categoria: Vicolo corto
Potere di interdizione e ricatto: quell’idea sbagliata di democrazia
L’autore di questo post scrive sotto lo pseudonimo di Ettore Campari, sociologo e politologo di formazione, con la passione della psicologia e della fisica divulgativa. Svolge la sua attività professionale nel campo della formazione in materie economico-finanziarie –
Che cosa può trattenere un politico, che detiene posizioni di potere, dal divenire corrotto o dall’adottare comportamenti dannosi per la collettività?
La domanda è lecita, poiché la corruzione e il malgoverno sono fenomeni diffusi in tutte le nazioni del mondo e non sono caratteristiche di una sola nazione. Si tratta di fenomeni quasi intrinseci della natura umana. Eppure alcune nazioni riescono a gestire tali fenomeni meglio di altre: come mai? Che cosa le contraddistingue?
L’unica cosa che può frenare la tendenza dei politici ad adottare comportamenti scorretti o corrotti, è la probabilità che se essi esagerano nel perseguire il proprio interesse a scapito di quello collettivo o se lavorano male, al termine del loro mandato a fine legislatura possano non essere più rieletti.
Dice un proverbio ‘scopa nuova ramazza bene’: quando cambia la maggioranza che governa un paese cambia non solo il capo dell’esecutivo e i suoi ministri, ma anche tutto il ‘sottobosco’ governativo, sottosegretari e dopo un po’ anche i vertici della pubblica amministrazione. I nuovi governanti da poco eletti, si sforzano di essere migliori dei loro predecessori e cercano di attuare un buon governo per quanto possibile. Se invece permangono al potere troppo a lungo, vengono meno i freni inibitori che contengono l’arroganza del potere ed iniziano i comportamenti meno virtuosi, tipici di coloro che pensano di potere agire al di fuori della legge a proprio vantaggio.
In altri termini è opinione di chi scrive che l’esistenza di un sistema istituzionale ed elettorale che garantisca l’alternanza al potere, diciamo ogni 4 o 5 anni, sia l’unico freno possibile ad un decadimento dei comportamenti della classe politica.
Attenzione, si badi bene: un sistema che garantisce l’alternanza al potere di diversi partiti di per sé è una condizione “necessaria, ma non sufficiente”. Occorrono poi molti altri ingredienti, quali un buon sistema di istruzione, una economia sana, una buona permeabilità sociale, una buona amministrazione della giustizia, … ecc. Però il buon funzionamento delle istituzioni politiche è un elemento importante e quando esso manca si innescano comportamenti sociali distorsivi, che come un male incurabile possono distruggere lo sviluppo economico, sociale e danneggiare le forze più vitali di una nazione, quasi sempre a scapito delle fasce più deboli: gli anziani e i giovani, i lavoratori a più basso reddito e i malati.
In Italia, purtroppo, tale consapevolezza manca e vige l’idea sbagliata che la democrazia migliore sia quella in cui vi sia una perfetta rappresentanza proporzionale di tutte le istanze sociali e politiche.
Nell’Italia del dopoguerra, appena uscita dal fenomeno devastante del fascismo, viene scelta una forma istituzionale con un parlamento forte, un sistema giudiziario autonomo ed un esecutivo relativamente debole, unitamente ad una legge elettorale proporzionale pura.
Il sistema regge negli anni ‘50 e ‘60 finché un solo partito egemone, la democrazia cristiana, coagula attorno a se percentuali di voti elevate, tali da garantire governi relativamente stabili. Ma già sul finire degli anni ‘60 il sistema entra in crisi e si avvia una stagione politica basata su governi di coalizione, che attraversano gli anni ‘70 e ‘80, fino a giungere all’estremo delle coalizioni “penta-partito” (DC, PSI, PSDI, PRI, PLI).
Non è un caso se negli anni del pentapartito il deficit del bilancio statale passa da circa l’80% del PIL fino a oltre il 120%, per soddisfare gli interessi clientelari di tutti i partiti della coalizione si crea il fardello di una enorme spesa pubblica che a tutt’oggi grava sulle spalle di tutti gli italiani che pagano tasse.
Proprio in quegli anni – ed è un peccato che i più giovani abbiano perso memoria di ciò – l’instabilità dei governi raggiunge il suo massimo: gli esecutivi non riescono a durare più di un un anno e mezzo. L’Italia perde il suo peso a livello europeo e diviene sempre più debole ed ininfluente nelle istituzioni internazionali: come è possibile fidarsi e dare peso a primi ministri che cambiano a rotazione ogni 18 mesi?
Importanti riforme del sistema di istruzione, del sistema pensionistico, la realizzazione di opere infrastrutturali importanti, … ecc. vengono rinviate all’infinito (alcune rimangono irrealizzate ancora ad oggi, come ad esempio la riforma del sistema giudiziario). Nei governi di coalizione, infatti, è quasi impossibile trovare soluzioni di compromesso che accontentino quasi tutti ed i veti incrociati dei diversi componenti delle coalizioni paralizzano l’azione politica.
La produttività dell’Italia comincia così a declinare, passiamo dall’essere protagonisti del c.d. miracolo italiano degli anni ‘60 a divenire fanalino di coda dell’Europa: quando l’economia mondiale cresce noi cresciamo meno degli altri, quando l’economia mondiale è in recessione da noi la decrescita è più pesante che altrove. La burocrazia cresce di dimensioni e, non più soggetta a un controllo politico forte, diviene più inefficiente in diversi comparti. La corruzione dilaga a tutti i livelli, dai capi di partito che gestiscono la cosa pubblica per i loro interessi privati, fino a giù negli strati più bassi della piramide sociale italiana e della pubblica amministrazione.
La cosa più assurda è che pur nell’avvicendarsi frenetico dei governi, le ‘facce al potere’ sono sempre le stesse: uomini inamovibili dalle loro poltrone. Il ristretto manipolo dei politici che contano non cambia mai e spostamenti dell’elettorato significativi, dell’ordine del 5-10 percento, non servono a mutare questo stato di cose. L’esplodere negli anni ‘90 dei processi per corruzione, passati alla storia come le inchieste del pool di Mani pulite, non fanno altro che sollevare il velo e mostrare ai più il miserando stato delle cose raggiunto nel nostro paese.
Ebbene la democrazia non è fare sì che tutti i gruppi politici e sociali organizzati, anche quelli minori, abbiano potere di interdizione e ricatto gli uni verso gli altri. I sistemi elettorali basati su regole del tipo ‘proporzionale puro’ sono purtroppo una sciagura tremenda per una nazione: producono trasformismo politico, comportamenti opportunistici e antisociali devastanti a tutti i livelli.
Quale allora la soluzione? Quale l’idea di democrazia che funzioni in modo migliore e scoraggi comportamenti opportunistici nella classe politica?
La risposta migliore è: una serie di istituzioni democratiche e di regole elettorali che garantiscano l’alternanza al potere.
In Francia, dopo un primo giro di voto col sistema proporzionale, solo i primi due partiti sono ammessi ad un secondo turno di votazione, il c.d. balottaggio. In questa fase basta uno spostamento di elettorato del 2% al secondo turno (ad esempio dal 49% al 51%) per determinare un cambio di guardia al potere. In Italia, invece, spostamenti anche consistenti dell’elettorato, dell’ordine del 5-10% possono non produrre effetto alcuno sugli assetti di potere e nella fauna politica.
Gli scritti del politologo Giovanni Sartori sono illuminanti in questo senso: sono i sistemi istituzionali e le leggi elettorali in altre parole sono le ‘regole del gioco’ politico che fanno la differenza.
Le democrazie che meglio funzionano sono quelle che, in un quadro di divisione dei classici poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, sono dotate di meccanismi elettorali in grado di garantire l’alternanza al potere dei partiti. Questi meccanismi possono essere dati dal sistemi maggioritario, da quello a doppio turno con ballottaggio o da quello a premio di maggioranza. Ciascuno di questi sistemi, con gradi e caratteristiche diverse, implica una composizione parlamentare che non rappresenta esattamente le percentuali di voto dei cittadini. Tuttavia la perdita di rappresentatività è compensata da una maggiore efficienza e responsabilità dei governi in carica.
Tutte le più grandi ed avanzate democrazie occidentali hanno meccanismi istituzionali ed elettorali che garantiscono in maniera più o meno diversa e automatica che colui che vince le elezioni abbia una maggioranza monocolore in parlamento e possa governare stabilmente per una legislatura.
Se il vincitore delle elezioni governa bene durante il proprio mandato elettorale il candidato del partito che ha governato ha una buona possibilità di essere rieletto, altrimenti in caso contrario gli elettori hanno il potere di mandarlo a casa votando per il candidato del partito di opposizione.
Giovanni Sartori riteneva che per una realtà complessa come l’Italia, con tante formazioni politiche, un sistema semipresidenziale ‘alla francese’ con un metodo elettorale a due turni con ballottaggio, fosse la soluzione migliore.
Qualunque sia l’assetto istituzionale e delle regole del gioco elettorale che l’Italia deciderà di darsi il sistema attuale incentrato sul parlamento e sul proporzionale puro semplicemente… non funziona.
Prova ne sia che nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica negli anni ‘90 l’introduzione di una legge elettorale solo parzialmente maggioritaria (75% dei seggi) con una quota residua importante (25%) di seggi attribuiti con il proporzionale non ha prodotto i risultati di stabilità attesi. I governi sono sempre stati sostenuti da coalizioni eterogenee e litigiose e purtroppo… instabili.
I governi sia di sinistra che di destra sono sempre caduti per l’azione e lo ‘sfilarsi’ di una parte della coalizione (governo Prodi che cadde per l’azione di Bertinotti, governo Berlusconi che cadde a causa della Lega di Bossi). La corruzione non è mai stata sconfitta ed alligna ancora largamente nella società italiana; la produttività della nazione è sempre più in declino ed il peso internazionale dell’Italia in Europa e nel mondo non è mai stato così basso.
La recente riforma elettorale in senso proporzionale ci ha riportato nel limbo di un hung parliament un parlamento ‘impiccato’ come dicono gli inglesi cioè un parlamento privo di una maggioranza. È già ripartito il film dei governi di coalizione e della instabilità politica (il governo Lega MS5 è durato solo 18 mesi) con il debito pubblico nuovamente in aumento.
A livello comunale, l’unico ambito in cui è stato introdotto un sistema di votazione a doppio turno con ballottaggio, invece, le cose funzionano decisamente meglio. I sindaci delle grandi città soprattutto godono di maggioranze stabili e possono governare autorevolmente per 5 anni, sviluppando interventi di più lungo respiro.
Da parte della classe politica, cioè dai deputati e senatori eletti in parlamento e dei capi partito, non vi è mai stato un serio tentativo di proporre e portare ad approvazione una revisione della costituzione che portasse ad assetti politici più stabili e meno frammentati: diverse commissioni bicamerali per le riforme istituzionali sono state varate in parlamento nel corso di diverse legislature, ma sono sempre naufragate senza giungere a nulla di concreto.
Per ben due volte vi è stato un serio tentativo di riformare la legge elettorale mediante referendum: il primo nel 1999 con il referendum promosso da Mario Segni per l’abolizione del 25% di quota proporzionale dei seggi in modo da trasformare la legge in un maggioritario puro. Il secondo a fine 2016 con il referendum promosso da Matteo Renzi per l’introduzione di una più ampia riforma istituzionale che prevedeva tra l’altro l’introduzione di una legge elettorale con un sistema a doppio turno e ballottaggio alla francese.
Entrambi i referendum hanno fallito e non hanno conseguito il loro obiettivo di introdurre un sistema di voto che garantisse maggioranze stabili in parlamento: il primo mancò l’obiettivo per un soffio, il secondo fu bocciato dai più, raccogliendo ampie critiche anche da rinomati costituzionalisti.
Alcuni ritengono che essendo la società italiana caratterizzata dalla presenza di numerosi partiti e partitini, un sistema di voto che non sia proporzionale non sia adatto al nostro paese ed alla mentalità italiana. Al contrario è proprio la lunga presenza di un sistema proporzionale ad avere causato l’estrema frammentazione del sistema dei partiti e a favorire comportamenti “trasformistici” da parte dei parlamentari. Un sistema che garantisse l’alternanza al potere nel tempo produrrebbe un numero di partiti più ristretto e una maggiore responsabilizzazione da parte di coloro che gestiscono il potere.
Nelle sabbie mobili dei parlamenti eletti col sistema proporzionale e dei governi di coalizione nessun partito è mai pienamente responsabile delle leggi e dei comportamenti ed è sempre facile addossare la colpa a qualche d’un altro scaricando il barile sui compagni di coalizione. I partiti politici fanno e disfano le loro alleanze in parlamento senza un reale potere di intervento concreto da parte dei cittadini.
Ma questo stato di cose sta affossando il nostro bel Paese.
I ragionamenti sopra esposti non sono riconducibili a una coloritura politica: non sono né di destra, né di sinistra, queste sono considerazioni di buon senso civico che ciascun cittadino dovrebbe fare a prescindere dalle proprie idee politiche.
La democrazia non è un sistema in cui tutti i gruppi sociali organizzati anche quelli più piccoli possano bloccare le decisioni di interesse comune nel momento in cui queste ‘tocchino’ i propri interessi particolari.
Democrazia è un sistema in cui un dato partito rappresentante interessi sociali di un ampio strato di popolazione, possa governare per una legislatura: se lo fa bene, ovvero se garantisce lo sviluppo economico e sociale del paese e della maggioranza della popolazione, verrà confermato alle elezioni successive, altrimenti no, i cittadini mediante il voto daranno il voto ad un altro partito.
Per troppo tempo la paura dell’uomo forte ha paralizzato il nostro Paese. L’Italia non ha bisogno di uomini forti, ma di istituzioni e leggi elettorali che funzionino sì.
Twitter @CampariEttore