Cercate i talenti nella neurodiversità, perché la normalità non rende

scritto da il 10 Novembre 2019

In un mio precedente articolo parlavo dell’importanza della diversità per la società ma soprattutto per le aziende visto il dimostrato ritorno economico di chi la mette in atto: la cultura dell’inclusione, che la diversità pretende, è redditizia anche in termini economici. Avere nel proprio ambiente lavorativo persone di entrambi i sessi, di tutti i gender, di tutte le etnie, di qualsiasi religione, di tutte le età, richiede uno “sforzo” a tutti noi, che ci rende migliori (quindi più performanti) come ben scritto in un importante studio già citato nel mio precedente articolo. Colpevolmente, in quel post, non ho parlato dell’importanza della neurodiversità e di quanto, anche questa, regali un vantaggio competitivo. Rimedio ora.

 

Prima di tutto intendiamoci sui termini

Quando si parla di “neurodiversi” ci si riferisce, generalmente a tutte le persone che si posizionano nel variegato spettro autistico e ultimamente anche a chi soffre di dislessia, disprassia, discalculia, sindrome di Tourette o di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (adhd). Nel 2013 l’American Psychiatric Association cambia il suo “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, conosciuto con il nome di DSM e considerato da tutti gli esperti del settore come la bibbia della psichiatria, per togliere la sindrome di asperger come categoria a parte ed includerla invece nello spettro dell’autismo.

A sua volta, lo spettro dell’autismo è suddiviso su tre livelli, a seconda del tipo di supporto richiesto alle persone che ne soffrono. Il primo livello, quello più “lieve”, è conosciuto anche con il nome di “mild autism”, include il cosiddetto autismo ad alto funzionamento e dal 2013, appunto, anche gli asperger. Insomma, visto che parliamo di una categoria di persone che parte da chi ha un semplice disturbo dell’apprendimento (dislessia) per arrivare a chi ha bisogno di un costante supporto per i suoi modi aggressivi e chiusi al mondo (autismo di terzo livello), dobbiamo fare i necessari distinguo prima di procedere nel nostro ragionamento, al fine di non banalizzare e di non sminuire il disagio di chi soffre.

In questo articolo mi riferirò principalmente agli asperger (chiamandoli, per comodità, ancora con questo nome nonostante la diversa classificazione medica), con delle eccezioni che andrò di volta in volta ad esplicitare.

Infine, va detto che il paradigma della neurodiversità porta avanti una contro-narrazione rispetto a quella prettamente medica. Mentre la ricerca e la clinica medica considerano tutte queste condizioni sopra citate delle “malattie da curare”, il paradigma della neurodiversità sostiene che la condizione autistica sia semplicemente una specificità umana o una differenza nei modi di socializzare, comunicare e percepire, e che non siano necessariamente svantaggiosi (Jaarsma e Wellin, 2012).

Al sottoscritto piace pensare piuttosto ad una co-narrazione tra le due parti, non vedendole in contrasto: mentre la ricerca scientifica fa il suo lavoro, abbiamo tutti il dovere di considerare queste persone per come sono, rispettando, onorando, ma soprattutto valorizzando, il loro ragionare diverso per il bene comune. Questo articolo vuole andare in questa direzione, cosciente però delle notevoli differenze che vi sono dentro e fuori lo spettro dell’autismo.

 

Come pesci di acqua dolce immersi nell’acqua salata

Nel caso della sindrome di asperger, si parla di persone che faticano a coltivare rapporti sociali, che tendono ad evitare il contatto visivo, ad intuire le emozioni altrui.  Queste persone tendono a fissarsi su alcune tematiche, diventando per gli altri, noiose e logorroiche, non capiscono le battute, non intuiscono i giochi di parole, non riescono a leggere tra le righe, prendono tutto alla lettera. Il Prof. Simon Baron-Cohen, direttore del centro di ricerca sull’autismo dell’Università di Cambridge, in un importante articolo pubblicato su “Scientific American”, si spinge oltre affermando che in realtà gli autistici semplicemente ragionano in modo differente, non hanno nessun “disordine mentale”.

“Se tu sei mancino in un mondo che insiste che dovresti essere destrimano allora essere mancini diventa una disabilità. Se si toglie la necessità di essere destrimani, allora magicamente la disabilità svanisce

Ai giorni d’oggi essere mancini non è più considerato un problema, ma tempo fa questa diversità non era accettata e il “mancinismo contrastato” ha creato più problemi che soluzioni, facendo vivere nel bambino una disabilità inesistente, con l’evidente rischio di minare la sua autostima.

Allo stesso modo, se si togliesse la necessità che le persone autistiche si debbano relazionare socialmente come gli altri, sparirebbe la disabilità dell’autismo. Per questo motivo, il Prof Baron-Cohen preferisce usare il termine di “Autism Spectrum Condition” (ASC) invece del termine “Autism Spectrum Disorder” (ASD). Sempre secondo il professore, l’autismo è una condizione che certamente va presa in considerazione, evitando un relativismo che non avrebbe senso, ma non implica nessun danno al cervello. Insomma, come ha fatto giustamente notare una persona con autismo:

“noi siamo come pesci di acqua dolce, immersi nell’acqua salata. Metteteci in un lago e noi prosperiamo, immergeteci nel mare e noi soffriamo”

 

Perché abbiamo bisogno dei superpoteri degli asperger

Facciamo un esempio d’attualità. Molti di noi sono presi da mille impegni. Si lavora fino a tardi, concentrati come siamo su noi stessi e sul nostro (finto) benessere. Diciamocelo pure, questa storia del riscaldamento globale per noi è solo una scocciatura di cui preferiremmo non parlare, perché implicherebbe prima di tutto un diverso stile di vita: la nostra casa brucia, ma siamo presi da altro. Essere neurotipici vuol dire, purtroppo, anche questo: riuscire a far finta di niente.

Ci servono persone che si ostinano, grazie al loro amore ossessivo per la logica (ed è questo il loro superpotere di cui Greta Thunberg ne va giustamente fiera), a ricordarci il pericolo che stiamo correndo. Per saperne di più sulla sindrome di asperger, partendo dal trattamento crudele e vigliacco riservato a Greta, vi invito a leggere questo articolo di Valigia blu, veramente ben fatto ed esaustivo come pochi. Ma non c’è solo Greta a salvarci: di super eroi con i super poteri, di cui i miseri neurotipici hanno un disperato bisogno, la storia ce ne regala molti.

L'attore Jim Carrey

L’attore Jim Carrey

I super eroi che hanno fatto la storia

Persone asperger, ma anche dislessiche, disprattiche e adhd, sono sempre esistite, mancava però la letteratura che li categorizzasse, in base al loro comportamento. Date un occhio a questa lista di personaggi famosi che si posizionano tra la dislessia, l’asperger e l’autismo. Personalmente, senza saperlo, devo avere un debole per loro: adoro i film di Stanley Kubrick e Tim Burton,  compro molti dei prodotti della Apple di Steve Jobs; mio padre scacchista mi ha insegnato a rispettare le stravaganze di Bobby Fischer, mentre ho letto e riletto “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll. La lista prosegue e ce la spiega bene stateofmind:

“nella letteratura sulla neurodiversità spiccano diversi nomi di individui brillanti che, nella loro vita, hanno imparato a sfruttare al meglio le loro diverse capacità: Paul Dirac per autismo e Asperger, Mozart e Shakespeare per l’ADHD, Einstein per dislessia. Tra i personaggi più recenti che spiccano nel panorama della neurodiversità troviamo Richard Branson, a capo della Virgin, che ha definito la sua dislessia “un vantaggio”. L’attore canadese Dan Aykroyd, star dei Blues Brothers, e la famosa cantante Susan Boyle hanno rivelato di avere la sindrome di Asperger. Per l’ADHD ricordiamo Jim Carrey e l’imprenditore David Neeleman fondatore di diverse compagnie aeree”.

Ma non finisce qui, abbiamo anche (in ordine rigorosamente sparso), James Joyce, Bill Gates, Emily Dickinson, Charles Darwin, Alfred Hitchcock, Steven Spielberg, Michelangelo Buonarroti, George Orwell, Immanuel Kant, Andy Warhol, Al Gore, Henry Ford, Bob Dylan, Mark Zuckerberg. Quest’ultimo, visti gli ultimi fatti di cronaca, merita un paragrafo a parte.

 

Mark Zuckerberg e l’imboscata della deputata Ocasio-Cortez

Ultimamente, in rete, è diventato virale un confronto tra Mark Zuckerberg e la deputata Alexandria OcasioCortez sui fatti che riguardano principalmente lo scandalo di Cambridge Analytica e la gestione delle fake news, in cui la Ocasio-Cortez ha dialetticamente distrutto il CEO di Facebook. Nel video potrete notare uno Zuckerberg confuso, che non ricorda, e che non riesce a riprendere il discorso quando viene continuamente interrotto dalla sua interlocutrice.

Nessuno, neanche la stampa estera, ha attribuito questo suo comportamento al suo essere asperger (che lo sia è ipotizzato da molti e confermato da chi ci ha lavorato insieme), forse perché fa più notizia vedere il CEO di una potentissima multinazionale piegato e umiliato al congresso dalla brava Ocasio-Cortez, piuttosto che riconoscere le sue oggettive difficoltà relazionali. Nonostante nel merito condivida in toto le preoccupazioni della deputata, nel metodo l’ho vista come una vera e propria aggressione dialettica tra una neurotipica in cerca di visibilità e un asperger in visibile difficoltà. Insomma, molto probabilmente,  il balbettare di Zuckerberg aveva più origine nello spettro dell’autismo, che nello spettro della opaca Facebook.

La faticosa vita camaleontica delle donne asperger

Prima di arrivare al punto e parlarvi del vantaggio competitivo che si ottiene con una politica aziendale di neuroinclusione, vale la pena ricordare come le donne siano ancora più sfortunate, anche quando si parla della sindrome di asperger. Il rapporto di diagnosi dell’autismo, tra gli uomini e le donne è di quattro ad uno. Probabilmente però è un dato che potrebbe non essere vero: gli esperti infatti ipotizzano un rapporto di una donna ogni due uomini o che addirittura siano equivalenti.

Come mai questa difficoltà nel diagnosticare la sindrome di asperger alle donne? Perché, quando si parla di donne nello spettro dell’autismo, si tende invece a diagnosticare generici problemi psichiatrici, disturbi della personalità, disordini dell’alimentazione? Per diversi motivi, ma il principale è che le donne tendono di più a “fingere di essere normali”, a camuffare la loro situazione, perché sentono di non potersi permettere, in un mondo “male first”, di poter esplicitare la loro condizione. Quindi una donna nello spettro si ritrova spesso a mimare (in modo inconscio) o ad imparare (in modo consapevole) un comportamento “socialmente accettabile”, come il contatto visivo durante una conversazione, l’uso di frasi scherzose preparate a tavolino, o imitando i gesti e le espressioni facciali degli altri. Sapete quando si accorgono di essere asperger? Quando hanno dei figli maschi che hanno ereditato questa sindrome, essendo questa condizione in parte genetica.

Su questo continuo e faticoso camuffare la propria condizione, vi è un graphic novel bestseller intitolato “Camouflage: The Hidden Lives of Autistic Women” che consiglio a tutte le persone interessate di leggere, perché spiega benissimo, con delle toccanti illustrazioni, questa difficile condizione che le donne nello spettro devono ulteriormente subire.

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La “normalità” non rende: includere conviene

Lavoro nel mondo dell’informatica da più di venti anni, prima da programmatore ed ora da manager. Ho conosciuto nella mia vita lavorativa tantissime persone con tratti più o meno evidenti di asperger: evidentemente la logica che l’informatica pretende è un “habitat naturale” per chi vive nello spettro dell’autismo. Li riconosco in fase di colloquio ed ho imparato nel tempo a considerarla una skill in più, rispetto alle persone cosiddette neurotipiche.

Tendono a non guardare negli occhi, nessun sorriso di troppo, si perdono quando si pongono domande “aperte” che non riguardino esclusivamente il lavoro, non ridono alla battuta. In ufficio preferiscono chiudersi al mondo, indossando le cuffie tutto il giorno e quando una cosa non gli torna, perché ambigua, insistono fino alla noia per chiarirla. Non sanno vendersi, se una cosa non la sanno lo dicono e non accettano compromessi di questo tipo. Non fanno pause, in alcuni casi ho rinunciato ad invitarli a prendere un caffè, perché già so che non gli farebbe piacere. Il punto è che tutte queste persone spesso e volentieri sono degli eccellenti programmatori, testers, analisti, architetti del software, sistemisti, con una incredibile capacità di concentrazione. Portano in azienda, soprattutto in quelle hi-tech, un valore inestimabile, un vero e proprio vantaggio competitivo, ben spiegato in questo interessante studio pubblicato su Harvard Business Review.

Molte aziende multinazionali, spesso d’oltreoceano, si sono accorte di questo grande valore inespresso e hanno introdotto specifici programmi di neuroinclusione che stanno portando ad eccellenti risultati. Parliamo di SAP, HPE, IBM, Microsoft. SAP è l’azienda pioniera in questo campo ed ha deciso di portare, entro il 2020, il numero di persone “neurodiverse” ad almeno l’1% della sua forza lavoro: “grazie al lavoro di una persona asperger”, riporta SAP, “siamo riusciti a risolvere un problema che ci ha permesso di risparmiare qualcosa come 40 milioni di dollari”.

Infine l’azienda tedesca, leader nel mondo di software gestionale, ci fa sapere che all’inizio pensavano di impiegare le persone con autismo soltanto per attività di testing vista la natura ripetitiva a loro cara, ma poi nel tempo si sono accorti che potevano aggiungere un grandissimo valore anche in altri settori, come il product management e persino nel customer care, sfatando il luogo comune che li vedrebbe in difficoltà nelle relazioni sociali con le persone. Escluse queste poche aziende illuminate, rimane però la difficoltà degli asperger di farsi assumere, perché viste le loro difficoltà “relazionali” non riescono a passare il colloquio, a causa di una inadeguatezza del management.

 

La neuroinclusione è controculturale

Per anni è stato insegnato ai manager in generale e all’HR in particolare, di assumere persone non solo per le skill di competenza ricercate ma anche per le cosiddette softskill, e tra queste soprattutto quella di sapersi relazionare. Un candidato con un bel sorriso stampato in faccia, dai modi cordiali, sicuro di sé, che guardi negli occhi il proprio interlocutore, ha sempre avuto la meglio rispetto alle persone chiuse, introverse, poco inclini ad aprirsi agli altri. E’ evidente che con queste pretese si alza un muro insormontabile per chi “ragiona in modo diverso”. Anche in questo caso la bellezza la troviamo al di fuori della nostra “comfort zone”, andando oltre ciò che ci mette a nostro agio.

D’altra parte, competere in questo mondo velocissimo e ultraconnesso, richiede il superamento di alcune nostre barriere mentali. Il rischio, altrimenti, è quello di perderci un Bill Gates, uno Steve Jobs, un Elon Musk: tutte persone nello spettro dell’autismo, che grazie al loro ragionare differente hanno creato imperi high tech (diciamoci la verità: probabilmente una persona neurotipica neanche ci arriva a pensare di costruire un razzo “riutilizzabile”, capace cioè di tornare alla base da solo, una volta lanciati i satelliti nello spazio, al fine di abbassare i costi). Visto che quindi la neuroinclusione è ancora controculturale, e che rischiamo di perderci dei talenti nascosti, abbiamo bisogno di professionisti che ci accompagnano in questo necessario percorso.

 

L’importante lavoro di Specialisterne

Un incontro del progetto "Autism at Work" di SAP

Un incontro per il progetto “Autism at Work” di SAP

Specialisterne nasce in Danimarca (in danese significa “specialisti”) da Thorkil Sonne, padre di un ragazzo con asperger che ha avuto l’intuito e la capacità di trasformare un problema personale in una bellissima opportunità per tante altre persone che vivono la stessa condizione. Per potervi raccontare questa testimonianza, ho chiesto alla Dott.ssa Stella Arcà, responsabile di Marketing e Vendite di Specialisterne di concedermi una intervista.

La loro missione è quella di fare da ponte, tra i talenti con autismo e l’azienda che ha bisogno di specialisti, facendo superare le barriere culturali sopra descritte. La società ha sedi in 21 paesi e 39 città e da due anni è presente in Italia, a Milano, e presto anche a Roma. Ad oggi sono riusciti ad introdurre nelle aziende milanesi, con successo, già 25 persone con autismo, presso 5 clienti diversi, mentre nel mondo hanno fatto assumere più di mille persone. Chi si candida viene prima formato gratuitamente da Specialisterne per ben 4 mesi (principalmente come testers di software e programmatori) e poi viene accompagnato dal cliente con un tutor dedicato. Sarà poi cura di quest’ultimo preparare il management dell’azienda affinché sappia accogliere al meglio il candidato, e tornare periodicamente in ufficio per assicurarsi che tutto proceda per il meglio.

I clienti, finora, hanno espresso grande soddisfazione, per due ragioni principali. La prima è diretta: sono tutte persone che hanno una grande passione per i dettagli (che è anche il motto dell’azienda), sono molto produttive e bravissime nel dare una struttura ben definita al progetto su cui lavorano. La seconda ragione la trovo ancora più interessante e conferma la validità dello studio citato nella premessa iniziale:

i manager che imparano a gestire le persone con l’autismo si comportano poi meglio, e con più efficacia, anche con tutti gli altri colleghi (neurotipici).

La dott.ssa Arcà per spiegarmi meglio questo concetto mi porta degli esempi concreti: i manager per farsi capire dalle persone che hanno l’autismo devono essere diretti, nessun giro di parole, perché non lo capirebbero; infine i manager lavorando con loro capiscono che è molto più importante e produttivo concentrarsi sulle persone, piuttosto che sui singoli task. Queste sono due grandi lezioni di management, che l’azienda si porta a casa, quando decide di lavorare con loro. Altro aspetto interessante, ghiotto a molte aziende: il 94% dei talenti con autismo rimane in azienda. Non solo: SAP che, grazie a Specialisterne, ha introdotto ben 130 loro talenti, ha notato che si è abbassato il turn-over generale, perché le persone sono fiere di rimanere in un’azienda così aperta e inclusiva.

 

Conclusioni

Viviamo in una società che misura le nostre performance fin dalla nascita, nella disperata ricerca dei valori standard. Fin da piccoli rientriamo nelle curve dei quantili, quartili e percentili, ossessionati come siamo di essere nella norma. Ci misurano mese per mese i nostri progressi nell’ambito motorio, relazionale, sull’udito, la vista e il linguaggio; ci misurano quando parliamo, quando gattoniamo, quando camminiamo, quando sapremo disegnare bene il corpo delle persone. Il tutto in una cornice ad alta competizione, dove ci si confronta continuamente con gli altri genitori, che guarda caso hanno figli sempre più performanti dei nostri.

Probabilmente per poter riuscire ad apprezzare le intelligenze di tutti, prima ancora di pretenderlo dalle aziende, dovremmo uscire da questa dittatura dello standard, senza nulla togliere agli utili strumenti statistici: sarà questa la vera neuroinclusione. Anche perché abbiamo un disperato bisogno di loro, della loro granitica logica (che ci ricorda, ad esempio, quanto sia importante preoccuparci del nostro unico pianeta) e della loro cura per i dettagli, per non lasciare nulla al caso, in una società sempre più tecnologicamente deterministica. Tutta questa attenzione, lo abbiamo visto, ci torna indietro con gli interessi: imparare a relazionarsi con loro ci aiuta anche con gli altri, perché sono sempre i limiti che ci spingono a migliorare, nella vita personale come in azienda.

La percezione di sentirci al sicuro soltanto dentro il perimetro della nostra normalità, è il vero problema, che non solo ci fa perdere l’opportunità di conoscere persone che potrebbero cambiare in meglio la nostra vita, ma causa frustrazione, dolore e spesso una forte depressione a chi -per un motivo o per un altro- ne rimane escluso.

— Emiliano Pecis su Linkedin