categoria: Vicolo corto
Un auspicio per il prossimo decennio: l’ Italia si trovi un terapeuta. Bravo
Anche se voi vi credete assolti
Siete lo stesso coinvolti …
Fabrizio De André, Storia di un impiegato, 1973
Figura 1. 16 maggio 1991, edicola della stazione FS di Cremona
Fonte: Archivio Corriere della Sera
I primi dubbi. Giovedì 16 maggio 1991 il giornale costava 1.200 lire e sporcava le mani d’inchiostro. Entrando in stazione scoprii che l’Italia era diventata la quarta potenza mondiale (Figura 1)[i]. A occhio sembrava una bizzarria statistica, ma Andreotti (presidente del Consiglio) e De Michelis (ministro degli Esteri) parevano convinti. Sul treno per Milano iniziai a dubitare dell’efficacia del Pil come indicatore e dell’indipendenza intellettuale dei giornalisti. Tuttavia, se tutti erano fiduciosi, perché non avrei dovuto esserlo io? Vivevo in una nazione ricca e potente, stavo finendo la tesi ed ero stato addestrato al ‘merito’. Se l’economia cresce, sei preparato e non hai paura di far fatica, problemi non dovresti averne.
“Vada all’estero”. Gli stessi di “conta il merito” mi dissero di andare all’estero. Gli anni formativi non vanno sprecati. Tra l’intimorito e l’incuriosito ci andai, con certo sollievo. Prua verso il mare aperto per ‘usar bene la vita’ (azione) ma anche perché l’ Italia non mi convinceva (reazione). Da allora, il ‘merito’ mi ha ‘tenuto’ all’estero per quasi tre decenni. Intanto, gli stessi di cui sopra piazzavano nei posti chiave i loro figli. Alla fine non è andata male e non mi lamento, ma andrebbero tutti portati in tribunale per danni. Di me hanno fatto un disadattato in patria, perché ai loro insegnamenti ancora credo, ma il guasto più grosso l’hanno fatto a loro stessi e, credo, al Bel Paese, che da allora – nonostante le molteplici rivoluzioni globali – è cambiato pochissimo.
Il “rap della Penisola”, tormentone degli ultimi decenni. Non se ne esce: il paese vive di rendita e non cresce. I professori pontificano e i giovani espatriano. Mafia e corruzione sono tasse. Produttività e professionalità sono basse. Il rapporto tra i poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – va ricalibrato. La legge elettorale è inadeguata. Troppo spesso comanda un incapace. Lo Stato vessa, la giustizia è lenta, la burocrazia paralizza – e troppi ne traggono un vantaggio quotidiano. I servizi non valgono il carico fiscale, i cittadini evadono. Educazione e sanità non son priorità. Ci vuole un mese per allacciare internet ed elettricità, e una vita per ottenere credito dalle banche. La mobilità sociale – se c’è – è verso il basso. Chi predicava il merito ha poi assunto i famigli. Provincialismo fa rima con nazionalismo, “(…) l’unica consolazione dei popoli poveri” (Leo Longanesi). In piazza si protesta[ii], a Palazzo si finge di cambiare; all’impopolarità si preferisce il populismo. Al domani si pensa domani: non si pianifica né si investe sul futuro. Intanto aumentano l’età media, il cinismo e il debito pubblico. Crollano i ponti e la qualità della vita. Al nord si allaga Venezia. A Roma le coalizioni non funzionano. Al sud le fabbriche chiudono. Gli investitori si stufano. Ma non è colpa nostra, e dunque non possiamo farci nulla. Quanto sopra suona come un “rap”, musica a piacere.
Che fare? Ognuno si prenda le sue responsabilità. Non è colpa né dell’Europa né dell’Euro. Il problema non è economico, è culturale. La soluzione sta in noi. Lo sottolineano in molti, da secoli. Da Dante: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta”; a Churchill: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”; a Pasolini: “L’ Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incoltura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo”; ad Aldo Busi: “È ora che gli italiani scendano in piazza a protestare contro sé stessi”. Capacità e opportunità non mancano, ma per risvegliarsi e raggiungere il proprio potenziale, l’ Italia deve fare tre cose: conoscersi, disciplinarsi, e osare.
1. Acquisire autocoscienza. Ognuno – soprattutto chi è in difficoltà – deve fare lo sforzo di conoscersi. Secondo Aristotele, il senso dell’esistere va cercato nello scoprire la propria identità, e nel coltivarla – rimanendo conformi alla propria natura[iii]. Tutto ciò è impossibile a chi non si conosce. In altre parole, per essere felici bisogna capire il proprio potenziale e raggiungerlo. “Conosci te stesso” (γνῶθι σεαυτόν) è il primo precetto dell’oracolo di Delfi. Eppure l’ Italia non si conosce. Fa finta di essere Mitteleuropa anglosassone, ma è un paese Mediterraneo, levantino – forse il più a nord del mondo Arabo. Diceva Leo Longanesi: “Noi siamo il cuore d’Europa, ed il cuore non sarà mai né il braccio né la testa: ecco la nostra grandezza e la nostra miseria”. In parole più forbite: lungo tutta la Penisola, i legami sociali informali e personali sono più importanti di quelli formali e impersonali. Quando la comunità (Gemeinschaft, in tedesco) conta più della società (Gesellschaft)[iv], le relazioni familistiche – supplendo all’assenza dello Stato – prevalgono[v] sulle responsabilità collettive, indebolendo la società civile.
2. Cambiare valori. Gaetano Salvemini soleva ripetere: “In Italia si punisce il peccato come se fosse un delitto, e si perdona il delitto come se fosse peccato”, per sottolineare un eccessivo controllo sociale e un insufficiente sviluppo istituzionale. In politica, ironizzava Leo Longanesi, “è meglio assumere un sottosegretario che una responsabilità”, posto che l’italica definizione di quest’ultima si limita al: “ciò che non si è saputo evitare”. Detto in breve, dobbiamo diventare meno moralisti e più morali[vi] – più seri, impegnati e disciplinati.
Diceva Pasolini: “seri bisogna esserlo, non dirlo, e magari neanche sembrarlo!”. Ci vuole un’iniezione di ‘etica protestante’[vii], di severità calvinista: ‘più società’ e ‘meno comunità’. Per sviluppare il paese e garantire coesione non è sufficiente rivendicare diritti, ci vogliono i doveri[viii]. I valori prevalenti – egalitari e comunitari – vanno integrati con valori altrettanto importanti: l’etica del lavoro, il merito, il civismo e la responsabilità sociale. Quasi fosse una nuova religione, bisogna iniziare a premiare chi crea valore aggiunto, assumendosi le responsabilità richieste dal proprio ruolo nella collettività. In assenza di ciò, ogni discussione su retribuzioni, tasse e servizi è irrilevante.
3. Prepararsi e osare. L’Italia deve essere in grado di evolvere, elaborando il passato. Eppure, è refrattaria al cambio. D’estate, al bar, un “no” sbigottito è la risposta a chi chiede un caffè in un bicchiere, con ghiaccio. Intanto, in Grecia, il “freddo espresso” è campione di vendite. Per innovare bisogna: i) distruggere[ix], rivoluzionando dall’interno; ii) assumere rischi calcolati, partendo dai bisogni; e iii) proporre soluzioni decise. Ci vogliono visione e preparazione; coraggio e pervicacia. Invece, nella Penisola le decisioni difficili vengono procrastinate sino all’inevitabilità – e poi delegate, con tocco nazionalista, all’ “uomo forte”[x]. All’inizio del secolo scorso, in alcune provincie del regno d’ Italia si guidava a sinistra, in altre a destra[xi]. Vista la confusione, e nonostante le proteste dei ‘difensori delle tradizioni locali’, nel 1923 Mussolini impose la destra. Oggi, i cambi necessari sono ben più radicali – ma le decisioni difficili vanno prese all’interno di istituzioni democratiche riformate; non vanno lasciate, in quanto inevitabili, a regimi più o meno autoritari. Bisogna capire e risolvere lo scontento, evitando che valide istanze sociali cadano nel nazionalismo.
Un secolo fa, il Futurismo propugnava di “liberare il paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”[xii]. Soluzioni troppo violente e radicali. Ma forse aveva ragione Marinetti, quando – in maniera provocatoria (“Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini”[xiii]) – per il bene dei Veneziani (“un tempo artisti geniali e navigatori audaci, ora divenuti camerieri d’albergo e ciceroni”) incitava Venezia a perdere la sua immagine passatista e stucchevole[xiv]. Forse la città avrebbe evitato la Disneyzzazione che consegue al vivere di rendita – di facile turismo “mordi e fuggi”.
Seguire Ulisse, alla ricerca del limite. Bisogna spingersi al limite. Ma il limite non è, per dirla con Vasco, “andare al massimo”. Non è ‘massimo sforzo’, né tentativo d’eccesso. Né va inteso in senso matematico, come una tensione che non si sublima. Il “limite” è ciò che i Greci chiamavano “la giusta misura”: trovare il proprio ritmo, in sincronia con l’armonia del cosmo[xv], esprimere il proprio talento e influenzare il proprio e l’altrui destino. Al limite, ma secondo misura (katà métron)[xvi], stando bene attenti a non peccare di hybris, l’orgogliosa tracotanza – immancabilmente seguita da catastrofica invidia (φθόνος τῶν θεῶν). L’“etica del limite” è seguire le pulsioni iniziali di Ulisse (… misi me per l’alto mare aperto – Dante, Inferno, Canto XXVI), per ‘raggiungere il proprio potenziale’, condizione sine qua non per la bellezza esteriore ed interiore (καλοκαγαθία). Per spingersi al “limite” occorre una mente consapevole e preparata. Il sapere – acquisito attraverso lo studio – evita dannosi offuscamenti[xvii]. Il tempo è poco, va usato al meglio.
Un auspicio per il prossimo decennio. Chi voglia sentirsi soddisfatto della propria vita deve usare il tempo che rimane per conoscersi, essere conforme alla propria natura, raggiungere il “limite” (che è il proprio potenziale), prepararsi, e cercare di essere saggio e sapiente per evitare il male. Tocca al “sistema Italia” fare lo stesso: per riscattarsi, deve avere il coraggio di attribuire le proprie sventure alla propria pochezza. L’ambizione del prossimo decennio è che l’ Italia si cerchi e si trovi un terapeuta. Bravo.
Twitter @AMagnoliBocchi
Linkedin Alessandro Magnoli Bocchi
NOTE
[i] Dopo Stati Uniti, Giappone e Germania e davanti a Francia e Gran Bretagna (l’URSS era al collasso).
[ii] Ogni 5 o 6 anni le piazze si riempiono di persone, non di contenuti. Promesse di rottamazioni salvifiche raccolgono consensi a destra e sinistra. Poi il dilettantismo soffoca l’illusione e il paese continua il declino. Si vedano i casi di Girotondi (2002), Cinquestelle (2007), Popolo viola (2009), Movimento arancione (2012), e Sardine (2019).
[iii] Secondo Aristotele, il “bene” e la “virtù di carattere” (ἀρετή) dipendono dall’“essere conformi alla propria natura” e sono componenti essenziali del vivere in armonia. La felicità di lungo periodo (l’eudaimonia: εὐδαιμονία – “essere virtuoso, essere amato ed avere buoni amici”) si raggiunge facendo ‘stare bene’ (eu) il proprio ‘demone’ (daimon).
[iv] Secondo Tönnies e Weber, i legami sociali possono essere: 1) diretti, informali e personali, basati su valori comunitari (dal tedesco Gemeinschaft, “comunità”); o 2) indiretti, formali e impersonali, basati su valori civili e credenze meno condivise (dal tedesco Gesellschaft, “società”). Fonti: a) Ferdinand Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Lipsia, Verlag di Fues, 1887; traduzione italiana a cura di Maurizio Ricciardi, Comunità e società, Bari, Laterza, 2011; e b) Max Weber, Economy and Society, ed. by Guenter Roth and Claus Wittich. University of California Press, 1921, 1968, 1978.
[v] Secondo Umberto Galimberti: “In Italia la lotta alla mafia non sarà mai vinta, perché la mafia non è altro che la versione truculenta del costume diffuso, dove la parentela, la conoscenza, lo scambio di favori, in una parola, la rete “familistica” ha il sopravvento sul riconoscimento dei valori personali e sui diritti di cittadinanza”.
[vi] Secondo Pasolini: “Il moralista dice di no agli altri, l’uomo morale solo a sé stesso”. Secondo Leo Longanesi: “Gli italiani sono buoni a nulla ma capaci di tutto”.
[vii] Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze, 1970.
[viii] Nella polis greca la partecipazione era un dovere. Il “De officiis” (Sui doveri) di Cicerone, la seconda parte della Summa theologiae di Tommaso d’Aquino, il libro Dei doveri dell’uomo di Mazzini indicano i doveri cui ogni cittadino deve attenersi in quanto membro dello stato e della società. La Costituzione – nei principi fondamentali, all’articolo 2 – richiede l’adempimento di doveri inderogabili. L’articolo 54 co. 2 impone ai “cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche” (…) “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”.
[ix] Joseph A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Routledge, Londra, 1942 (1994), pagine 82–83.
[x] Montanelli: “In Italia a fare la dittatura non è tanto il dittatore, quanto la paura degli italiani e una certa smania di avere un padrone da servire. Lo diceva Mussolini: «Come si fa a non diventare padroni di un paese di servitori?»”.
[xi] Nell’Italia unita, il Regio decreto n. 416 del 28 luglio 1901 diede diritto ad ogni provincia di “redigere il proprio codice stradale, imporre o abrogare i limiti di velocità e scegliere la direzione di marcia dei veicoli”. Di conseguenza, in alcune province si guidava a sinistra (Bergamo, Como, Verona, Caltanissetta) e in altre a destra (Brescia, Varese, Vicenza, Trapani). Visto che “agli incroci e nelle aree urbane regnava una grande confusione”, nel 1923 Mussolini sottopose al Re un decreto, controfirmato il 31 dicembre dello stesso anno. La legge impose al Paese la «mano destra unica» e accordò due anni alle amministrazioni per approntare la nuova segnaletica. Un folto numero di parlamentari, intellettuali e giornalisti, difensori delle tradizioni locali, protestarono contro il sopruso.
[xii] Filippo Tommaso Marinetti: “È dall’Italia, che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il Futurismo perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquari”.
[xiii] “I manifesti del Futurismo”, Lacerba editore, Firenze, 1914, pagine 32-36.
[xiv] “Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo.” “(…) voi [Veneziani] foste un tempo invincibili guerrieri e artisti geniali, navigatori audaci, ingegnosi industriali e commercianti instancabili … E siete divenuti camerieri d’albergo, ciceroni, lenoni, antiquari, frodatori, fabbricanti di vecchi quadri, pittori plagiari e copisti.” – Discorso contro i Veneziani, improvvisato da Marinetti alla Fenice, Venezia, 1910.
[xv] La “giusta misura” non è l’ottuso ‘la virtù sta nel mezzo’ (in medio stat virtus) – che facilmente diventa: “in mediocritas stat virtus” – bensì la capacità di svolgere la propria funzione nel modo migliore, al livello più alto. Si vedano in proposito Aristotele (Etica Nicomachea) e Platone (Gorgia). “E i sapienti dicono, o Callicle, che cielo, terra, dèi e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione, o amico, che chiamano questo intero universo «cosmo», ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza. Ora mi sembra che tu non ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dèi e fra gli uomini. Tu credi, invece, che si debba perseguire l’eccesso: infatti trascuri la geometria!” Fonte: Platone, Gorgia, 507 e-508 a, tr. it. G. Reale.
[xvi] Quando l’essere umano è periferico e insignificante può prendere in mano il proprio destino. “Rispetto alla visione giudaico-cristiana, l’uomo greco non è al centro del mondo, bensì è signore del tempo che gli è stato assegnato, in cui può dispiegare le sue opere, secondo misura (katà métron)”. Fonte: Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2006.
[xvii] La crudeltà dell’esistenza ottenebra il pensiero, e fa perdere la lucidità necessaria ad evitare il male. “Non una colpa originaria come nella tradizione giudaico-cristiana, ma la crudeltà dell’esistenza offusca la mente e oscura il discernimento, per cui continua deve essere quella frequentazione del sapere a cui invita Socrate, non per una propensione intellettualistica, ma in base al principio che chi sa, chi non si lascia offuscare la mente, non commette il male”. Fonte: Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2006.