti interni, si sono risparmiate 7.800 vite umane.
Insomma, se ‘la più grande democrazia del mondo’ investe tanto in ‘guerre’, a tal punto da accettare una certa tensione interna e un perenne stato di belligeranza, allora è probabile che ci siano motivi strutturali e macroeconomici piuttosto importanti. In altre parole, la guerra può diventare una forma d’investimento a medio termine e una soluzione per portare in pareggio o anche in saldo positivo la bilancia dei pagamenti e, in particolare, il conto delle partite correnti. Un esempio eclatante ci fa risalire agli anni della seconda guerra mondiale, anni che indubbiamente consacrarono gli USA come indiscussa potenza mondiale. Il PIL statunitense dal 1938 al 1944 crebbe addirittura del 110,94%, mentre il reddito pro capite passò da 663,20 dollari a 1.654, 06 dollari. La prima vera flessione si ebbe nel 1946, -0,36%, ma, esattamente 4 anni dopo, nel 1950, cominciò la guerra di Corea, che generò, fino al 1954, un altro balzo del 37,86%, mentre, nell’anno che precedette il conflitto, nel 1949, il PIL era calato dello 0,71%. Com’è noto, la guerra di Corea non fece in tempo neppure a concludersi che già era pronto un altro conflitto. Negli oltre vent’anni della guerra del Vietnam (1953-1875), il PIL statunitense crebbe a una media del 7,36%.
Oggi, gli Stati Uniti hanno un saldo commerciale negativo di 569 miliardi, pari al 2,5% del PIL; il che costituisce un significativo incremento del deficit delle partite correnti rispetto allo scorso anno, nonostante i lievi e apparenti miglioramenti degli ultimi periodi. La bilancia dei pagamenti è un documento contabile degli Stati, redatto secondo i criteri dettati dal FMI e in cui si registrano le transazioni tra un paese e il resto del mondo. La differenza tra importazioni ed esportazioni determina la posizione creditoria o debitoria di un paese, secondo che questo faccia registrare un saldo attivo (avanzo) o un saldo negativo (disavanzo). Delle due parti in cui è suddivisa, conto capitale e conto delle partite correnti, quest’ultima è quella da prendere in esame per valutare proprio il commercio di beni e servizi. Gli Sati Uniti sono cronicamente affetti dal disavanzo e non si può tacere, nostro malgrado, che le guerre, nella maggior parte dei casi hanno generato per ‘loro’ non solo una certa ricchezza, ma anche, talora, un surplus delle partite correnti, com’è accaduto all’epoca della guerra del Golfo.
Di certo, non possiamo fare a meno di osservare che la spesa militare rappresenta una ‘variante dell’espansione fiscale’, non solo per l’investimento diretto nell’industria di settore, ma anche e soprattutto per tutto l’insieme di quelle attività economiche che ruotano attorno all’asse economico principale, dall’abbigliamento al cibo e così via: non è così difficile intuire il funzionamento del presunto circolo ‘virtuoso’. Tra le altre cose, le guerre contemporanee, specie se ‘progettate’ da paesi così evoluti, sul piano tecnologico, comportano pure piani d’innovazione. L’innovazione tecnologica militare, a propria volta, nel lungo termine, stimola la domanda interna. E inoltre non bisogna trascurare l’aspetto che, forse, più di qualsiasi altro, incide sulla bilancia dei pagamenti statunitense: la partecipazione alle spese di guerra, che gli USA impongono, a questo punto più o meno legittimamente, agli alleati. Un paese promuove l’azione militare, produce l’armamento e, in qualche modo, direttamente o indirettamente, lo ‘esporta’.
Appare doverosa una considerazione finale che coinvolge l’industria petrolifera. A tal fine, riportiamo due grafici, entrambi sui tassi della FED, il primo da sinistra di breve e il secondo di lungo periodo.
L’aumento dei tassi da parte di una banca centrale, in linea di massima, può generare almeno tre conseguenze: 1) stimolo della domanda; 2) riduzione, anche minima, del potere d’acquisto della moneta; 3) crescita dei livelli di occupazione. Non si tratta di conseguenze scontate, ma di conseguenze probabili. Nello stesso tempo, tuttavia, l’industria petrolifera e, in particolare, quella statunitense, potrebbe reagire in modo opposto: lo spread bancario salirebbe e così pure gli oneri finanziari. La fiducia degli investitori potrebbe indebolirsi, così da determinare pure un Price / Earnings negativo. Quale può essere la soluzione? Il prezzo del barile deve salire. Una guerra può essere conveniente? La curva dei tassi va studiata principalmente attraverso il grafico di lungo termine e, soprattutto, in corrispondenza di certe scelte diplomatico-militari affinché si comprenda appieno quanto un’oscillazione di un punto possa rivelarsi decisiva.
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