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La sfida cinese agli Usa passa anche dal sistema dei pagamenti
Qualunque sarà l’esito delle tensioni crescenti che ormai attraversano l’intera filigrana dell’economia internazionale una cosa possiamo già osservarla: il silenzioso progredire di contromisure che finiscono col generare ecosistemi alternativi a quelli che finora hanno accompagnato la crescita delle relazioni economiche globali. Accade per i dazi – che infatti generano reazioni quasi immediate. Potrebbe accedere con l’hi tech, dopo il caso Google-Huawei, ma succede ma anche per i circuiti complessi e invisibili come ad esempio i sistemi dei pagamenti.
L’infittirsi delle sanzioni economiche, ad esempio, ha finito col generare parecchie tentazioni centripete dal sistema Swift, ossia l’infrastruttura che sorregge lo scambio di informazioni bancarie a livello internazionale. La Russia qualche tempo fa, proprio in risposta alle sanzioni internazionali, ha costituito un suo sistema di pagamenti che si propone in qualche modo di ovviare alle difficoltà nel gestire le sue transazioni nei circuiti tradizionali. Meno noto ma sicuramente rilevante, è il sistema compensazione e regolazione che la Cina ha messo in piedi dal 2015 e che, nell’ultimo anno, secondo quanto riportano alcune cronache ha conosciuto un progresso rimarchevole nell’ordine dell’80%.
Il sistema, che si chiama Cross-border Interbank Payment System (CIPS), è stato attivato dalla banca centrale cinese nell’ottobre del 2015, quindi assai prima che le tensioni internazionali conducessero al livello di guardia che osserviamo oggi. Ormai questa infrastruttura è diventata una realtà finanziaria robusta che coinvolge centinaia di banche, giapponesi soprattutto, ma anche europee e persino statunitensi.
Il sistema ha processato transazioni per 26 trilioni di yuan nel 2018, poco meno di quattro miliardi di dollari. Che sono una goccia nell’oceano delle transazioni che passano per Swift – fra i 5 e i 6 trilioni di dollari al giorno – ma sono comunque indice di una tendenza che, silenziosamente, si irrobustisce, probabilmente anche in relazione all’infittirsi delle tensioni internazionali.
Questo strumento svolge un ruolo chiaro, anche se ancora embrionale, nel grande gioco, che in fondo è squisitamente politico, teso a replicare nel mondo valutario quel multipolarismo politico che molti dicono di voler realizzare. Un mondo che già esiste nei fatti, visto che, secondo i dati Bce elaborati su quelli Swift, le transazioni in dollari globali sono meno del 40% del totale, con l’euro ormai assai vicino per quota complessiva.
Al sistema cinese al momento partecipano, direttamente o indirettamente, 868 banche, fra le quali alcune soggette a sanzioni. Ad esempio la Credit bank of Moscow si è “iscritta” fra i partecipanti indiretti al CIPS nel dicembre scorso, accrescendo il numero totale delle banche russe inserite nel sistema. Considerando il flusso rilevante di scambi commerciali fra Russia e Cina, questo è un fatto che non dovrebbe passare inosservato. Finora nessuna banca iraniana vi partecipa, mentre ce ne sono una decina che vengono dalla Turchia.
L’utilità di questo sistema si può arguire osservando come la quota di transazioni in yuan delle importazioni del settore privato russo sia arrivata al 15%, nel 2017, a fronte del 9% nel 2014. Questo mentre alcuni stimano che la banca centrale russa tenga in yuan ormai quasi il 15% delle sue riserve valutarie, a fronte di un calo di quelle in dollari, che sarebbero passati dal 46 al 23%. Fra i partecipanti si segnalano molte banche africane, il che è del tutto logico, solo che si ricordi la profonda opera di internazionalizzazione del capitale cinese in Africa.
È interessante osservare che la Cina ha adottato l’inglese come lingua funzionale del suo sistema di pagamenti. La lingua inglese, almeno quella, è open source e non è a rischio dazi. Che lo yuan si internazionalizzi in inglese, semmai, è lo squisito paradosso del nostro tempo.
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