Reddito minimo e no tax area per i precari, se ne può ancora parlare?

scritto da il 25 Ottobre 2019

Pubblichiamo un post di Mari Miceli, analista giuridico. Mari svolge attività di ricerca in materia di dinamiche processuali penali. Autrice di pubblicazioni scientifiche, è membro del Comitato revisori di @camminodiritto – 

Premessa. La vita e il lavoro da precari sono spesso considerati questioni marginali: la realtà è che sono storie di vita vera, di lavoro, di impieghi temporanei e di assoluta mancanza di welfare. Il sentimento prevalente di chi vive da precario è l’essere sottoposto a un continuo ricatto: un esercito di lavoratori a cui vengono negati ferie, malattia, maternità. I numeri sono esorbitanti e sono emersi con chiarezza nel corso della tavola rotonda svoltasi il 4 ottobre a Roma presso la sede del sindacato nazionale forense M.G.A. che ha visto la presenza di numerosi rappresentanti delle forze politiche, sindacali e sociali, ed esponenti del mondo accademico ed intellettuale. “A trent’anni non è facile accorgersi che questa precarietà ti è entrata talmente tanto nelle vene al punto che non avere straordinari pagati, ferie e malattie non sia cosa strana”. [Storie precarie, ed. Ediesse 2014]

La liberalizzazione del mercato del lavoro
Per anni i teorici del liberismo economico ne hanno minimizzato gli effetti sul mercato del lavoro, affermando che quest’ultimo si sarebbe autoregolamentato. Il risultato è stato l’esatto contrario: si è annullato il livello di tutela dei lavoratori precari, i quali – trovandosi anch’essi in un mercato del lavoro in piena crisi economica – hanno subito un calo drastico dei propri redditi, una diminuzione del potere contrattuale e un peggioramento della qualità del lavoro e della vita.

L’OCSE ha dimostrato come ci sia una relazione tra protezione sociale dei lavoratori e dati sulla disoccupazione: i Paesi in cui il grado di protezione sociale è basso hanno alte percentuali relative alla disoccupazione. Per dimostrare questa relazione l’OCSE ha elaborato nel 2014 un indicatore, l’EPL (Employment Protection Legislation Index),che misura il grado di protezione dell’occupazione: più basso è l’indice, più alto è il livello di flessibilità. Ad oggi grazie a questo indicatore si è dimostrato come in Italia licenziare sia più facile del 40%. Gli ultimi dati OCSE (2019) indicano un tasso di disoccupazione giovanile “intorno al 30%”, con tassi di povertà assoluta per i giovani che sono nettamente aumentati in seguito alla crisi e rimangono elevati.

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I dati del precariato
Questo processo di impoverimento è ancor più grave per le fasce più deboli del lavoro autonomo, professionale e a partita Iva che coinvolge tante e diverse figure: lavoratori parasubordinati, praticanti, tirocinanti, dottorandi e ricercatori, lavoratori in nero, a tempo, a prestazione intermittente e discontinua. Vi sono lavoratori iscritti agli Ordini professionali come ingegneri, architetti, geometri, giornalisti, avvocati e parafarmacisti, e vi sono lavoratori privi di un Ordine come gli archivisti e i magistrati onorari. E poi vi sono lavoratori iscritti alla gestione separata dell’INPS e lavoratori, come tutti gli ordinisti, iscritti obbligatoriamente a una delle 21 casse di previdenza private, e che ne stanno operando una gravissima selezione censitaria con contributi minimi obbligatori altissimi assolutamente sproporzionati rispetto ai redditi già fin troppo esigui.

“La crisi di questi lavoratori – ci dice Cosimo D. Matteucci, presidente di M.G.A. – è certificata dai dati e dalle statistiche: basti pensare alla ricerca “Vita da Professionisti” realizzata nel 2015 dall’associazione Bruno Trentin con il supporto della CGIL, da cui è emerso che circa il 45% dei professionisti italiani langue nella fascia reddituale da 0 a 15.000 euro lordi, annui”. Si tratta di un numero enorme di persone, pari a quasi 1,6 milioni, considerando che, come attestato dalla stessa ricerca, il numero complessivo dei professionisti in Italia è di quasi 3,5 milioni, esclusi gli imprenditori ed i professionisti con dipendenti, con i quali si raggiunge la cifra di 5,5 milioni di persone. Si tratta di una massa di lavoratori diversi tra loro ma quasi tutti accomunati dalla titolarità di una partita Iva, dalla grave sofferenza reddituale, fiscale e previdenziale, e da una cronica precarizzazione: il loro rapporto di lavoro, infatti, può cessare in qualsiasi momento, anche senza preavviso e per qualsiasi ragione.

Il Jobs Act
La priorità di rilanciare il dibattito pubblico sulla situazione di questi lavoratori corrisponde alla necessità di fornire anche a loro tutele, diritti e garanzie estendendo il perimetro della legge n. 81 del 2017, dal quale molti di loro sono esclusi; ed a questo rilancio ha mirato la tavola rotonda organizzata da M.G.A. Il cosiddetto Jobs Act del lavoro autonomo infatti non delinea una disciplina organica del settore, ma prevede per lo più interventi circoscritti, sulla base di una geometria molto variabile e a tratti anche imprecisa: certe previsioni valgono per tutti, altre per alcune tipologie di lavoratori, il resto per tutti gli altri, generando così non pochi dubbi interpretativi. In generale la platea dei destinatari è sostanzialmente circoscritta ai lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata INPS, che, sulla base degli ultimi dati risultano circa 220.000. Sostanzialmente esclusi, a parte alcuni interventi, sono tutti gli altri, a partire dai professionisti ordinisti iscritti alle 21 casse di previdenza private e che, secondo le ultime rilevazioni ADEPP (Associazione degli enti previdenziali privati), sfiorano la quota di 1,5 milioni. La speranza di migliorare quel testo legislativo risiede nell’art. 17, con cui si prevede la costituzione di un tavolo tecnico di confronto permanente sul lavoro autonomo; tavolo sinora mai attivato, e di cui M.G.A. auspica e chiede l’apertura.

Conclusioni
L’ instabilità dell’occupazione incide fortemente sulle dinamiche esistenziali dei singoli ma si riverbera inevitabilmente anche sulla società tutta e sulla stabilità del tessuto sociale. Mentre in alcuni paesi nordici, Danimarca in primis, si è sviluppata una flexicurity bilanciata tra forme discontinue di impiego e continuità di reddito, in Italia fa da contraltare un modello con decine di contratti atipici contrapposto al regime di contratto tipico che ha per decenni garantito il lavoratore.

Appare chiaro come la partita Iva si sia trasformata nel nuovo strumento della precarizzazione e dello sfruttamento del lavoro, e lo è diventata ovunque, dai call center, alle aziende, dagli uffici giudiziari agli studi professionali. I rimedi a cui si è pensato li sintetizza Matteucci:

– reddito minimo garantito, uno strumento fondamentale per coprire i periodi di non lavoro e per contrastare il ricatto che spinge al lavoro gratuito, all’accettazione dei sotto-compensi e di lavori privi di diritti;

– estensione degli ammortizzatori sociali con il superamento del modello assicurativo;

– defiscalizzazione dei trattamenti assistenziali erogati dalla Casse di previdenza dei professionisti ordinisti;

– determinazione di un sistema fiscale equo con l’innalzamento della “no tax area” alla soglia di 10.000 euro di fatturato annuo, e riaffermazione del principio costituzionale della progressività per le altre fasce reddituali al fine di recuperare risorse da destinare al finanziamento delle tutele welfaristiche universali;

– determinazione di sistemi previdenziali equi, solidali e compatibili con la vita, con una pensione minima garantita indipendente dal montante contributivo accumulato.

– equo compenso esigibile anche nei confronti dei privati senza timore di definirlo tariffa.

Twitter @micelimari_1