Siria, una tragedia lunga un secolo con troppi responsabili

scritto da il 14 Ottobre 2019

I numeri sono inesatti, inadeguati, quasi ‘offensivi’; un bilancio vero e proprio non si può fare. Nel 2014, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCHR), aveva annunciato addirittura di non poter più fornire cifre ufficiali e affidabili sui morti della guerra in Siria. Adesso, dovremmo accogliere in compartecipazione emotiva le parole dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’UE, Federica Mogherini, secondo la quale “chiediamo alla Turchia di fermare gli attacchi, ma non possiamo fermare i finanziamenti alla Turchia per la gestione dei migranti”. ‘Dovremmo’… Se ci limitassimo ad accoglierle in modo acritico, tuttavia, saremmo anche costretti a interpretare l’ultima vicenda curdo-siriana secondo banalissime equazioni di causa ed effetto: Erdogan deve mettere in sicurezza i propri confini, Trump ritira le truppe, la guerra sarebbe cominciata otto anni fa et similia. Nulla di tutto questo è vero o, meglio, lo è solo in minima parte, quale rappresentazione coreografica.

Insomma, si legge dappertutto che la “tragedia siriana comincia nel 2011”, laddove è ‘vecchia’ di quasi un secolo.

2016 (3 anni fa appena): Erdogan diventa bersaglio di accuse pesanti da parte della NATO, dell’UE e pure della Russia. In pratica, la Turchia si rifiuta di concedere il transito dalle proprie acque territoriali alle navi militari delle NATO dirette nel Mar Egeo a monitorare – si dice – il flusso degli immigrati. La rotta anatolico-balcanica è sempre stata una spina nel fianco per comunità internazionale in materia d’immigrazione e non solo. Tuttavia, a posteriori, non possiamo non tenere in seria considerazione che la Turchia rappresenta uno snodo importantissimo per la gestione del petrolio mediorientale sia per i suoi confini territoriali, che la vedono a stretto contatto con Siria, Iran e Iraq, sia perché al porto turco di Ceyhan arriva direttamente il petrolio di Kirkuk tramite un oleodotto. Può darsi allora che la Turchia, all’epoca, abbia solo anticipato le mosse atlantiche e sia stata ‘antiumanitaria’ per convenzione, dato che la gestione delle risorse petrolifere irachene è stata affidata alle compagnie angloamericane?

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Il kurdistan iracheno s’è sempre ribellato, ma senza risultati. La questione curda – si badi bene! – esiste dalla fine della prima guerra mondiale, tant’è che curdi sono alla ricerca di una propria identità geopolitica, il Kurdistan, proprio dagli anni in cui si sgretolò l’impero ottomano. La Turchia, purtroppo, si trova in un contesto geopolitico molto complesso perché, anche nella tanto discussa Siria, l’oro nero e il gas sono affari da primo piano: i giacimenti petroliferi e gasiferi di al-Hasaka non sono mai state le risorse di un gigante, ma hanno generato un export di svariati miliardi. Così, tra le pieghe dei ‘giornali’, veniamo a sapere che la Turchia ‘vorrebbe’ creare una safe zone nel Nord Est siriano, respingere le milizie dell’YPG e così via. Ci tocca dire però che, oggi, nulla di tutto questo appare credibile. Alcuni ricordano, sicuramente, che, secondo fonti russe, qualche annetto fa, la Turchia avrebbe bombardato la città siriana di Dikmetash. La Turchia smentì e il caso restò sospeso, non se ne fece una tragedia; NATO e UE sembrarono piegarsi, in apparenza, alla volontà turca.

Prestando fede alle cronache, gli schieramenti rivali sono stati rappresentati nel tempo dalle Forze Governative e dalla Coalizione Nazionale Siriana. Da un’indagine approfondita si scopre, anzitutto, che la Siria è in ‘stato di emergenza’ dal 1962, ma la questione curda esiste ed è ‘urgente’ dalla fine della prima guerra mondiale. Le stime fornite dalle Nazioni Unite, della cui precarietà s’è già detto, morti e sfollati a parte (sfollati quasi sempre diretti verso i paesi confinanti: Turchia, Giordania e Libano), sono fissate in circa 15 milioni di persone bisognose d’aiuto e in un 70% della popolazione che vive in condizioni di estrema povertà. La Banca Mondiale, invece, nel 2017, fece sapere che il danno causato dalla guerra ammonta a oltre 180 miliardi di dollari. Che cosa è successo dal 1962 ad oggi? È noto che: la Lega Araba, gli Stati Uniti e gli stati della Cooperazione del Golfo Persico (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman, Qatar) hanno condannato le violenze (…come prelevare un bicchiere d’acqua dall’oceano pretendendo di abbassarne il livello); Kofi Annan, in qualità di inviato speciale dell’ONU, qualche anno fa, tentò di risolvere la crisi (…come fosse l’Arcangelo della Liberazione); Ban Ki-moon (all’epoca, Segretario Generale dell’ONU) avvertì – si dice – in tempi non sospetti che il conflitto si sarebbe ampliato (…come fosse una sventurata Cassandra). Verrebbe fatto di chiedersi: – Se lo aveva detto pure il Segretario Generale dell’ONU, perché nessuno lo ha ascoltato? Oppure: perché ha ricoperto questo ruolo, se nessuno gli ha mai prestato attenzione? -. Ce ne rendiamo conto: Verrebbe fatto di (…), ma non vogliamo abbandonarci alla retorica.

Secondo l’opinione del governo siriano, almeno quella che è giunta fino a noi, i ribelli della Cooperazione Nazionale Siriana, cioè i signori dell’ISIS (?), han voluto sempre instaurare un regime islamico radicale. Lo dimostrerebbe il loro legame con al Qaida. Chi si è sempre opposto al governo, in genere, rivendica delle forme di libertà democratica, che Bashar al-Assad, il Capo di Stato, come sappiamo, ha sempre soppresso. Qual è la verità dei fatti? È necessario spingersi alla ricerca di qualche punto fermo. È certo che la forma di governo siriana, prima della ribellione totale, era codificata in una repubblica semipresidenziale. Il presidente avrebbe dovuto essere una carica elettiva. È altrettanto certo, tuttavia, che il paese è sempre stato controllato dal monopolio politico del partito Ba’th e il presidente eletto, di volta in volta, apparteneva sempre alla famiglia Assad (…più o meno, le cose sono andate così per 40 anni).

Ma… il 24 ottobre 1945, la Siria ha fatto il proprio ingresso nell’ONU. Emergono come dirompenti molti altri interrogativi… Se il cane si morde la coda…

In sostanza, sarebbe sbrigativo dare la colpa ai regimi autocratici o religiosi, i quali, per lo meno, hanno un nome e sono riconoscibili, se poi siamo costretti ad accettare che i paladini delle libertà democratiche appartenenti alle Istituzioni Governative covano a lungo e in silenzio uova di basilisco. È bene che, in questa scacchiera composita e caleidoscopica, si tengano in considerazione non solo gli opposti schieramenti siriani ma anche e, soprattutto, quelli internazionali. Francia, Inghilterra e Stati Uniti hanno sempre sostenuto la Cooperazione Nazionale Siriana, ovvero l’ISIS (?) – stando alle logiche equazioni di sistema –, mentre i paesi dell’Oriente che conta, su cui prevalgono Russia e Cina, sostenevano le Forze Governative. Procedendo oltre con gli studi, si potrebbe anche documentare che buona parte dell’Africa settentrionale, dell’Europa orientale e settentrionale sosteneva indirettamente i ribelli. Guarda caso – sempre il caso! –, tutte le leadership dell’Africa settentrionale sono state annientate nel 2011. Sarebbe interessante scoprire in che misura si estende l’avverbio ‘indirettamente’. Per converso, l’America latina, l’India e l’Africa meridionale sostenevano, altrettanto indirettamente (?), Bashar al-Assad. Viste le forze in campo, è fin troppo chiaro che nessuno ha interesse a intervenire concretamente per riportare pace e ordine.

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Erdogan (a destra) e Donald Trump

‘Pace’ e ‘Ordine’, in questo caso, diventano eufemismi o, comunque, figure retoriche adottate a uso e consumo popolare, come fossero formule di un catechismo dalle ‘larghe intese’ religiose o simboliche.

L’Arabia Saudita costituisce indubbiamente un caso intrigante. È il paese che ha promosso la nascita della Cooperazione del Golfo Persico, la cui sede, non a caso, è a Riyadh. Lo scopo ufficiale di tale struttura intergovernativa è sempre stato quello di garantire un certo equilibrio economico e politico-sociale all’interno dei paesi aderenti: Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar. Uno sguardo alla geografia politica di pertinenza farebbe sorgere dubbi pure a un acuto studente delle scuole medie. È sicuramente casuale che i paesi summenzionati rientrino in un’area territoriale prossima a quella del paese promotore.

È logico, tra le altre cose, auspicare che, alla base di un sistema siffatto, si proponga un solido patto di stabilità economica; il che, in effetti, è stato fatto. All’epoca della guerra tra Iran e Iraq, infatti, la proposta era già bell’e pronta attraverso la pianificazione di una moneta unica, il Khaliji, e, soprattutto, di un mercato comune. A poco più di vent’anni di distanza dalla proposta, il progetto è svanito. L’Oman, nel 2007, ha comunicato di non essere in grado di rispettare i parametri di stabilità. In seguito, anche gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto un passo indietro, tanto che si è ancora alle prese con ipotesi e congetture politico-finanziarie. È legittimo chiedersi: gli analisti di finanza internazionale d’origine Saudita non erano in grado di prevedere che la maggior parte dei paesi membri non avrebbe avuto la forza e la stabilità per rispettare i parametri dell’eventuale mercato comune? Oppure s’è trattato d’un’iniziativa concepita unicamente per arginare le mire iraniane e il baathismo (… quello stesso baahtismo imperante in Siria)?

Ancora una volta, il caso ha voluto che la caduta di Saddam Hussein facesse venire meno anche l’ardore comunitario del Gulf Cooperation Council. Sempre il caso ha voluto che, in contrapposizione alla nascita dell’Organismo di Riyadh, lo stesso Saddam Hussein desse vita al Consiglio di Cooperazione Araba assieme all’Egitto, alla Giordania e allo Yemen del Nord. In sostanza, da più di cinquant’anni non cambia alcunché: l’immobilismo è la regola d’oro che bisogna rispettare per rendere invulnerabile la ragion di stato.

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