categoria: Distruzione creativa
Dal motorino a Instagram, i ragazzini spiegano come è cambiato il design
L’autore del post è Luca Bianchetti. Laureato in ingegneria e psicologia, ha un MBA. Ha fatto il consulente direzionale con società multinazionali, si è occupato di molti progetti di trasformazione e di ridisegno dei processi. È piuttosto convinto che la forma delle cose abbia un rilevante effetto sulle persone. Ha riflettuto sulla personalità dei creativi e ha seguito lo sviluppo di alcuni prodotti di design per un mobiliere italiano.
Domanda delle cento pistole: cosa succede al design se il prodotto diventa l’esperienza? Perché da qualche tempo leggo che il design è morto e se mai risorgerà sarà nel disegno dei processi. Confesso che sulle prime mi era sembrato poco convincente. Trascuro la questione della morte, che mi trova intuitivamente d’accordo ma non vorrei sviluppare ora.
Spero di farlo in un altro pezzo, sommariamente comprende la mancanza, rispetto al passato, di nomi noti, di prodotti-icona, la difficoltà di diversi marchi emblematici, le acquisizioni di aziende a condizioni tipicamente modeste (sia pur con luminose eccezioni) e, forse la madre di tutto ciò, la mutazione dell’interesse del pubblico verso i prodotti che acquista. Credo invece di poter dire qualcosa sui processi. Il design è attrattività, aspirazione, evocazione e anche un po’ supponenza del designer infilata nel prodotto per educare il popolo o per mostrare quanto è bravo. Avendo io stesso disegnato diversi processi non ritrovavo nulla di tutto questo.
Ma era un giudizio superficiale. Non considerava quello che ho imparato sul Design con la D maiuscola, diverso dal design inteso cocme mera progettazione.
Ho ripensato al mio esempio preferito di Design: l’interruttore dei fratelli Castiglioni, detto Rompitratta.
Un oggettino che tutti abbiamo avuto in mano senza pensare che avesse meriti speciali ma che è bellissimo. Non perfetto, non so nemmeno cosa sia il perfetto. E neanche geniale, è pur sempre un interruttore più o meno come gli altri. Ma è fatto benissimo. Fa benissimo quello che deve fare. È stato pensato in tutte le sue (poche, a onor del vero) interazioni con l’umano che lo vede e lo usa. Costa al momento 1,56 euro su internet. Lo fabbricano ormai in molti e fu disegnato nel 1968 per un’azienda di Buccinasco che si chiamava VLM e non sono riuscito a sapere che fine ha fatto, ma ancora nel 2013 vendeva cose anonime come “Portalampade per tubi G5 – Innesto a scatto in finestra 10×20 – Tipo /RD con dente di arresto”. Nessuno di noi lo noterebbe se lo ritrovasse in un’anticamera di dentista in Sudamerica. È gradevole da sentire nella mano. Il comando suggerisce tattilmente come usarlo col polpastrello del pollice, in un senso e nell’altro. Fa un bel rumore, messo di proposito, che sembra una notifica, prima del feedback aptico dell’iPhone, ma naturale. Ha uno scuretto tra i due gusci che lo rende più fico ed elimina eventuali inestetismi dell’accoppiamento. Perché deve essere tutto pulito (mi pare che Castiglioni dicesse trasparente), ma fino a un certo punto.
Ecco, questo oggettino non ha nulla di attrattivo, di aspirazionale o di evocativo. (Non giurerei sull’educativo/narcisistico). È stato disegnato per risolvere una necessità meramente funzionale, probabilmente senza pensare che fosse importante nel processo di acquisto del prodotto in cui sarebbe stato impiegato. Eppure è un emblema del design, almeno per chi se ne occupa a qualche titolo. È incontestabilmente Design maiuscolo. Di più: è un oggetto che ci mostra cosa sia il design e cosa esso possa fare per i prodotti e in definitiva per noi. Ci mostra che il bello sta nell’artistico ma sta almeno altrettanto nell’appropriato. Direi che ci modifica uno schema di attribuzione di valore dal bello al giusto.
Allora perché non dovrebbe essere così per i processi? Perché il disegnarli con un certo atteggiamento, intelligente, che cercherò di definire tra poco, non potrebbe rendere tra qualche anno pacifico che esista un Design dei processi, benché ora sembrino una faccenda spoglia e funzionale?
Con intelligente, in questo caso, vorrei intendere che realizza una rappresentazione valida, efficace e bella, elaborata creativamente, tenendo conto della funzione da soddisfare e di quelle implicate, cioè non primarie, non evidenti, ma che bisogna essere capaci di individuare, e dell’accoglimento cognitivo ed emotivo di ciò che si sta disegnando da parte del fruitore. Ed è quest’ultima cosa a rendere la D maiuscola. (Scusate, ma mi tocca anche definire cosa intendo per creativo. Non artistico o fantasioso o esuberante, ma semplicemente ciò che si forma nella mente e prima non c’era, anche se è solo una collezione di idee preesistenti – che poi è quasi sempre così o forse è solo così).
L’idea che il prodotto diventi il processo peraltro è coerente con una serie di altre osservazioni piuttosto diffuse in questo momento. La smaterializzazione dei consumi, i ragazzini non rappresentano più sé stessi con le penne in motorino ma con il profilo Instagram; alla moglie si regala un trattamento alla spa e non più la macchina per cucire; Starbucks non è il caffè ma l’esperienza; eccetera.
In effetti più che di processo bisognerebbe parlare di esperienza. Esperienza di cenare in un ristorante, di aprire un conto on-line, di acquistare un paio di calze. Andate in Giappone e comprate un paio di calze, in un negozio del livello di Calzedonia. Portatele alla cassa. Le ripiegheranno con un gesto sapiente, le avvolgeranno in una carta velina, metteranno un bollino adesivo. Poi in una carta da regalo con una guarnitura. E le adageranno in un sacchetto della dimensione giusta, chiuso da un fermaglio. Che ve ne fate di questa roba? Niente. Ma vederlo fare è bellissimo. È design di processo tradizionale, com’era tradizionale il cestino per il pane di filo saldato che è stato ridisegnato in mille modi negli ultimi cinquant’anni.
Aprite il conto corrente su N26 e ditemi se non vi sembrerà una cosa bella, oltre che molto pratica. Di un bello che dopo essere stato concepito scompare nel quotidiano, ma che resta, conta e realizzarlo è materia da professionisti capaci. Come per l’interruttore dei Castiglioni. Quindi è Design.
E allora siamo contenti, abbiamo un’opportunità, il design è roba da italiani, no? No. Stavolta mi sa che non è roba da italiani, non più che da chiunque altro.
Anzi, se penso alla capacità culturale di condividere come società processi perfezionati, gli italiani mi sembra partano svantaggiati. Basta confrontare il livello tipico di sofisticazione del servizio in un qualunque bistrot francese di provincia a una trattoria italiana. O pensare a come assistono alla partita di football gli spettatori americani, tutti allo stesso modo, col cappellino, il bicchierone, agitando i gadget, cercando la kiss camera. Inutile citare i mille esempi della società collettivista orientale.
Inoltre la forma dell’esperienza è meno rappresentabile in un’unica e distinta percezione, come un’immagine, quindi è meno definita e meno associabile ad altre rappresentazioni, meno suscettibile di essere evocata o di evocare a propria volta schemi mentali. Tutto questo la rende anche meno categorizzabile come italiana o altro. È più a-tipica. Non immagino facilmente che ci saranno molte Vespa tra i processi, cioè che si imporranno dei processi-icona, come si sono imposti dei prodotti-icona. Siamo meno disposti a riconoscere una singolarità sull’intangibile e quindi anche a costruire degli eroi-designer associati a quelle singolarità.
Non per nulla in molti conosciamo il nome di Jonathan Ive, che ha disegnato molti iPhone, belli per carità, ma tutti compresi tra la forma prototipale della mattonella e quella della saponetta, mentre in pochi conoscono quello di chi ha disegnato l’interfaccia utente di iOS, che è infinitamente più elaborata. (Non lo so nemmeno io, e se può interessare il mio iPhone preferito è il 5, che trovo bellissimo). Eppure il Design ha bisogno del corpo dei designer, come la politica del corpo del leader, eccetera, ma questo è un tema ancora più ampio che ora non so sviluppare.
Un’altra essenziale differenza con il design dei prodotti è che l’intangibilità porta due conseguenze analoghe e contrarie: la difficoltà di replicare l’esperienza in modo affidabile per ogni acquirente e la facilità di riprodurre copiandolo il disegno realizzato. La prima è una questione di scalabilità e quindi di redditività, la seconda di protezione dell’investimento e del margine. La prima suggerisce sviluppi informatico-virtuali e apre ancora più di quanto già non sia a un futuro tecnologico e misterioso alla Blade Runner. La seconda richiama gli strumenti di difesa dell’informatica e della proprietà intellettuale ma fa sospettare che servirebbe una capacità di descrivere e identificare le specificità del disegno molto più orientata alle percezioni e alle emozioni rispetto a quella che abbiamo oggi.
Quindi in definitiva sì, insieme a qualche dubbio, il Design ha delle grandi opportunità nel disegno dei processi, oltre ciò che oggi va di moda etichettare con design thinking, customer journey, service design, eccetera, che sono tutte cose nerdy e tecnologiche, design con la d minuscola anche se fatte da ganzi californiani come quelli di IDEO (cercateli su internet, se vi interessa il tema).
E le opportunità sono per tutti, anche per noi, benché faremo più fatica rispetto al design di prodotto a spenderci quel miracolo di credibilità mondiale che va sotto il nome di Made in Italy.
Le opportunità andranno oltre se il process (o experience) design saprà vestirsi dell’allure del Design con la D maiuscola, capace dell’ambivalenza di generare evocazione e, per quanto possibile, iconicità, anche restando nascosto nel quotidiano e di istituire un implicito collegamento con il bello artistico, che resta sempre il motore del sentimento di aspirazione ed elevazione nella nostra mente, anche quando vogliamo fare i rigorosi positivisti del pulito e del trasparente. Come il Design di prodotto rimanda alla scultura e all’arte figurativa o astratta, quello dell’esperienza dovrà saper rimandare all’arte performativa.
Il pensiero conseguente, tutto da sviluppare, è che le persone nel sistema produttivo dovranno passare da essere designer, tecnologo, operaio a sceneggiatore, regista, direttore di scena, attore. Nuovi atteggiamenti, nuovi valori e nuove competenze da riconoscere e costruire.
Twitter @lbianchetti