categoria: Res Publica
17 marzo: l’unità nazionale ai tempi dell’autonomia differenziata
L’Italia compie centocinquantotto anni, decorrenti da quel 17 marzo 1861 in cui il Parlamento nel neonato Stato si riunì per la prima volta. Un compleanno sempre controverso, tant’è che viene festeggiato -seriamente- solo ogni cinquant’anni.
Nel corso della sua storia, ci sono stati dei momenti in cui l’unità è sembrata vacillare, senza mai traboccare. Dal 22 ottobre 2017, secondo alcuni, l’ultima minaccia all’unità deriverebbe dall’attuazione dell’autonomia differenziata, ai sensi dell’articolo 116, comma 3, della Costituzione (“Terzo Comma”).
In quella data, si sono tenuti i due referendum consultivi per avviare l’iter in Lombardia e Veneto. Da allora ha avuto inizio una trattativa tra le due Regioni (a cui si è aggiunta, senza referendum, l’Emilia-Romagna) e il Governo Gentiloni, che ha portato alla firma di tre accordi preliminari. Con l’avvio del Governo Conte, l’autonomia è tornata alla ribalta, seppur saltuariamente, essendo prevista nel contratto stipulato dalle forze di maggioranza. Ma continua ad essere un argomento trattato in maniera strana, sia dalle forze politiche sia dai media.
Il tema sembra essersi nuovamente assopito, dopo un rush nei primi due mesi dell’anno. Difficile che si addivenga a passi concreti prima delle prossime elezioni europee. Al momento, le trattative si sono arenate. Sono circolate bozze di intese, ma sembrano ancora molti i punti di attrito.
L’autonomia differenziata non è, di per sé, una minaccia all’unità. Può rappresentare un momento di progresso istituzionale, di avvicinamento delle istituzioni al territorio, di incremento dell’accountability dei politici locali. Ma ciò non esime dal dover evidenziare dei limiti e dei problemi del modo in cui si sta procedendo. Problemi di almeno due tipi.
- Metodo
Il Terzo Comma prevede che la concessione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia possa essere decisa dal Parlamento. La legge deve essere approvata a maggioranza assoluta, sulla base di un’intesa raggiunta tra lo Stato e la Regione interessata. Muovendo da questa base costituzionale, gli accordi preliminari del 28 febbraio 2018 hanno ideato un percorso che prevede la stipula di intese nella forma di cui all’articolo 8, comma 3, della Costituzione (dedicato alle intese Stato-confessioni religiose). Ciò significa che, una volta raggiunta l’intesa tra il Governo e la Regione, il Parlamento potrà solo approvare o non approvare, mentre non potrà apporre modifiche. Da notare altresì che -in caso di approvazione- l’intesa non potrà essere abrogata o modificata senza il consenso della Regione interessata.
Tale percorso riceve molte critiche. In primo luogo, si teme che una maggioranza politica possa imporre un nuovo assetto istituzionale senza passare dal normale iter legislativo. In secondo luogo, il nuovo assetto diverrebbe sostanzialmente intoccabile per tutta la durata dell’intesa (dieci anni, secondo gli accordi preliminari). Cosa si potrebbe fare per attenuare questo rischio? Probabilmente si dovrebbe prima procedere con una legge di attuazione del Terzo Comma. La stessa potrebbe fissare i principi ed i paletti che il Governo e le Regioni sarebbero tenuti a rispettare per poter stipulare l’intesa. In tal modo, si fornirebbe una cornice legislativa ad un inter che si sta praticamente “inventando” passo dopo passo.
Il limite di una tale soluzione risiederebbe nell’allungamento dei tempi. Ma sulle cattive riforme istituzionali dettate dalla fretta, l’Italia ha già dato abbastanza.
- Contenuto
Il Terzo Comma prevede la possibilità di assegnare alle Regioni le materie a cosiddetta legislazione concorrente previste dal terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione, nonché le materie relative ai giudici di pace, alle norme generali sull’istruzione, alla tutela dell’ambiente, all’ecosistema ed ai beni culturali.
L’approccio delle Regioni richiedenti, soprattutto nel caso del Veneto, appare prodromico ad ottenere tutte le competenze di cui sopra. È un approccio difficilmente condivisibile, perché si dovrebbe invece procedere cercando di capire quali materie possano essere gestite con maggiore efficienza a livello regionale e quali sia meglio che restino a livello statale. E si potrebbe provare, contemporaneamente, a superare lo stesso concetto di legislazione concorrente. (come previsto dalla riforma costituzionale bocciata dal celebre referendum del 4 dicembre 2016)
Ci sono infatti economie di scala da preservare, interessi nazionali, tutela degli investitori stranieri. Si dovrebbe argomentare, con i numeri, perché una competenza potrebbe essere meglio gestita a livello regionale piuttosto che centrale. Le Regioni, dalla loro istituzione, non hanno di certo brillato in materia di efficienza e di parsimonia nella gestione del denaro pubblico.
Il secondo punto, a livello di contenuto, riguarda il capitolo risorse. Il Terzo Comma non menziona l’argomento, ma lo fa la legge n. 42 del 2009. Secondo gli accordi preliminari, l’assegnazione delle competenze dovrebbe essere accompagnata da «(…) compartecipazione o riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale (…)».
È il principale motivo di scontro, ma ve ne è un altro, più sottile. Gli accordi prevedono che i fabbisogni standard dovranno superare il criterio di ripartizione basato sulla spesa storica. Si tratta di qualcosa che leggiamo da decenni, già parzialmente in vigore in attuazione della legge sul federalismo. Ma negli accordi è previsto che oltre alla popolazione, si terrà conto anche del gettito maturato dal territorio. Se si desse a ciò l’interpretazione fornita dai critici, significherebbe che i fabbisogni sarebbero diversi all’interno del territorio italiano. Sarebbero più alti al crescere del gettito fiscale. Appare un criterio alquanto bizzarro.
Anche in tal caso, piuttosto che lasciare il tema ad una commissione paritetica, appare opportuno pensare ad una legge di attuazione del Terzo Comma. In tal modo si potrebbe coordinare il Terzo Comma con l’articolo 119 della Costituzione e salvaguardare i livelli essenziali delle prestazioni da garantire in tutta la nazione.
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Non tutte le Regioni hanno il medesimo livello di performance, come noto. A seconda del taglio accademico, tale situazione può essere attribuita a diversi fattori. La storia, la geografia, l’inclusività delle istituzioni. L’Italia, sin dalla sua unificazione, ha dovuto affrontare crescenti disparità regionali, tutt’ora ampie.
Alcuni sostengono che l’implementazione dell’autonomia differenziata accrescerebbe i divari. Altri sostengono che li ridurrebbe. Credo si sbaglino entrambi. Disegnare un efficiente assetto istituzionale e garantire un’equa ripartizione delle risorse all’interno della Repubblica, può rappresentare una precondizione dello sviluppo, sicuramente di per sé non sufficiente. Di certo l’agire sui saldi, diminuendo la spesa pubblica al Sud per aumentarla al Nord, non potrà essere un fattore di sviluppo per il Paese. Nemmeno per le Regioni più ricche, così come l’assetto attuale non lo è per le Regioni più povere.
Negli ultimi trent’anni tutti i tentativi di riforma dell’assetto istituzionale italiano sono stati fuorviati da un vizio politico di fondo. Sono state infatti pensate con una logica risarcitoria di asserite ingiustizie territoriali. Ciò rappresenta un errore, che esacerba le tensioni e, alla fine, impedisce di realizzare riforme condivise. Tesi risarcitoria sostenuta, tra l’altro, dalle opposte fazioni territoriali.
Per essere più precisi, è una tesi in auge da centocinquantotto anni, nonostante sia priva di reale fondamento complessivo. Se l’autonomia differenziata continuerà ad essere prigioniera di questa logica risarcitoria, rischierà di produrre un nulla di fatto o un risultato ampiamente insoddisfacente.
Twitter @frabruno88