Flat tax per le partite Iva, perché ha senso fare marcia indietro

scritto da il 21 Settembre 2019

L’autore di questo post è Dario Stevanato, professore ordinario di diritto tributario, Università di Trieste. Avvocato – 

Notizie di stampa riportano che il nuovo governo starebbe pensando di abolire il regime forfettario agevolato (la cosiddetta flat tax)per gli autonomi, che la legge di bilancio 2019 ha allargato fino al limite dei 65 mila euro dei ricavi, sul cui reddito determinato forfettariamente si applica una aliquota del 15 per cento, con previsione di un ulteriore regime anch’esso agevolativo dai 65 ai 100 mila euro di ricavi, applicabile a partire dal 2020.

Molti ritengono che il continuo cambiamento delle regole fiscali sia deleterio per chiunque intraprenda un’attività economica, che dovrebbe poter contare su un quadro normativo stabile, in modo da pianificare le proprie scelte di investimento in un orizzonte temporale medio-lungo. In materia di tasse, del resto, vale la massima “an old tax is a good tax”, che esprime appunto l’esigenza di non modificare, per quanto possibile, i meccanismi della tassazione e i tipi impositivi, cui contribuenti e Amministrazione finanziaria sono abituati. Ogni cambiamento comporta dei costi, e qui vi è in gioco anche la tutela dell’affidamento che sconsiglia continui cambiamenti nei modelli impositivi. Ciò detto, va però anche rilevato che il regime forfettario, per come delineato dalle modifiche di fine 2018, presenta plurime distorsioni da rendere giustificabile, se non il suo accantonamento, almeno una profonda revisione.

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Tra i tanti punti critici, basti rilevare la distorsione concorrenziale provocata dal mancato assoggettamento ad Iva delle operazioni poste in essere nel regime forfettario, che discrimina, negli scambi al consumo finale, chi non ha i requisiti per accedere al regime. Nell’ambito della categoria dei soggetti potenzialmente rientranti nelle soglie di ricavi, poi, la percentuale forfettaria di abbattimento dei costi avvantaggia le attività ad alto valore aggiunto (come le professioni intellettuali) a scapito di quelle con un’elevata incidenza dei costi (come le attività commerciali o di trasformazione).

Si pensi, ancora, all’enorme salto di aliquota e di regime che si verifica con la fuoriuscita dal forfait per superamento del limite di ricavi, con fortissimo incentivo a restare al di sotto della soglia, rinunciando a un certo punto ad acquisire nuove commesse o incarichi, o prestandoli “in nero”. Oppure ai comportamenti opportunistici legati al fatto che la fuoriuscita dal regime si verifica soltanto nell’anno successivo al superamento della soglia, il che rende conveniente un andamento altalenante, ad anni alterni, dei ricavi, in modo da sfruttare al massimo i vantaggi del particolare regime anche per fatturati molto superiori alla soglia (giacché la fuoriuscita dal regime si verificherà soltanto dall’anno successivo).

Si può inoltre menzionare il rischio di “trasformazione” di attività produttive i cui redditi appartengono ad altre categorie reddituali, al fine di accedere al regime forfettario previsto per imprese e lavoratori autonomi. È il caso dei redditi di lavoro dipendente, ma anche di quelli immobiliari da locazione, che possono essere trasformati da pura locazione passiva in attività di affittacamere esercitata “per professione abituale” con partita Iva.

Certo, il regime forfettario italiano, la cosiddetta flat tax per le partite Iva, si inserisce in una più ampia tendenza, riscontrabile in ambito europeo, ad introdurre una franchigia da Iva per le piccole imprese (deroghe in tal senso sono state concesse dal Consiglio dell’UE a Lussemburgo, Polonia, Estonia, Croazia, Lettonia, Romania, Paesi Bassi). Altri Paesi, come la Francia, prevedono altresì un regime forfettizzato di pagamento ai fini delle imposte sul reddito e dei contributi sociali. Regimi del genere si spiegano con esigenze di semplificazione degli adempimenti per attività di ridotta dimensione, cui si accompagna una finalità più strettamente agevolativa di riduzione del carico fiscale.

Si tratta tuttavia di misure che sarebbe opportuno riguardassero appunto le attività minime e marginali, non solo in termini di volume d’affari ma anche di mezzi produttivi e capitale investito, come in fondo era il vecchio regime dei “minimi”. Il successivo ampliamento a 65 mila euro, e in prospettiva a 100 mila euro, insieme alla caduta degli altri requisiti dimensionali (beni strumentali, spese per collaboratori) e della condizione che non fossero conseguiti redditi di lavoro dipendente o pensione superiori a certi importi, ha di fatto modificato la ragion d’essere dello speciale regime agevolativo, posto che lo stesso non è più circoscritto ai soggetti minimi e marginali, ma riguarda potenzialmente un’elevata percentuale dei soggetti esercenti attività d’impresa e lavoro autonomo, facendo diventare le distorsioni di cui sopra difficilmente tollerabili in un’ottica di equità ed efficienza del sistema.

Se questo è vero, non vi sono ragioni sufficienti per non intervenire ridimensionando la portata del regime forfettario al fine di riportarlo al suo spirito originario, ed eliminando almeno alcune delle distorsioni che lo connotano.

Twitter @d_stevanato