Alcuni rilievi alle buone intenzioni del professor Tridico

scritto da il 19 Luglio 2019

L’autore di questo post è Massimo Famularo, investment manager esperto in crediti in sofferenza (Npl) –

Secondo un antico adagio, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. In questa categoria è possibile annoverare alcune idee chiave, proposte di recente dal professor Pasquale Tridico, dal marzo 2019 presidente dell’INPS:

1- Lavorare meno, lavorare tutti
2- Introdurre un salario minimo garantito
3- Lanciare un fondo pubblico di previdenza integrativa

Senza addentrarsi in discussioni troppo tecniche, è possibile argomentare in modo semplice perché queste idee che, a prima vista possono apparire attraenti sul piano teorico, avrebbero conseguenze nefaste se applicate in pratica.

Il primo punto è un vecchio cavallo di battaglia della sinistra sindacale e suggerisce che, riducendo l’orario di lavoro, a parità di salario, sia possibile far crescere l’occupazione.

Si tratta di una chiara applicazione di quello che Sandro Brusco ha definito su Noisefromamerika.org, il “Modello Superfisso”, ossia l’idea, sbagliata, che gli operatori razionali non reagiscano alle misure di politica economica che danneggiano i loro interessi.

Ridurre l’orario di lavoro, a parità di salario, vuol dire, in assenza di variazioni nella produttività, aumentare il costo del lavoro per le imprese e attribuire ai lavoratori un aumento del compenso percepito per ogni ora lavorata.

Perché l’occupazione dovrebbe aumentare? Perché le imprese, nell’immaginario dei fautori di questa idea ingannevole, dovrebbero mantenere invariata la quantità “superfissa” di lavoro che impiegano, anche se il lavoro costa di più.

La teoria economica ci dice invece che, se il costo del lavoro aumenta, a parità delle altre condizioni, la domanda di lavoro delle imprese diminuisce. L’evidenza empirica, come ad esempio riportato da Batut, Garnero e Tondini su lavoce.info conferma quanto previsto dalla teoria, analizzando le esperienze di alcuni paesi che hanno adottato la riduzione dell’orario, come la Francia nei primi anni 80 e alla fine degli anni 90.

Perché in sostanza l’idea di lavorare meno, lavorare tutti non funziona? Perché non tiene conto delle reazioni di lavoratori e imprese nei confronti di politiche economiche penalizzanti e dei vincoli dalla produttività e dalle competenze distintive dei lavoratori.

Se lo stato rende il lavoro più costoso per le aziende, queste ultime non accetteranno passivamente le nuove regole, riducendo i propri profitti, ma cercheranno, ove possibile, di migliorare i propri processi produttivi, in modo da ottenere di più dal lavoro che già impiegano, prima di valutare se assumere nuovi dipendenti.

Inoltre i lavoratori non sono tutti indistintamente sostituibili: se un’economia ha bisogno di 100 ingegneri e dispone di 200 archeologi disoccupati, non è possibile compensare i due insiemi.

La tendenza generale alla diminuzione delle ore lavorate, nei paesi avanzati, è di norma associata ad un miglioramento della produttività del lavoro: prima riesco a produrre di più nelle ore in cui lavoro, poi posso decidere se lavorare di meno, le imposizioni degli orari dall’alto, semplicemente non funzionano.

Che dire del salario minimo? Si tratta ovviamente di una questione molto complessa, nell’ambito della quale gioca un ruolo fondamentale il livello al quale detto salario viene fissato. E’ tuttavia sufficiente riflettere su tre aspetti per concludere che non si tratta di una buona idea per l’Italia del 2019.

Il primo aspetto riguarda le sostanziali differenze in termini di potere d’acquisto e di dotazioni infrastrutturali che caratterizzano il nostro paese (sul tema si può vedere ad esempio il paper di Cannari e Iuzzolino, Consumer Price Levels in Northern and Southern Italy, Bank of Italy Occasional Paper No. 49)

Il secondo riguarda le difficoltà di differenziare il livello del salario minimo in base alle diverse tipologie di attività, le diverse competenze dei lavoratori e la differente incidenza del lavoro non regolare.

Il terzo ed ultimo ha a che vedere con l’innovazione tecnologica e gli effetti che può avere sulla produttività e sulle modalità di svolgimento del lavoro (si pensi ad esempio allo smart working).

Qualunque sia il livello al quale viene fissato il salario minimo, dal momento che il nostro paese è molto disomogeneo, è certo che il livello fissato sarà troppo basso per alcune aree del paese e troppo alto per altre. Nelle zone per le quali è troppo alto o si rispetta la legge e non si lavora o si lavora infrangendo la legge.

La tecnologia trasforma continuamente il mondo del lavoro rendendo alcune mansioni obsolete, introducendone di nuove e modificando radicalmente quelle che esistevano già: alle significative difficoltà incontrate per determinare il salario minimo, vanno dunque aggiunte quelle connesse alla necessità di aggiornarlo nel tempo.

La terza e ultima idea riguarda la possibilità di introdurre una forma di previdenza complementare pubblica gestita dall’Inps per provare a colmare il gap di adesioni al provvedimento quota 100 e per sostenere «una maggiore canalizzazione degli investimenti in Italia».

Qui l’idea è che l’INPS sia capace di creare un fondo pensione in grado di competere con le alternative proposte dai gestori privati e che, al contempo, questo fondo destini risorse significative agli investimenti in Italia.

La prima osservazione è che un prodotto di questo tipo, per garantire la necessaria diversificazione e per cogliere le più convenienti opportunità di crescita, deve avere la possibilità destinare una quota rilevante dei propri investimenti in paesi diversi da quello dove risiedono i propri quotisti. Dunque l’idea di investire in Italia, che tra l’altro è un paese che presenta bassa crescita, squilibri macroeconomici rilevanti e instabilità politica, contrasta in parte con la possibilità di essere competitivo rispetto ai gestori privati.

Ma più in generale stiamo parlando di un ente pubblico, che paga le pensioni di oggi in parte con i contributi raccolti, in parte con integrazioni proveniente dallo stato: esattamente quali garanzie offrirebbe di gestire in modo oculato e profittevole i contributi integrativi?

Le idee del professor Tridico possono apparire attraenti ad una valutazione superficiale e costituiscono validi slogan sotto il profilo comunicativo. Tuttavia a un esame più attento si presentano come provvedimenti che, all’atto pratico, avrebbero effetti negativi e in gran parte opposti a quanto ipotizzato da chi li ha posti in essere.

Twitter @MassimoFamularo

 

Riferimenti:

Inps, dove nuove meravigliose idee keynesian-sovraniste prendono forma

La prima relazione dell’Istituto Nazionale della Propaganda Sovranista

Perché si dicono tante sciocchezze nel dibattito economico in Italia