categoria: Vicolo corto
Lavoro nel Mezzogiorno, così il salario minimo può essere fumo negli occhi
Ultimamente si dibatte molto sull’opportunità di introdurre un salario minimo nazionale. Appare pertanto utile interrogarsi su alcune dinamiche distorsive del nostro mercato del lavoro, che affliggono in particolare il Mezzogiorno.
In un recente paper, Tito Boeri, Andrea Ichino, Enrico Moretti e Johanna Posch tornano su un argomento già trattato e diffuso in passato. Gli autori criticano il sistema italiano basato sulla contrattazione collettiva nazionale e lo mettono a confronto con il sistema tedesco.
Entrambi i sistemi muovono da un modello basato sulla contrattazione collettiva ed hanno in comune delle disparità regionali (Italia Nord-Sud e Germania Ovest-Est). In particolare, entrambi i Paesi presentano un’ampia dispersione di produttività. Tra un lavoratore di Milano ed un omologo di Cosenza vi è il 71% di differenza in termini di valore aggiunto, così come nel caso di un analogo caso tedesco (Monaco di Baviera e North Thuringen) la differenza è dell’83%.
Ma la Germania ha introdotto forme di flessibilità salariale, che hanno consentito un allineamento più efficiente tra salari e produttività. Secondo gli autori, la differenza salariale media tra Nord e Sud sarebbe pari al 4,2%, mentre tra la Germania Est e Ovest sarebbe del 28,2%.
Tutto ciò, secondo gli autori, implica una serie di conseguenze. In primo luogo, laddove la produttività è bassa, la disoccupazione è alta, perché le imprese devono pagare una retribuzione maggiore rispetto a quella che pagherebbero in caso di flessibilità salariale. In secondo luogo, laddove la produttività è bassa e vi è possibilità di emigrazione, il prezzo delle case è minore. In ultimo, i salari reali sono maggiori nelle zone a bassa produttività, che però hanno il problema della disoccupazione.
Ma cosa succederebbe se i salari nominali potessero allinearsi alla produttività? Secondo gli autori, i salari delle province meridionali diminuirebbero del 5,9%, ma l’occupazione crescerebbe del 12,85%. L’incremento occupazionale a livello nazionale sarebbe del 5,77%.
Come abbastanza intuitivo, chi ha un lavoro regolare nelle Regioni del Sud, sia nel settore pubblico sia nel privato, vive abbastanza bene. Chi è invece fuori dal mercato del lavoro regolare, spesso non ha concrete alternative all’emigrazione.
La soluzione della flessibilità salariale però, non è esente da critiche. Inizialmente infatti, si potrebbe assistere a fenomeni di svalutazione salariale in molte aree del Paese. Ciò potrebbe comportare, soprattutto nel Mezzogiorno, una maggiore attrattività del settore pubblico (già elevatissima), a meno che la flessibilità non si applichi anche a quest’ultimo (politicamente molto improbabile). La tesi degli autori -già esposta prima della pubblicazione dell’ultimo paper- era stata criticata su Il Sole 24 Ore dal successore di Tito Boeri all’INPS, Pasquale Tridico, così come da un approfondimento sul portale Open Calabria.
In un recente paper della Banca d’Italia, Ciani e Torrini introducono nuovi spunti interessanti alla discussione. Gli autori affrontano il tema delle diseguaglianze. In primo luogo, evidenziano che le diseguaglianze nel Mezzogiorno incidono profondamente sugli indici nazionali. Sia per i divari Nord-Sud, sia per le diseguaglianze interne al Mezzogiorno stesso. Quest’ultimo aspetto è sempre un po’ trascurato da chi identifica il Sud come un’area del tutto omogenea. Indagando sulle componenti che incidono sulle diseguaglianze, i risultati ottenuti dagli autori dimostrerebbero che se il Sud raggiungesse i livelli occupazionali del Centro-Nord, la diseguaglianza totale italiana calerebbe del 12%.
Per tale ragione gli autori avvertono sul rischio di voler combattere le diseguaglianze con mere politiche redistributive. Nessun veto su quest’ultime, ma occorre stare attenti, perché se disegnate male possono disincentivare l’occupazione. (Ne scrivevo su questi pixel)
La vera questione, infine, resta sempre la medesima: come aumentare l’occupazione nel Mezzogiorno. Gli autori evidenziano come la bassa produttività sia un problema per la domanda di lavoro. Se aumentare la produttività è un fine che incontra la quasi unanimità dei consensi, divergono le opinioni relative ai mezzi per raggiungerlo. L’intervento straordinario della Prima Repubblica e la politica di coesione europea non sono stati sufficienti. C’è chi ritiene che si dovrebbero intensificare gli investimenti pubblici. Questo è senz’altro vero con riferimento all’istruzione, alle infrastrutture materiali ed immateriali, alla lotta per la legalità.
Dato che tutto ciò richiede tempo per condurre a risultati, gli autori menzionano anche il lavoro di Boeri et al sopra richiamato, criticando anch’essi il sistema centralizzato dei contratti collettivi. Gli stessi autori, simulando una riduzione della retribuzione netta oraria nel Mezzogiorno pari al 20% (ben oltre le stime di Boeri et al), ottengono nei risultati ancora una riduzione delle diseguaglianze nazionali pari a circa il 10%, grazie allo stimato aumento occupazionale.
Per concludere, cerchiamo di tirare un po’ le fila. Proviamo per punti:
1- La bassa occupazione rende le regioni del Sud tra le aree più povere dell’Unione europea. Se non aumenta l’occupazione, le politiche redistributive non faranno altro che aumentare le logiche assistenzialistiche.
2- L’aumento della produttività nel Mezzogiorno deve essere un obiettivo irrinunciabile ed in questo giocano un ruolo fondamentale gli investimenti pubblici.
3- L’allineamento tra salari e produttività è auspicabile. Evita fenomeni distorsivi, riduce gli incentivi al lavoro irregolare e dovrebbe favorire l’occupazione. Tuttavia, non si deve mirare a strumenti inutili e dannosi come le famigerate “gabbie salariali”, bensì favorire la contrattazione decentrata.
4- Qualora il punto 3 dovesse causare un’eccessiva deflazione salariale, si potrebbe porre rimedio con un salario minimo nazionale. Partire da quest’ultimo invece, senza un ragionamento riformatore di fondo, rappresenterebbe il solito fumo negli occhi.
Nascondere la testa sotto la sabbia non serve a nulla. Ciò non significa ignorare le implicazione sociali di eventuali modifiche al modello di contrattazione collettiva vigente.
Tutti vorremmo che si verificasse a stretto giro un aumento di produttività del 20% nelle Regioni del Sud. In tal modo si avrebbe un allineamento molto più benefico. Ma cosa si sta facendo al riguardo?
Twitter @frabruno88