Povertà, diminuisce ma per la maggior parte è creata artificialmente

scritto da il 02 Dicembre 2019

Di anno in anno, la povertà nel mondo diminuisce sempre più marcatamente. Si calcola addirittura che, negli ultimi vent’anni, un miliardo di persone sia stato sottratto alla fame e, più in generale, allo stato di degrado. Report e dati forniti, in particolare, dalla Banca Mondiale sembrerebbero inequivocabili. Eppure, nonostante i ‘dichiarati’ successi globali, l’indigenza aumenta in modo preoccupante nell’Africa sub-sahariana, dove si ritiene che 400 milioni di persone vivano ancora con meno di due dollari al giorno: in pratica, più del 40% dei poveri del mondo si trova lì, mentre 3 miliardi di persone, nel mondo, sono costrette a farsi bastare 5,50 dollari al giorno. La soglia si è sicuramente spostata, ma, forse, nello stesso tempo, non si può parlare di veri e propri successi, specie se teniamo conto del fatto che quasi settanta milioni di bambini, ogni giorno, vanno a scuola col morso della fame e 60 milioni non ci vanno proprio. Nelle ultime dieci posizioni della classifica dello HDI (Uman Development Index) redatta nell’ambito dello United Nation Development Program, non a caso, troviamo dieci paesi africani: Mozambico, Liberia, Mali, Burkina Faso, Sierra Leone, Burundi, Ciad, Sudan del Sud, Repubblica Centrafricana e Niger, che chiude al 189esimo posto.

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Molto probabilmente, PIL e PIL pro capite non sono due indicatori eccellenti dello stato di salute di taluni paesi, che possono essere annoverati tra i casi limite, qual è quello del Niger, per esempio. Nella fattispecie, il reddito pro capite, che si ricava dal rapporto tra valore totale della produzione a prezzi di mercato e numero degli abitanti, può essere alterato da un’insana distribuzione della ricchezza; la qual cosa può far alzare la media, per così dire, senza rivelare la condizione del paese e della popolazione. Può accadere, diversamente, che uno Stato abbia un basso PIL pro capite, ma, nello stesso tempo, un elevato HDI: ovverosia, un discreto tenore di vita dovuto a un’adeguata distribuzione della ricchezza. L’Indice di Sviluppo Umano (HDI) viene calcolato dal Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite tenendo conto di tre fattori essenziali: 1) una vita lunga e sana; 2) un livello medio di scolarizzazione; 3) uno standard di vita decente.

Ebbene, il Niger, pur possedendo risorse minerarie ed energetiche importanti come l’oro e il petrolio, si trova all’ultimo post per sviluppo umano e al 146esimo posto – su 197 – per PIL: un disastro umano. Tale paradosso economico fu messo a fuoco per la prima volta tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta da Richard Authy, della Lancaster University, e Jeffrey Sachs, della Columbia, e prese il nome di maledizione delle risorse. Secondo questi studiosi, infatti, l’abbondanza di una certa risorsa naturale genererebbe un eccesso di esportazioni a danno della produzione interna e dell’industrializzazione, un indebolimento delle istituzioni, un rifiuto dei principi fondamentali di contabilità del bilancio di Stato, una considerevole fuga di capitali e un elevato livello di disuguaglianza. Per quanto attiene ai dieci paesi summenzionati, le principali risorse minerarie ed energetiche che costituiscono l’oggetto della cosiddetta maledizione sono, oltre ai già indicati oro e petrolio, diamanti e rame.

Tuttavia, la maledizione delle risorse, che ha creato indubbiamente una sorta di élite estrattiva piuttosto votata a forme sempre più sofisticate di ‘collusione’ ed evasione, può diventare una valida interpretazione del fenomeno solo in seguito al completamento dei processi di decolonizzazione, sebbene, anche in questo caso, sia necessario mantenere una certa prudenza d’analisi. Da un punto di vista empirico-descrittivo, infatti, sembra esemplare; non pare altrettanto esemplare, se commisurata alla ricerca delle cause. Non possiamo trascurare che nell’area sub-sahariana – lo ripetiamo – si concentra il più alto numero dei poveri del mondo: il 37% delle persone non usufruisce di acqua potabile; il 65% non ha accesso all’elettricità; i bambini rischiano di morire entro il quinto anno di vita; il parto stesso talora è causa di morte per le partorienti e il tasso di fecondità – in particolare, in Niger – è di 7 figli per donna (fonte: Oxfam Briefing Paper, 2019)

Filantropia ‘estrattiva’

La storia della Repubblica di Liberia corrisponde, come quella di tanti altri Stati della regione sub-sahariana, alla storia della colonizzazione. Fu fondata nel 1820 dall’American Colonization Society, un’organizzazione apparentemente filantropica, ma che di fatto aveva il compito di gestire un nutrito gruppo di schiavi. A tal fine, acquistò materialmente un territorio a sud di un’altra colonia, quella britannica della Sierra Leone, e vi insediò più o meno ‘forzosamente’ proprio gli ‘uomini di colore’. Due anni dopo, nel 1822, fu costruita Monrovia, attuale capitale della Liberia, così chiamata in onore del quinto presidente degli Stati Uniti James Monroe. Il contesto geopolitico ed economico appare immediatamente nitido: gli stati confinanti, oltre alla già menzionata Sierra Leone, cioè Guinea e Costa d’Avorio, sono anch’essi due ex colonie: francesi.

Pure Guinea e Costa d’Avorio, pur non facendo parte dei ‘dieci’, sono ricche di risorse minerarie ed energetiche: oro, diamanti e petrolio. L’indipendenza della Liberia, di fatto, non tardò ad arrivare (1847), ma lo Stato divenne un vero e proprio protettorato statunitense e la gestione del paese fu affidata a un unico partito, il True Whig Party, che rappresentava una ristretta minoranza dell’elettorato, non superiore al 5% della popolazione. Questo dominio incontrastato si protrasse addirittura per un secolo ed ebbe fine solo in apparenza col colpo di stato del 1980. Oggi, la Liberia, come s’è già anticipato, occupa il 181esimo posto – su 189 paesi – dello Human Development Reports e ha un HDI di 0,435 (l’indicatore è compreso tra 0 e 1). La Sierra Leone è addirittura al di sotto con lo 0,419, mentre la Costa d’Avorio e la Guinea guadagnano qualche posizione, rispettivamente, 171esima e 141esima, con lo 0,492 e lo 0,541. Se cambiamo l’unita di misura e adottiamo quella del PIL pro capite, la situazione non cambia di molto.

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La connessione tra colonizzazione, risorse minerarie ed energetiche e povertà, almeno nella fascia sub-sahariana, sembra inconfutabile: il meccanismo di estrazione del reddito e la conseguente povertà, tra le altre cose, sono stati brillantemente descritti in un saggio (2012) intitolato Why Nations Fail: The Origins of Power, Prosperity and Poverty e scritto da un economista del MIT, Daron Kamer Acemoğlu, e da un politologo della Harris School of Public Policy, James Alan Robinson. Secondo gli autori, nel tempo, si sono configurate delle vere e proprie “istituzioni economiche estrattive” che hanno privato la popolazione di qualsiasi tipo di incentivo o servizio, concentrando il benessere nelle mani di pochi. In quanto allo sfruttamento del sottosuolo, è ormai accertato che la più parte delle multinazionali ha operato in combutta con certi governi fumosi e con una giurisprudenza aleatoria: la corruzione ha rappresentato una specie di istituto occulto nelle concessioni, tant’è che, nel 2003, è nata l’EITI, Extractive Industries Transparency Initiative, un progetto di regolamentazione e responsabilizzazione in materia di estrazione di petrolio, gas e minerali.

In linea teorica, lo standard EITI imporrebbe la divulgazione di informazioni lungo la catena del valore di pertinenza, dal punto di estrazione al modo in cui si distribuisce la ricchezza che ne deriva e, soprattutto, al modo in cui i governi trasformano i profitti in vantaggi per la popolazione. L’adesione, tuttavia, è ancora parziale. Alcuni paesi sono stati sospesi per instabilità politica o per mancato rinnovo degli standard: Liberia e Repubblica Centrafricana sono tra quest’ultimi; il Regno Unito è ancora in valutazione rispetto agli standard del 2016; gli Stati Uniti non hanno neppure sottoscritto il progetto di trasparenza. Paradossalmente, tra i paesi che hanno fatto più progressi figurano proprio quelli africani e non quelli dell’Occidente importatore.

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Filantropia ‘geopolitica’

Spostando il focus dell’analisi e prendendo in esame un processo di formazione statual-territoriale radicalmente diverso da quello della Liberia, ma che costituisce sempre l’esito di una programmazione geopolitica esterna, incontriamo, per l’appunto, Israele. Nel 1947, L’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), con la risoluzione 181, aveva pianificato la suddivisione del territorio conteso tra Stato palestinese e Stato ebraico, ad eccezione di Gerusalemme, che avrebbe dovuto essere amministrata dall’ONU. I fatti, com’è noto, furono diversi: l’attività dell’agenzia ebraica si tradusse presto in incontrastabile espansione territoriale ai danni del popolo arabo. Durante la guerra dei sei giorni, nel 1967, il neonato Stato d’Israele fu addirittura in grado di annientare rapidamente l’aviazione egiziana.

La trama degli interessi occidentali tuttavia s’infittisce e, a un certo punto, sembra pure rivelarsi, come in una sorta di apocalisse petrolifero-militare. Sul finire del XIX secolo, la Gran Bretagna si trovava già in una posizione di dominio commerciale globale, specie dopo aver sconfitto la Francia napoleonica e consolidato definitivamente una politica estera da sempre imperialistica. All’inizio del XX secolo, l’unica opposizione, cominciando il declino ottomano, era costituita proprio dall’impero russo. In una seconda fase, come s’è già visto, le preoccupazioni inglesi si concentrarono sul dollaro.

Per evitare una lunga ricostruzione storica o un’elencazione effimera di paesi e pseudo-alleanze, è sufficiente prestare attenzione solo ad alcuni episodi di geopolitica del secolo scorso. Dal 1952 al 1956, l’Egitto cominciò a sottrarsi inaspettatamente al controllo britannico. In primo luogo, fu deposto il re Faruq, molto aperto alle richieste di Sua Maestà. Il successo di Nasser, qualche anno dopo, nel 1956, non si poté considerare un fattore positivo per gli inglesi, in vista degli sviluppi commerciali del Canale di Suez. Nasser, infatti, non esitò a rispedire in patria le truppe britanniche incaricate di presidiare il Canale. In quegli stessi anni, il Primo Ministro iraniano, Mohammad Mossadeq, giunto al potere nel 1951, decise di nazionalizzare il petrolio, scelta, quella, che avrebbe lasciato campo libero a Italia, Russia e, di conseguenza, Stati Uniti, se non ci fossero state delle manovre di riparazione, manovre il cui compimento giustifica l’attuale stato delle cose. Com’è noto, l’Inghilterra controllava la Palestina per mandato della Società delle Nazioni.

Ciò che più c’interessa trarre dall’excursus storico sta non tanto nella vicenda di contrapposizione tra Israele e la Lega Araba, quanto, diversamente, nell’identità economico-militare dello Stato proclamato nel 1948 da David Ben Gurion.  Israele è sempre stato povero di risorse naturali, anzi potremmo dire ‘privo’, eppure s’è collocato ai vertici dell’avanzamento tecnologico e industriale sia del Medio Oriente sia dell’intero pianeta. Oggi, non a caso, possiede un HDI di 0,903 e ha un PIL pro capite piuttosto elevato.

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Il confronto tra Israele e Venezuela in termini di PIL pro capite è giustificato dal fatto che il Venezuela è il paese con le più grandi riserve di greggio al mondo: 300.899.991.552 di barili di riserve, secondo le stime effettuate dal CIA World Factbook. Nessuno può dimenticare di certo quanto è accaduto di recente proprio nel paese sudamericano: stato d’emergenza, violenza e caos nelle strade, mancanza di medicinali di prima necessità e di derrate alimentari, drastico razionamento del consumo energetico, inflazione galoppante et cetera.

Disuguaglianza

Giungiamo così a un’altra variabile della povertà: la disuguaglianza. Secondo il World Inequality Report, un documento redatto dalla Paris School of Economics, negli ultimi trent’anni, si è registrato un incremento reddituale di 12 centesimi per dollaro per il 50% della popolazione più povera, mentre l’1% della popolazione più ricca s’è aggiudicato 27 centesimi. Adottando i dati incrociati dell’Oxfam Briefing Paper e dell’inchiesta Billionaires di Forbes, scopriamo che l’1% del patrimonio del proprietario di Amazon, Jeff Bezos, stimato in 112 miliardi di dollari, sarebbe sufficiente a coprire l’intero budget sanitario dell’Etiopia. Di là dagli aneddoti, curiosi e, insieme, urticanti, le risultanze del World Inequality Report sono chiare: la disuguaglianza è in costante aumento; la qual cosa s’impone come una forma diversa di povertà, specie se si considera che, ogni anno, a causa dell’evasione delle grandi multinazionali, alcuni tra i paesi poveri perdono circa 170 miliardi di dollari.

World Inequality Report 2018

World Inequality Report 2018

È allarmante accertare che nessun paese al mondo riesce a sottrarsi a questo declino sociale: anche l’antica e nobile Europa fa registrare un ‘vergognoso’ 37% d’incremento della disuguaglianza. Questi dati s’impongono alla nostra attenzione, a dispetto del più confortante indice di Gini, un parametro adottato per la misurazione della disuguaglianza e della distribuzione della ricchezza, anch’esso compreso tra 0 e 1. Nei primi dieci posti della ‘lista di Gini’, infatti, troviamo addirittura otto paesi del vecchio continente: Danimarca (1), Svezia (3), Belgio (4), Repubblica Ceca (5), Norvegia (6), Slovacchia (7), Bosnia Erzegovina (8) e Finlandia (10).

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