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Perché la nuova Via della Seta è un strada lastricata di trappole
Ha destato grande dibattito, in Italia e all’estero, il controverso Memorandum of Understanding (MoU) tra Italia e Cina, mediante il quale la Cina ha coinvolto nella Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI) per la prima volta un Paese del G7. Un successo diplomatico per il gigante asiatico che rappresenta inoltre una conferma dell’acquisizione di uno status di potenza economica globale. Con l’adesione dell’Italia – che ha firmato accordi commerciali per un valore di circa 7 miliardi di Euro – sono già quindici gli stati europei che hanno siglato il MoU, i quali si aggiungono a decine di altri Paesi extra-UE.
L’iniziativa cinese, lanciata nel 2013, si inquadra in un disegno di espansionismo geopolitico nemmeno più nascosto che, attraverso una serie di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, mira ad incrementare l’influenza commerciale e politica della Cina sul resto del mondo, in una sorta di riedizione in chiave cinese del Piano Marshall del secolo scorso.
Il progetto prevede lo sviluppo di sei corridoi logistici che collegheranno la Cina, rispettivamente, a Russia e Mongolia, all’Indocina, al Bangladesh e all’India, al Pakistan, all’Asia Centrale e al Medio Oriente incluso il Corno d’Africa, nonché all’Europa continentale. Sono previsti consistenti investimenti promossi in via principale dalla Banca Industriale e Commerciale della Cina (Industrial and Commercial Bank of China, ICBC) e dalla Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (Asian Infrastructure Investment Bank, AIIB) organismo internazionale fondato a Pechino con l’obiettivo di contrapporsi alla Banca Mondiale e al Fondo Monetario Internazionale in chiave antiamericana, a cui partecipano anche Italia, Germania, Francia e Regno Unito ma non, naturalmente, gli Stati Uniti. Nella logistica, un ruolo strategico lo gioca la compagnia nazionale COSCO (China Ocean Shipping Company) che in Europa è già entrata nella gestione di porti in Grecia, Spagna, Belgio e Italia, nel porto di Vado Ligure, con l’ottica di allargare i propri interessi anche al porto di Trieste.
Il flusso di investimenti derivante dalla partecipazione all’iniziativa cinese può tradursi in un’occasione vantaggiosa in termini di maggiore occupazione, crescita, innovazione tecnologica e infrastrutturale, così come i finanziamenti, incluse le acquisizioni di quote del debito pubblico dei Paesi partner, possono alleviare le esigenze dei governi aderenti. Tuttavia, è bene andare al di là di queste considerazioni e investigare le zone d’ombra che lastricano di ostacoli la nuova Via della Seta, a partire dalla scarsa reciprocità nell’accesso ai mercati, nell’affidamento degli appalti pubblici, per non parlare dell’inadeguato sistema di protezione dei diritti industriali per le imprese straniere che investono in Cina, delle discriminazioni tra imprese domestiche e straniere, sulla poca trasparenza e predittività del sistema burocratico cinese.
Questioni che se non adeguatamente affrontate rischiano di minare l’efficacia bilaterale dell’accordo a tutto vantaggio della Cina. L’intesa, inoltre, non presenta alcuna concreta garanzia circa la cessazione delle pratiche commerciali aggressive portate avanti dalla Cina fin dal suo ingresso nell’Organizzazione mondiale del commercio e che le hanno permesso di conseguire cospicue fette di mercato internazionale a scapito di interi settori industriali e manifatturieri di economie avanzate, inclusa quella italiana.
In aggiunta, come dimostrano i casi di Pakistan, Sri Lanka, Mongolia e gli episodi registrati in alcuni Paesi dell’Europa dell’Est, esiste il rischio che i finanziamenti derivanti da tali accordi vincolino i Paesi partner alle banche e alle imprese cinesi, restringendo se non annullando la concorrenza e inducendo di fatto una dipendenza economico-finanziaria dalla Cina lontana dai propositi di sviluppo bilaterale bilanciato e paritario.
Pericolo che potrebbe manifestarsi in un Paese come il nostro bisognoso di investimenti infrastrutturali e nel contempo altamente indebitato, ovvero indebolito, e proprio per queste ragioni partner ideale per le ambizioni cinesi. Sarebbe stato quindi più prudente per l’Italia muoversi in maniera coordinata a livello europeo piuttosto che prestarsi a negoziati bilaterali con la potenza cinese.
Detto questo, sono ammissibili fino a un certo punto le critiche provenute da Germania e Francia che, nei rapporti con la Cina, non esitano a perseguire politiche mirate al tornaconto nazionale a prescindere dalla tanto conclamata visione insiemistica europea. Sul punto, basti pensare all’accordo che nel 2014 la Germania ha siglato con la Cina e che ha permesso alla città di Duisburg di diventare il primo Hub commerciale cinese in Europa, in termini sostanzialmente non molto diversi da quelli che la Cina vorrebbe applicare nei suoi rapporti con l’Italia. Mentre la Francia, ventiquattro ore dopo la firma del MoU tra Italia e Cina, ha chiuso accordi commerciali con la Cina per circa 40 miliardi di Euro, di cui gran parte relativa a una commessa di aerei del gruppo Airbus per le compagnie cinesi.
Tra i maggiori critici di questa intesa figurano poi gli Stati Uniti, alleato storico dell’Italia e principale Paese da cui provengono flussi di investimenti diretti nel nostro Paese. In particolare, gli USA hanno sollevato il problema della sicurezza e della condivisione di dati sensibili con l’Italia in ambito Nato, qualora il nostro Paese approfondisse la collaborazione con la Cina in settori strategici come le telecomunicazioni. Problematiche che appaiono senz’altro fondate.
Tuttavia, è necessario sottolineare come negli ultimi anni la politica isolazionista statunitense, acuita dalla gestione Trump ma per taluni aspetti inaugurata già sotto l’amministrazione Obama, abbia favorito l’ascesa cinese. Da questo punto di vista, nell’ottica italiana, non può ad esempio passare inosservato il progressivo disimpegno statunitense dall’area libica, che ha privato il nostro Paese del suo più importante alleato nel Consiglio di Sicurezza ONU, esponendolo a pesanti e ancora attuali ricadute politiche, economiche e di sicurezza che risalgono alla caduta del regime di Gheddafi. Disimpegno che in politica estera non può restare senza conseguenze, nemmeno per una potenza come gli Stati Uniti, e che rende l’Italia ancora più attraente per l’antagonista Cina.
Cina che è la vera vincitrice di questa partita, la quale fa eco a una serie di successi politici registrati nel recente passato. Sul versante europeo, infatti, da alcuni anni ha stretto alleanze economiche con i Paesi dell’ex blocco sovietico, tra cui undici stati membri UE, con l’obiettivo primario di favorire le relazioni commerciali e quello non dichiarato di influenzare le dinamiche politiche interne all’Unione, replicando le strategie di cooperazione perseguite in Africa, Asia, America Latina e Medio Oriente.
Inoltre, l’intesa con il nostro Paese contribuisce a creare una frattura politica tra l’Italia e i suoi più importanti alleati, aldiquà e aldilà dell’Atlantico, minando la fiducia reciproca tra stati membri in sede UE e tra alleati in sede Nato, dando uno smacco al rivale statunitense nei suoi rapporti diplomatici privilegiati con l’Italia, nonché – è bene ricordarlo – isolando il nostro Paese nel G7. Cina che peraltro in questa fase storica sembra addirittura avvantaggiarsi del suo sistema autoritario, permettendosi una coerenza politico-economica e una programmazione di lungo periodo sconosciuta alla maggior parte dei governi occidentali, vincolati a obiettivi di breve periodo e alla ricerca del consenso democratico per il mantenimento del potere. Concetto sconosciuto a una Cina in tumultuoso sviluppo ma pur sempre illiberale, con cui sarebbe bene negoziare da posizioni unitarie e non in ordine sparso.
Twitter @andreafesta_af
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