categoria: Draghi e gnomi
La Germania è, di nuovo, il malato d’Europa?
In questi giorni c’è stata la sconvolgente notizia che anche la Germania ha qualche problema. Torna a sentirsi in giro la vecchia frase “la Germania è il malato d’Europa”: se lo chiede persino Bloomberg. Se assumiamo che una nazione, la sua economia, la sua società sono un “organismo” complesso, si può affrontare la questione Germania analizzando vari elementi.
Fattori Esogeni
La crisi del 2007: salvataggi da 70 miliardi ne abbiamo
Pur non essendo la nazione epicentro della crisi la Germania ha pagato questa crisi in modo violento e profondo. Il governo si è mosso rapido per salvare molte realtà finanziarie nazionali. Un conto preciso è difficile ma, a spanne, si può stare sui 70 miliardi di euro salvataggi. Una larga parte di questi soldi sono andati per tappare i buchi delle Landesbanken. Cosa sono? Per farla semplice sono banche regionali, assimilabili alle nostre banche di credito cooperativo, espressione di imprese/imprenditori locali (mittelstand, classe media). Con il supporto dello stato locale (l’equivalente delle nostre regioni) o in alcuni casi di quello nazionale, si sono mosse per decenni nell’ombra. L’idea di base era buona: dove le grandi banche (con una forte proiezione nazionale come Deutsche Bank e Commerzbank) agivano da grandi catalizzatori e distributori di debito/credito, le Landesbanken operavano con tassi favorevoli supportando la crescita della spina dorsale della manifattura tedesca. Nel 2013 Reuters mappava la loro potenza finanziaria: con un totale di asset di trilioni di euro, rappresentavano il 12% del totale degli asset finanziari bancari tedeschi.
Per molti decenni sono state viste dai cittadini e, vissute dai dipendenti, come se fossero organi statali. Una sorta di amministrazione cittadina di un piccolo municipio di provincia dove entri alle 9 in ufficio ed esci alle 5. Sino al 2001 non erano mai state percepite come pericolose, anzi. Poi successe il fattaccio: il governo tedesco definì un accordo con Bruxelles (intesa come Unione Europea) per terminare una garanzia sovrana sui bond venduti dalle Landesbanken entro il 2005. Gli effetti ultimi di questo accordo erano devastanti per le piccole banche locali, come spiega bene questa analisi: prima di tutto il rating creditizio delle banche era a rischio.
Di conseguenza le banche stesse che prendevano a prestito (a tassi bassi) soldi dal mercato, per poi prestarli alle Pmi, si trovarono a doversi ristrutturare per creare una loro “personale credibilità” post garanzie statali. In teoria era una opportunità positiva: tu banca di paese smettevi di stare sotto l’ala protettiva di papà governo e facevi vedere che eri credibile, sulla base delle tue azioni e non grazie a papà governo. È come se a un adolescente il padre dicesse “adesso basta paghetta mensile, devi guadagnare da solo con un lavoretto”. Il problema si manifesta quando l’adolescente, invece di andare a tagliare i prati per alcune decine di euro decide di spacciare crack e anfetamine (fai più soldi ma è un tantino illegale)! Vale la pena ricordare che 3 delle banche il cui rating fu ribassato da Fitch di fatto svanirono dalla scena post 2008-9 (WestLB collassata, SachsenLB eLRP assorbite da LBBW).
Nei 4 anni dal 2001 (data di accordo Berlino-Bruxelles) al 2005 (data di attivazione dell’accordo) le Landesbanken ne combinarono di ogni, sparando sul mercato prodotti finanziari come se non ci fosse un domani (per molte di loro, in effetti, un domani non ci fu). Di qui il passo successivo era scontato (tranne che per i cittadini che si erano fidati della buona banca, dove i dipendenti agivano come se fossero paterni ufficiali pubblici del piccolo comune tenerino). L’esito è più o meno conosciuto ma riassumiamolo brevemente. Tra le banche top per buchi nei bilanci da riempire (con i soldi pubblici) molte erano Landesbank. Abbiamo la WestLB con 18 miliardi di euro (più altri asset da liquidare sui 100 miliardi, ma qui è un conteggio più complesso), HSH Nordbank 16 miliardi, con SachsenLB stiamo su 1,5 miliardi, Landesbank Baden-Württemberg (LBBW) 5 miliardi, BayernLB 10 miliardi.
In aggiunta abbiamo l’aiuto del governo tedesco al settore privato: con Hypo Real Estate (HRE) siamo nell’ordine dei 14 miliardi, con Commerzbank (inclusa la Dresdner Bank) dai 3 ai 5 miliardi di euro. Industriekreditbank (IKB) circa 9.6 miliardi. In realtà quest’ultima era una bestia strana: organizzata come una banca privata ma con il 38% posseduto da Kreditanstalt für Wiederaufbau, la Cassa Depositi del governo federale tedesco. E se pensiamo che la crisi delle banche tedesche ce la siamo lasciata alle spalle vale la pena ricordare una delle banche più peculiari della Germania, la Deutsche Bank. Dopo il fallimento delle trattative, che avrebbe visto fondersi Deutsche e Commerzbank, non meno di un mese fa DB ha annunciato che voleva creare una Badbank (insomma lo sgabuzzino brutto e buio dove nascondi il mostro di casa) per spostarci oltre 60 miliardi di asset tossici. In pratica un buco nominale di debiti che la banca ha accumulato/comprato quando faceva la brillante nell’era pre-crisi 2007 (se qualcuno vuole leggersi i dati di bilancio 2018 di DB li trova qui). Vale la pena ricordare che questi 60 miliardi costano al cittadino tedesco che paga le tasse (e magari si turba un poco), 500 milioni di euro all’anno.
Le singole ragioni per questa tragedia sono piuttosto semplici da tracciare: dai famosi CDO & Co sino al credito dei trasporti navali (meglio conosciuto come debito marittimo). E sul tema del debito marittimo c’è da approfondire un attimo perché, con la guerra commerciale (ne parlo sotto) non c’è da stare tranquilli. L’esposizione delle banche tedesche a questo tipo di debito è storica. La base del problema sta nella vendita aggressiva, da parte dei gruppi finanziari, che lo spacciavano per roba buona (un po’ come i sub-prime americani prima della crisi). Quando la crisi del 2007-8 è scoppiata (con un crollo del commercio navale) ovviamente è scoppiato il bubbone.
C’è da dire che sino ad allora il governo tedesco, su questi debiti, faceva spallucce, anzi dava pure supporto alle operazioni di debito/credito. Già nel 2013 un audit della Bafin (l’autorità finanziaria tedesca) mappava il debito navale tra i 19 prestatori tedeschi principali intorno ai 95 miliardi di euro, in maggioranza composti da NPL (non-performing loans, i debiti che a recuperarli, nemmeno se mandi gli uomini brutti con le mazze da baseball). Per correttezza si deve aggiungere che nel 2018 Moody aveva riconosciuto che l’esposizione delle banche tedesche era diminuito, tuttavia restava il fatto che i debiti erano di fatto inesigibili. Come da grafico qui sotto (il Dry baltic index) se hai fatto prestiti (o banca) quando l’indice del costo di affitto navi stava alle stelle veramente ti aspetti di rivedere i tuoi soldi?
Come dire che pre bolla si vendevano case a 600.000 dollari con mutui (subprime ovvio) al 100% basati sul valore (in bolla) della casa… vogliamo vedere quelle case a quanto si erano ribassate post bolla? Se su quel mutuo (o banca) conti di riavere tutto o ripossedere la casa per 600.000 dollari … forse hai problemi seri.
Sul debito navale tedesco si sono lanciati di recente gli Hedge fund, a caccia di ricavi interessanti. Tra le banche tedesche che si sono liberate di parte dei loro debiti, o che sperano di scaricarli, c’è la DZ Banke, la NordLB (LB sta per Landesbank). Se lo stato delle banche tedesche (pubbliche, private, de noantri) lascia qualche perplessità, vediamo l’altro evento esogeno strettamente collegato al primo (almeno sul tema debito marittimo).
Commercio estero ne abbiamo… pure troppo
La Germania ha il più grande surplus commerciale del mondo. Nel 2017 ammontava a 287 miliardi di dollari con circa 1,4 trilioni di dollari di esportazioni e un record di disoccupazione sotto il 4% nel 2018, calato ulteriormente nel 2019 (sul tema statistiche del lavoro tedesco ci arriviamo sotto). La base del successo manufatturiero tedesco (e relative esportazione) sta nelle Pmi (che si facevano prestare i soldi dalle Landesbanken): circa 4 milioni di Pmi che occupano una ampia fetta della forza lavoro tedesca. Il governo ha creato un percorso virtuoso che, tra l’altro, va a compensare (circa…) un mercato di stipendi nazionali non particolarmente brillante. Per molte decadi le aziende e le unioni dei lavoratori hanno collettivamente trattato per avere stipendi bassi. Questo scenario spingeva le aziende tedesche a vendere fuori i loro prodotti, mancando un mercato domestico.
Grazie al supporto del governo tedesco con una serie di benefit, come lo stipendio minimo, i lavoratori tedeschi han scambiato stipendi bassi (e basso potere di acquisto) per questi benefici. Per riassumere in Germania i risparmi sono alti e gli investimenti bassi. In queste condizioni la Germania esporta.
Il problema di essere molto dipendenti dall’export è che quando cambiano i venti del liberismo (o globalismo o turbo-capitalismo, scegliete voi basta che lo sbocconcellate con salsa alla Friedman fresca) le cose si fanno brutte. Si deve ammettere che le politiche commerciali decise da o contro i grandi fratelli (Cina, Russia e USA) non sempre sono legate a semplici ragioni economiche. La posizione di Trump di rilanciare il Made in USA sta complicando la vita alla Cina e, per deriva, alla Germania. Sulla stessa scia abbiamo la questione Cina che, per colpa delle scelte di Trump e per un generale raffreddamento della domanda interna, è meno appetibile per la Germania. La situazione tedesca con un export del genere richiede misure drastiche e il governo si sta posizionando per dare una spinta alla domanda interna con un po’ di sano indebitamento. Una soluzione che sembra più un approccio di emergenza che una strategia strutturata nel tempo.
Prima di passare ai fattori endogeni serve una piccola chicca ibrida, tra esogeni ed endogeni.
Produzione energetica: verde fuori nera dentro
In questi giorni la Greta Thunberg sta in barca a vela diretta in USA. Immagino che spiegherà a Trump quanto sia importante non inquinare. Negli stessi giorni la signora Merkel stava in Islanda. Tra una visita al ghiacciao morto e un caffè si è discusso di come la Germania, entro il 2050, sarà indipendente dai carburanti fossili per generare elettricità. Tutto bello? Più o meno. Sotto potete visualizzare uno spaccato delle soluzioni energetiche usate per produrre elettricità in Germania. Di fianco lo guardo di Greta che ha visto la infografica
Ora al netto della facile ironia, la lignite quando brucia inquina molto più del carbone. E di carbone e lignite i tedeschi vanno ghiotti. Tanto che la più grande escavatrice del mondo, che divora lignite a velocità assurde, si trova in Germania. Vanto della industria tedesca, fatta in Germania per la Germania.
Ora al netto della questione climatica qui entra in ballo quella energetica. La Germania, per mantenersi esportatrice di successo necessita, per i suoi prodotti, di costi aggregati più bassi possibile. Sugli stipendi siamo a posto (vedi sotto), sugli investimenti ne parleremo tra poco, ma certo è che serve un mix di fonti energetiche stabili nel tempo e a basso costo. Allo stato attuale la Germania, con una scarsa propensione agli investimenti innovativi fa prima a bruciare il sano carbone o la sanissima lignite invece che rischiare di avere fonti meno inquinanti nel breve termine. La signora Merkel ha promesso che entro il 2050 (giorno più giorno meno) la Germania sarà verde… arrivarci al 2050.
Fattori endogeni
Stipendi, occupazione e disuguaglianze ne abbiamo?
Abbiamo già menzionato gli stipendi tedeschi che, mediamente, non sono sconvolgenti. Dato che gli stipendi restano bassi le uniche cose che potrebbero spingere i tedeschi a spendere di più potrebbero essere un cambiamento di regime di tasse o un cambiamento della mentalità tedesca. Due fattori che difficilmente potranno aver luogo nel medio lungo termine. “Geiz ist geil: essere braccini è figo” è un motto tedesco. Forse è un caso, ma i due più grandi gruppi di supermarket discount (Lidl e Aldi) sono nati in Germania: la loro strategia è stata semplice, includendo poche scelte di referenze a prezzi competitivi. Il tedesco medio, parsimonioso di suo, è ancor più braccino con stipendio scarso. C’è da dire che persino gli stessi Aldi e Lidl, come riporta l’Economist, han qualche problema in Germania. C’è da aggiungere che l’ottimismo del tedesco medio non è molto elevato di questi tempi. La cosa che dovrebbe preoccupare il governo è che i famosi ammortizzatori hanno alcuni problemi. Lo riporta ancora il Diw (German Institute for Economic Research) che spiega come, per 4 anni, è stato creato uno stipendio minimo. Tuttavia anche i calcoli più ottimistici confermano che circa 1,3 milioni di tedeschi, pur avendone diritto, non han mai visto un euro.
Sul tema stipendio ci siamo chiariti ma c’è qualcosa di più silenzioso che serpeggia in Germania. Le statistiche sull’occupazione (stipendi bassi capita, ma a tempo indeterminato van bene) siamo sicuri che siano giuste? Il mondo delle statistiche è piuttosto semplice (in teoria): se definisci che ogni lavoro (part time, full time, a contratto, a progetto, tempo determinato, stage etc.) viene considerato un lavoro standard ai fini statistici allora puoi dichiarare anche la piena occupazione (o bassa disoccupazione). Siamo sicuri che la grande occupazione tedesca sia stabile? E per stabile intendo stipendio a tempo indeterminato che ti permette di comprar casa, avere una sicurezza per il tuo futuro, figli etc.
Se, e dico se, i lavoretti venissero conteggiati nelle statistiche tedesche come lavoro standard? Sulla discussione statistiche lavorative e soddisfazione ci viene incontro di nuovo un’ottima analisi del DIW di Berlino.
La radice del problema è da rintracciarsi nel lontano 2003 quando vennero varate riforme del lavoro che, di fatto, lasciarono ampio spazio a contratti atipici (come li chiamiamo noi) e agenzie del lavoro. Vi furono dei vantaggi significativi, tra cui un netto miglioramento delle statistiche di occupazione (quelle vantate sempre dal governo tedesco) ma a costo di un violento e continuo impoverimento. La definizione più conosciuta in Germania è quella di working poor: pur lavorando hai contratti atipici, poca sicurezza, mutui per la casa inaccessibili e il governo che se ti va bene ti da qualche sussidio.
Tra i lavoretti non dimentichiamo il part-time. Una formula all’apparenza ottima per conciliare vita personale e lavoro ma, sempre più spesso, appare una forma di sfruttamento contrattuale bello e buono. Anche l’abbondanza di posti di lavoro che la Germania disperatamente cerca di colmare (per cui le proposte anche di Mrs Merkel di importare migranti specializzati) in vero nasconde un piccolo segreto. Se li paghi poco, forse, i professionisti non sono cosi contenti di lavorare per te (quindi giù a importare lavoratori specializzati a prezzo basso).
Con questo scenario non stupisce che sia in forte crescita la disuguaglianza economica tra la popolazione. Da un lato lavoratori molto specializzati e “mini ricchi” (la ricchezza in Germania, salvo eccezioni, è “tramandata” di generazione in generazione, spesso è nascosta) che sono spesso legati alle famose Pmi di cui sopra. Dall’altro lato esiste una forza lavoro flessibile (per essere gentili), fluida e povera, da contrattare quando serve, ma sempre in crisi. In questo senso suggerisco il reportage in 3 episodi di DW (link al 3 episodio). Nemmeno i pensionati si salvano, meglio passare oltre.
Investimenti nazionali: 50 miliardi bastano?
Sulla scia dello scenario sopra descritto la Germania sta valutando uno stimolo effetto elettroshock: 55 miliardi di euro. Basteranno? La risposta logica sarebbe “certamente”. Ma è importante comprendere un poco meglio lo stato dell’innovazione tedesca. Il modello tedesco, composto di molte Pmi, è piuttosto granulare. La missione storica del governo sembra incarnare quella dei suoi cittadini: non spendiamo troppo. Ma se non investi in innovazione (al netto delle scelte infrastrutturali) prima o poi rischi di perdere competitività. Se da un lato si discute della economia 4.0 e come si sostituiranno gli umani con i robot, l’industria tedesca, per non spendere, ha sinora preferito spremere gli stipendi e andare avanti cosi. Quasi ricorda il motto di certi imprenditori del bel paese “abbiamo sempre fatto così…”. Persino al Bruegel, think tank liberista per definizione (grafico sotto), han picchiato giù duro sulla parsimonia del governo tedesco.
Con questa premessa è plausibile che lo stimolo, se avrà luogo, potrebbe essere di ausilio, ma resta importante, per il governo tedesco, comprendere quanto il mondo dei servizi (e la relativa industria) sia una buona parte del futuro: investire solo in manifattura, quando i cinesi possono fare prodotti simili a un costo decisamente minore, potrebbe non essere la soluzione ideale. L’arretratezza tedesca su molti fronti viene ribadita anche dal più moderato Politico, meno di un anno fa, dove in scia di una discussione sul viaggio della signora Merkel in Cina, discute dei progetti digitali teutonici (o della mancanza di essi).
Il mito della Germania motore d’Europa è inossidabile… ma se si scava bene si scopre che è motore pieno di piccoli problemi che, qui e là, basta un ingranaggio un poco arrugginito o una botta e tutto si complica.
Poi intendiamoci: tutti hanno dei problemi, ma ostinarsi a vedere la Germania come il modello da cui ogni economia occidentale dovrebbe prendere lezioni, beh, andiamoci cauti.
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