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Salvataggi di Stato: Alitalia, Carige e il Cerchio della vita
L’autore di questo post è Massimo Famularo, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) –
Le esperienze recenti di Alitalia e Carige offrono un valido spunto per riflettere sull’intervento dello stato nell’Economia e, in particolar modo, nel salvataggio delle imprese in crisi.
Premessa doverosa di qualunque discussione sul tema, è che si tratta di questione essenzialmente politica. L’analisi economica ci consente di misurare i costi e i benefici, di questo tipo di decisioni, e di individuare quali gruppi di individui sosterranno gli uni o riceveranno gli altri, ma la decisione finale su come procedere, dipende dagli interessi e dalle preferenze di chi si trova al governo.
Senza scendere in dettagli troppo tecnici, vorrei argomentare brevemente come l’esperienza italiana non faccia che confermare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che il salvataggio da parte dello stato di imprese private, produce temporanei benefici per un numero molto limitato di soggetti, a fronte di oneri non trascurabili per tutta la popolazione e di effetti negativi di lungo periodo per l’intero sistema economico.
Per spiegare il mio punto prendo in prestito un celebre passaggio del film The Lion King, quello in cui Mufasa spiega al piccolo Simba il funzionamento del cerchio della vita: quando i leoni muoiono i loro corpi diventano erba, che sarà mangiata dalle antilopi, che a loro volta saranno mangiate dai leoni.
La lezione del classico Disney ci offre un formidabile criterio di valutazione per qualsiasi decisione di politica industriale: il riconoscimento della morte delle imprese è un presupposto essenziale per il corretto funzionamento di qualsiasi sistema economico di mercato (mi raccomando quest’ultima specifica).
L’uso della parola morte non è un caso, poiché anche dal punto di vista lessicale, in Italia la parola Fallimento ha un’accezione particolarmente negativa, tanto che è stata definitivamente bandita dall’ultimo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14).
Allora proviamo a dirlo senza mezzi termini: le imprese possono morire, arrivare ad un punto in cui distruggono valore invece di crearne e, anche per tutelare gli eventuali creditori, è salutare ed opportuno, che vengano poste in liquidazione in modo ordinato.
Cosa succede se lo Stato interviene per mantenerle in vita?
Almeno tre cose.
In primo luogo, vengono bruciati soldi dei contribuenti (se volete un esempio cercate la voce Fondo Atlante su Wikipedia) perché come detto in precedenza, le imprese morte distruggono valore invece di crearne.
In secondo luogo, si danneggiano le imprese sane, che subiscono la concorrenza sleale di competitor sovvenzionati dallo Stato, mentre l’intero sistema viene privato delle risorse “congelate” nelle imprese zombie e che per questo motivo non possono rientrare nel cerchio della vita del sistema economico.
In terzo luogo, si diffonde l’aspettativa che lo Stato, che ha salvato un’impresa, possa salvarne altre, dando luogo a quello che in economia si definisce moral hazard: se posso contare sul salvataggio di Stato, mi conviene assumere rischi superiori a quelli che affronterei in sua assenza; se mi va bene i guadagni vanno a me, se va male le perdite le assorbe la collettività.
Dunque dovremmo smetterla di presentare i salvataggi di Stato come l’azione di un buon padre di famiglia, che tutela i suoi figli e guardare attraverso la cortina illusoria della propaganda acchiappa-consenso: lo Stato che salva le imprese è un dottor Frankenstein, che si propone di riportare in vita quello che è morto. Fatevi una domanda e datevi una risposta “che cosa potrebbe andare storto?”.
Le tre principali obiezioni a questo tipo di lettura dell’intervento statale riguardano:
1- la possibilità che l’intervento sia temporaneo: lo Stato rileva le aziende, le risana e poi le rimette sul mercato
2- la tutela dei posti di lavoro (non dei lavoratori) – se lo Stato non intervenisse, quegli impieghi andrebbero perduti
3- il carattere speciale di alcune imprese, come le banche, le utility o altri operatori strategici per il paese
Con riferimento al punto 1, occorrono competenze tecniche molto specifiche, per valutare se e in che misura un’impresa può essere risanata e, in ogni caso, il tentativo di rilancio comporta dei rischi. Per questo motivo, le operazioni di ristrutturazione aziendale vengono tipicamente effettuate da operatori specializzati e finanziate da investitori disponibili a sostenere rischi elevati a fronte di un rendimento commisurato a detti rischi.
Dunque, si può ragionevolmente ritenere che lo Stato intervenga in quei casi in cui gli operatori privati ritengono non possibile o non conveniente operare il rilancio dell’azienda. Se il rilancio non è possibile, allora il governo sta distruggendo risorse dei contribuenti, per rinviare una chiusura che si rivelerà inevitabile. Nel secondo caso, sarebbe opportuno evidenziare i costi dell’operazione e tenere conto del profilo di equità tra i lavoratori: per ogni azienda che lo Stato salva, ce ne sono enne che non ricevono lo stesso trattamento. Ogni volta che un ministro si fa vedere in televisione con qualche decina o centinaia di lavoratori di imprese in crisi, ci sono probabilmente migliaia o decine di migliaia di lavoratori, che perdono il loro impiego, senza ricevere alcuna attenzione, poiché il loro caso era “troppo piccolo” per fare notizia.
Questo ci porta ad esaminare il punto 2. Se ci concentriamo sulla tutela dei lavoratori e non dei posti di lavoro, in primo luogo evitiamo la discriminazione, tra chi lavora in grandi aziende, oggetto delle attenzioni di Stato, e chi lavora in realtà più piccole, che possono chiudere senza che nessuno batta ciglio. Inoltre, evitiamo anche la discriminazione tra le vittime di grandi crisi aziendali e i lavoratori che invece sono oggetto di licenziamenti individuali. La strada che induce meno distorsioni nel sistema economico, passa pertanto dal sostegno temporaneo fornito a chi si trova senza lavoro, nell’incentivo alla riqualificazione individuale, ove necessaria per trovare un nuovo impiego, ma soprattutto nel separare le sorti dei lavoratori da quelle dei datori di lavoro: i primi sono esseri umani che meritano attenzione e supporto, in passaggi delicati della vita professionale, come la transizione da un lavoro all’altro; i secondi sono enti giuridici, che possiamo permetterci di lasciar morire in pace, senza alcun danno per la collettività, anzi con i benefici sinteticamente spiegati nel film The Lion King.
L’ultimo punto riguarda le aziende “speciali”, quelle ad esempio che, per qualche motivo, sono ritenute strategiche per la nazione, oppure che operano in settori nei quali una liquidazione “disordinata” potrebbe generare effetti negativi. Esempio classico del secondo profilo è costituito dalla corsa agli sportelli: il fallimento di una banca, può causare il panico tra i risparmiatori, che correndo a ritirare i propri depositi, possono indurre una crisi di liquidità e portare al dissesto anche gli istituti sani, con un meccanismo illustrato efficacemente da questo passaggio del film Mary Poppins:
Provando a ragionarci un attimo, se un’azienda assolve a una funzione strategica per il Paese, ad esempio per la difesa o per l’intelligence, dovrebbe essere assoggettata ad un controllo stringente da parte dello Stato e non dovrebbe potersi trovare nella condizione di essere salvata, posto che lo Stato dovrebbe ex ante farsi carico della sua sopravvivenza.
Questo vuol dire che la giustificazione dell’intervento di Stato con la rilevanza strategica di un’azienda, come ad esempio nel caso di Alitalia, è semplicemente una foglia di fico per nascondere la volontà politica di interferire nell’economia al fine di acquisire consenso. Non esiste alcun motivo razionale per considerare “strategicamente rilevante” una compagnia aerea e, l’esperienza degli ultimi 25 anni conferma come la nozione di “intervento temporaneo” sia un mero eufemismo.
Che dire delle banche? Che, come noto alla teoria economica almeno dal 1933, anno di fondazione negli Stati Uniti del Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), per evitare il fenomeno della corsa agli sportelli, è sufficiente un sistema di assicurazione dei depositi bancari e un meccanismo di liquidazione ordinata per gli istituti di credito (discorso a parte per gli istituti di rilevanza sistemica come accennato nel mio ultimo post su Unicredit. Quest’ultimo sistema è stato adottato a livello europeo con la BRRD – Bank recovery and resolution directive (2014/59/EU).
Se dunque i depositi sono assicurati ed esistono regole per mettere in liquidazione gli istituti di credito in modo ordinato, perché mai lo Stato dovrebbe intervenire? Probabilmente per finalità analoghe a quelle mascherate dalla difesa delle imprese strategiche di prima.
Riepilogando, il salvataggio di imprese private da parte dello Stato raramente va a buon fine, presenta costi certi (diretti e indiretti) a carico della collettività e produce benefici limitati e temporanei per pochi individui. Tra questi ultimi, rientrano segnatamente i membri dei partiti politici, che hanno deciso l’intervento.
Le politiche di supporto agli individui che perdono il lavoro dovrebbero evitare discriminazioni, basate sulla dimensione dell’impresa o sulla natura della mansione svolta. Inoltre, dette politiche oltre al sostegno economico immediato, dovrebbero aiutare le persone ad ottenere o aggiornare le competenze utili per trovare un nuovo impiego.
Per quanto riguarda i due esempi più recenti, Alitalia non è un’azienda strategica e non esistono rischi che la crisi di Carige generi corse agli sportelli. La decisione politica di intervenire a spese dei contribuenti, per salvare queste due aziende, può avere diverse spiegazioni, ma nessuna di queste coincide con l’interesse del nostro Paese.
Twitter @MassimoFamularo