Competitività, un Paese lumaca (anche al Nord) frenato dalle istituzioni

scritto da il 15 Ottobre 2019

La pubblicazione dell’European Regional Competitiveness Index non ci fa mai sorridere. Le Regioni italiane mostrano un ritardo significativo di competitività rispetto alle omologhe europee. Si trovano tutte al di sotto della media UE.

Dall’indice emergono due essenziali considerazioni.

La prima è interna. Tra la nostra miglior Regione, la Lombardia, e la peggiore, la Calabria, ci sono quasi cento posizioni di differenza. Tutte le Regioni del Mezzogiorno sono oltre la duecentesima posizione (su 268).

La seconda è europea. Se andiamo a confrontare la Lombardia con le sue peers Regions, la troviamo indietro di più di 100 posizioni rispetto a Düsseldorf, di circa 80 rispetto a Praga, di quasi 50 rispetto alla Comunidad de Madrid.

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Esiste quindi un doppio problema Paese, ma solitamente siamo più abituati a guardare a quello interno ed alla grande questione meridionale piuttosto che al gap di competitività con gli altri Stati Membri.

Entrando nel dettaglio degli indicatori, salvo qualche buon risultato nel capitolo Salute, si notano i vari ritardi. In particolare, colpisce -in negativo- la voce “Institutions”, oltre a quella “Technological readiness”.

Concentriamoci un attimo sulla voce Istituzioni (che comprende tutta una serie di sub-indicatori). Come noto, il nostro sistema è caratterizzato da una certa inefficienza della Pubblica Amministrazione. Inoltre, è sempre stato inquinato da fenomeni corruttivi e da infiltrazioni della criminalità organizzata. Nel corso del tempo si è quindi dato vita ad un complesso groviglio normativo e burocratico teso a prevenire tali fenomeni. L’impostazione di fondo è stata dettata dalla nostra storia. Come diceva Giovanni Falcone nel lontano 1991: «Parlando dei guadagni della mafia, non possiamo dimenticare gli appalti e i subappalti. Mi chiedo anzi se non si tratta degli affari più lucrosi di Cosa Nostra. Il controllo delle gare di appalto pubbliche risale a molte decine di anni fa, ma oggi ha raggiunto dimensioni impressionanti.»[1]

Lo Stato ha provato e prova a contrastare tutto ciò attraverso la legislazione. Un esempio è il codice dei contratti pubblici, così come altre normative speciali, che prevede tutta una serie di limiti alla libertà di impresa, con il nobile intento di salvaguardare la legalità. Ma è quasi sempre mancata la qualità legislativa per far fronte in maniera intelligente alle problematiche di cui sopra. È prevalsa invece la logica del “complichiamo il tutto, così renderemo la vita difficile a corruttori e mafiosi”. Tutto ciò, però, va anche a discapito di imprese e cittadini, che si trovano costretti a sopportare un peso burocratico a volte insostenibile. Ed anche gli investitori stranieri mal sopportano le nostre complicazioni.

Per legare l’argomento ad un episodio recente, si pensi al tema dei subappalti. Nel mese di settembre, vi è stata un’importante pronuncia della Corte di Giustizia europea. La questione giuridica è già stata esaminata da numerosi articoli de Il Sole 24 Ore. In poche parole, il Tar Lombardia aveva chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla legittimità della limitazione al subappalto (quota subappaltabile non superiore al 30% dell’appalto), prevista dalla legge italiana sui contratti pubblici, alla luce del diritto UE. La Corte, confermando anche l’orientamento della Commissione europea, ha ritenuto che tale limitazione sia in contrasto con la direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014.

Molto più importante è il sottinteso politico che fuoriesce dalla motivazione. Come risaputo, le varie limitazioni all’istituto del subappalto, nell’ambito dei contratti pubblici, hanno diverse finalità. Vi sono ragioni di qualità della fornitura, del lavoro o del servizio. Ragioni di legalità, per prevenire eventuali infiltrazioni criminali. Ragioni legate al rispetto delle normative laburistiche, di sicurezza, ambientali. In generale, si vorrebbe che l’operatore economico offerente facesse direttamente quanto dichiarato in offerta. Tutto o almeno il 70%.

Il Governo italiano ha impostato la difesa della misura in un’ottica di contrasto alla criminalità: «(…) la limitazione del ricorso al subappalto di cui trattasi nel procedimento principale è giustificata alla luce delle particolari circostanze presenti in Italia, dove il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi.»

Ma se il problema è innegabile, occorre però capire quale possa essere il modo più efficiente per tentare di arginarlo. Inoltre, non si può ignorare l’effetto di una clausola normativa sulla competitività della maggioranza delle imprese non criminali. Soprattutto occorre considerare che la spinta verso l’aggregazione delle stazioni appaltanti, finalizzata al contenimento della spesa, ha prodotto la pubblicazione di bandi di gara aventi dimensioni enormi. Più grande è l’appalto, maggiore è la necessità di ricorrere all’istituto del subappalto. Ecco perché quel limite del 30% risulta contrario alla normativa europea. Quest’ultima mira a favorire la libertà di impresa e la più ampia partecipazione anche per le piccole e medie imprese nella filiera dell’appalto.

Scrive la Corte infatti che «(…) il diritto italiano già prevede numerose attività interdittive espressamente finalizzate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese».

Secondo il Governo italiano «(…) i controlli di verifica  che l’amministrazione aggiudicatrice deve effettuare in forza del diritto nazionale sarebbero inefficaci». Un’ammissione molto importante, dato che si tratta di controlli molto pervasivi che incidono sicuramente sulla produttività delle imprese.

Quanto sopra rappresenta un modo di procedere abbastanza consolidato. Una zavorra per il Paese. Con il rischio che poi si arrivi spesso a misure destrutturate, nel nome dell’emergenza di turno, prive di una logica di sistema e pericolose dal punto di vista di quella stessa legalità che si voleva garantire in un primo tempo.

Twitter @frabruno88

[1] Cit. da Giovanni Falcone e Marcelle Padovani, “Cose di Cosa Nostra”, Cap. V “Profitti e perdite”, 1991.