categoria: Vicolo corto
Ecco perché tutte le promesse sul lavoro sono infondate (o false)!
Ambiguità e vaghezza sono essenziali ai meccanismi di comprensione tra i parlanti perché, se d’improvviso decidessimo di specificare e, di conseguenza, connotare il contenuto di tutti i nostri discorsi, molto probabilmente finiremmo col non capirci e generare una nuova Babele. Un fiore può essere ‘bello’ e ‘profumato’ e, nell’usare questi attributi, a voce o per iscritto, cerchiamo consenso, partecipazione emotiva e perfino adesione. L’accordo tra emittente e destinatario viene dato per scontato, sebbene, molto di rado, qualcuno abbia il coraggio d’interrogare l’altro su cosa intenda per ‘bello’ e ‘profumato’.
La lingua, dunque, è fata di nessi e, soprattutto, di rimandi simbolici, spesso di figure retoriche che nascondo il vero significato delle cose. Nella pratica, non ci diamo pensiero delle già citate specificazioni, non altrimenti che il nostro cervello le rifiutasse, e galleggiamo tra i significanti. Quando, a un certo punto, aumenta la distanza tra chi parla o scrive e chi ascolta o legge, come nel caso di un rappresentante delle istituzioni o di un candidato che si rivolga agli elettori, il galleggiamento di interpreti e lettori si fa estenuante. Che cosa significano davvero gli enunciati “vogliamo rendere il paese più competitivo”, “dobbiamo migliorare la produttività”, “faremo in modo che l’Italia sia credibile per i mercati”?
Ci vuole una discreta onestà intellettuale per ammettere che la maggior parte di queste enunciazioni, oltre a potere stare ‘comodamente’ sia sulla bocca di un politico di destra si su quella di uno di sinistra, si formano per la ‘forza di separazione’ che posseggono. Essi, in pratica, sono inesplicabili: nessun elettore potrebbe ricostruirne immediatamente la valenza pragmatica: ecco perché ‘forza di separazione’! E non solo… Tanto più i significati si separano dalla realtà e l’azione si allontana dai predicati, quanto più taluni proclami invadono territorio e popolazione e attraversano il tempo. “Non chiedete cosa può fare il vostro paese per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese” disse Kennedy pronunciando il discorso d’insediamento. Nessuno potrebbe mai revocarne in dubbio la bellezza. Difficilmente, però, qualcuno potrebbe trarne un’opera: ne siamo esortati ad agire, ma non sappiamo in quale direzione.
L’economia di un paese, nostro malgrado, non può essere ‘bella’ e ‘profumata’, allo stesso modo in cui non può esserlo la ricerca di un posto di lavoro, tema comune a tutte le generazioni della politica. Il lavoro ha occupato come una specie di pandemia la propaganda trasversale, eppure ogni promessa che lo riguardi è falsa o, per lo meno, infondata. Possiamo cominciare con la famosa promessa fatta da Berlusconi all’epoca del contratto con gli italiani, “un milione e mezzo di posti di lavoro”, proseguire con la “rivoluzione del mercato del lavoro” di Renzi, il quale avrebbe dovuto garantire un altro milione di posti, e concludere con le svariate e imprecisate proposte di Di Maio a proposito delle imprese in difficoltà e dei relativi posti da salvare.
Una prima smentita tuttavia potrebbe giungere da una sorta di dogma della macroeconomia: non può esistere un tasso di disoccupazione nullo. Già questo dovrebbe metterci in stato di allerta, ma è chiaro che non intendiamo né possiamo uscirne in modo comodo e sbrigativo.
La domanda da porsi è la seguente: perché ogni promessa e, addirittura, ogni affermazione vaghe sui posti di lavoro sono prive di fondamento? Il lavoro è una variabile della funzione di produzione, n’è un fattore; il che ci conduce subito a un contrasto netto: se si tratta della variabile di una funzione, allora non può essere introdotto come valore assoluto. La presunta ‘assunzione numerica’ è matematicamente improponibile. Previsioni e calcoli fanno parte della dottrina e della storia, ma evidentemente, l’effetto politico di una dichiarazione di probabilità non sarebbe gratificante per il candidato di turno, ma sarebbe l’unico forma di comunicazione obiettiva.
Y=F(K,L)
K (capitale) ed L (lavoro) sono, per l’appunto, i fattori della produzione. Tra le altre cose, osservando assieme la funzione, ci rendiamo conto che esiste una relazione tra le variabili in questione. In pratica, non possiamo dichiarare l’indipendenza ‘socio-economica’ del fattore lavoro, anche solo per rigore d’osservazione. Dunque, facendo sempre riferimento a quanto abbiamo esposto finora, non si può parlare di lavoro, senza, nello stesso tempo, parlare di produzione, distribuzione del reddito, capitale, cioè attrezzature e utensili necessari all’impresa, investimenti, interesse, che è il costo dell’investimento, e, per lo meno, consumo. Non si dovrebbero di certo trascurare altri elementi quali le imposte o la spesa pubblica, ma qui tentiamo di ridurre l’area di studio per concentrarci sul modello d’analisi.
Qualcuno potrebbe obiettare che tale disamina può essere effettuata su qualsiasi enunciato macroeconomico. Rispondiamo dicendo che le cose non stanno proprio così. Gli enunciati a carattere ideologico-espositivo non sempre richiedono particolare connotazione. Un governo, per esempio, può dichiararsi liberista, mentre un altro può far vanto d’esser protezionista; l’uno è filoeuropeo, l’atro anti-europeo e così via. In questi ultimi casi, non sappiamo quali potrebbero essere le specifiche misure di politica economica, ma ne intuiamo l’orientamento.
Nel caso in specie, in macroeconomia, si dice che il fattore lavoro è concretamente legato alla propria produttività marginale. Lo è, anzitutto, perché la prima vera relazione linguistica di cui dobbiamo occuparci intercorre tra lavoro e impresa; quest’ultima, naturalmente, assume dei lavoratori nel quadro dell’ottimizzazione del profitto: fare la sciatta retorica anti-sistema, che relega in secondo piano il profitto, vuol dire danneggiare anche i lavoratori, dal momento che le aziende che vanno male non sono affatto in grado di assumere dei lavoratori. Se dunque ciò che un’azienda produce, in un determinato tempo e mediante i propri mezzi, ha un valore che supera quello del salario reale, allora possiamo dire che essa raggiunge le condizioni di produttività.
Tuttavia, la diretta proporzionalità che comunemente si stabilisce, cioè quella secondo cui tanto più alto è il numero dei lavoratori, quanto alta è la produttività, non è affatto corretta. Il prodotto marginale del lavoro, infatti, è rappresentato da una funzione descrescente. Secondo la definizione, per prodotto marginale del lavoro s’intende la quantità di prodotto aggiuntivo che un’azienda riesce a ottenere aumentando le unità lavorative, ma mantenendo fisse le unità di capitale. Ebbene? È evidente che la relazione che si stabilisce tra le variabili di questa funzione è di proporzionalità inversa: se aumentiamo le unità lavorative, senza aumentare le unità di capitale, il prodotto marginale diminuisce. In altri termini: il lavoro finisce col non essere più produttivo.
Per semplificare la questione, ci si può porre una domanda diretta: quanti cuochi e aiutocuochi sono necessari all’interno della cucina di un ristorante con dodici fuochi e che abbia una capacità di duecento coperti? Tre, quattro al massimo? Sicuramente, non di più. Se si aggiungono altri lavoratori, il reparto non sarà più in grado di produrre un numero maggiore di pasti. La curva di produzione, in pratica, sarà crescente, nella prima parte; poi si stabilizzerà e, a un certo punto, comincerà a essere discendente, denunciando vera e propria improduttività. Se, diversamente, oltre ad aumentare le unità lavorative, aggiungiamo altri fuochi, ampliando la cucina, allora la curva tornerà a salire e così pure la produttività. A questo punto, non solo non possiamo fare a meno di paragonare l’economia a un gioco senza fine, ma non possiamo neppure permetterci di abbandonare al caso gli strumenti del gioco. Infatti, continuando a discutere di lavoratori, mezzi e prodotti, non possiamo dimenticare almeno di menzionare un’altra funzione:
Qd=D(P,Y)
D è chiaramente la funzione di domanda, da cui dipendono le scelte dell’impresa. La quantità domandata, a propria volta, dipende dal prezzo e dal reddito. Quest’ulteriore approfondimento ci spinge sempre più a giudicare sconsiderata, impertinente e infondata ogni affermazione ‘numerica’ di garanzia a proposito dei posti di lavoro. A ogni modo, se tutte le variabili si sviluppano in equilibrio, l’impresa ottiene un certo valore aggiunto e il paese una certa componente di PIL.
Con una diversa prospettiva, possiamo fare lo stesso ragionamento in materia di capitale, il cui prodotto marginale è espresso pure da una funzione decrescente: per prodotto marginale del capitale s’intende la quantità di prodotto che un’azienda riesce a ottenere aumentando le unità di capitale, ma mantenendo fisse le unità lavorative. Non a caso, N. G. Mankiw e M. P. Taylor (2014) scrivono: “L’impresa domanda ciascun fattore di produzione in misura tale che il prodotto marginale del fattore stesso sia uguale al suo prezzo in termini reali”, mentre “la produzione aggregata si distribuisce tra la remunerazione del capitale e la remunerazione del lavoro, sulla base delle rispettive produttività marginali”
Nel concludere questo contributo, è doveroso ribadire che il linguaggio dell’economia e della finanza deve sempre esplicarsi in forma relazionale e sistemica. La predicazione semplice, secondo cui siamo abituati a dire che “un certo film è bello e avvincente” o “una certa pietanza è buona” non trovano alcuno spazio semantico determinato. Se è vero che ambiguità e vaghezza sono utili ai meccanismi di comprensione tra i parlanti, nello stesso tempo, è altrettanto vero che essi possono rivelarsi molto dannosi per l’economia.
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