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Quanti problemi, ancora, per le banche. È giusto che gli italiani le temano?
Esattamente un anno fa, il titolo di UniCredit si attestava intorno ai 17 euro; oggi, supera di poco gli 11 euro, ma il muro ribassista dei 10 euro è stato abbattuto in più circostanze. In sostanza, l’istituto di Piazza Gae Aulenti ha ceduto più del 35% al mercato. Non è andata molto meglio per Intesa Sanpaolo, il cui titolo è passato da circa 3 euro a più o meno 2 euro, facendo registrare – anch’esso – una perdita di oltre 35 punti percentuali. Con Mps, invece, arriviamo addirittura a un calo di valore del 60%. E non si può fare un discorso diverso per Bpm, che ha lasciato sul terreno degli scambi il 40%, o per Credem e Bper, anche se quest’ultime sono riuscite a contenere il passivo, fermandosi, rispettivamente, al 29% e al 28%.
Nel frattempo, si legge dappertutto, dati statistici alla mano, che la gente non ha più fiducia nel sistema di credito. Le banche sarebbero percepite come entità oscure di cui si è costretti a servirsi, ma di cui si farebbe volentieri a meno. In un sondaggio effettuato da Demos per Repubblica nel 2015, solo il 16% degli italiani si dichiarava ancora disponibile a credere nelle banche e nella loro funzione. Il trend, anche in questo caso, s’è mosso al ribasso. Nel raccontarlo, in genere, si tende a manifestare una certa freddezza analitica, ma si dimentica che la banca ha una funzione primaria e inderogabile nell’economia, giacché mette in relazione, attraverso raccolta e impiego, coloro che hanno bisogno di denaro con coloro che lo depositano; di conseguenza, essa è la principale unità sistemico-relazionale dell’economia reale. Se il rapporto tra le parti si interrompe e, soprattutto, se ciò accade in malo modo, non è più possibile aspettarsi una crescita del ceto medio, cioè di quella parte di società che, oltre a riporre nel debito e nell’ammortamento le proprie speranze di benessere, costituisce la maggioranza del paese (… sul rapporto tra banche e imprese qui su Econopoly s’è espresso Beniamino Piccone).
La tensione è nata proprio in seguito alla cosiddetta stretta del credito e ai casi del funesto 2008 e s’è acuita a causa delle frodi a grande riscontro mediatico. Di fatto, sulla base degli studi della Banca d’Italia, non possiamo esimerci dal documentare che, nel 2018, le banche hanno erogato 44 miliardi di prestiti in meno alle imprese, riducendo di oltre 200 miliardi in sette anni il totale delle erogazioni. L’imbarazzante incertezza politica e l’aumento dello spread degli ultimi mesi hanno indebolito ulteriormente sia l’asset in questione sia la visione che il cittadino ne ha. L’aumento di rendimento dei titoli di Stato, infatti, titoli che le nostre banche possiedono in abbondanza (più di 370 miliardi di euro), determina una riduzione del coefficiente patrimoniale, ovverosia del rapporto tra il capitale e le attività ponderate per il rischio.
Anche se l’amministratore della piccola impresa, molto di frequente, nell’accingersi, per esempio, a chiedere un chirografario o un anticipo fatture, non si cura di certe sovrastrutture politico-finanziarie, finendo quindi col non fare collegamenti immediati, egli è altrettanto spesso costretto a subirne le conseguenze. Lo stesso anticipo fatture, cui abbiamo fatto un semplice cenno, altro non è che un finanziamento a breve termine che avviene attraverso la cessione di crediti da parte dell’impresa. Ne consegue, comunque, che la riduzione dei requisiti di capitale e un rating d’impresa inadeguato generano una patologica congestione del mercato del denaro.
Questi 44 miliardi in meno, a dire il vero, hanno un significato molto più profondo di quello che, a prima vista, tutti noi riusciamo a intuire e definire. In altre parole, da un nutrito e anomalo decennio, s’è prodotta una spaccatura insanabile nel mondo delle imprese, una spaccatura che ha creato forme di eremitaggio imprenditoriale, esperienze di resistenza, fughe finanziarie e, soprattutto, incolmabili distanze tra le parti. In buona sostanza, tanto meno generosa s’è fatta la tradizionale fonte creditizia, quanto più avventurose e, a tratti, temerarie sono diventate le big company e, più in generale, le aziende che se lo potevano permettere, rivolgendosi a un mercato del credito parallelo, quello obbligazionario, e gonfiandolo a dismisura (… interessante, a tal proposito, l’analisi di Corrado Griffa in materia di shadow banking). La stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese, tuttavia, com’è risaputo e naturale, non può accedere a questo segmento e finisce coll’essere soggiogata dal sistema.
Il paradosso sistemico è sorto – inaspettatamente – proprio nel momento in cui i tassi di rifinanziamento erano pari a zero o addirittura scendevano al di sotto e la BCE iniettava centinaia di miliardi nelle ‘casse degli istituti di credito’, vale a dire in una fase di forte stimolo monetario. Adesso, bisognerà cominciare a pensare che, tra giugno del 2020 e marzo 2021, le banche dovranno pur restituire il denaro preso in prestito. Non è difficile immaginarne il contraccolpo.
Siamo, dunque, costretti a registrare la radicale trasformazione del classico core business delle nostre banche, dal momento che la funzione d’intermediazione cui siamo abituati sembra diventare accessoria; la qual cosa modifica, giocoforza, anche il comportamento degli investitori, i quali si lasciano attrarre facilmente dalle obbligazioni ad alto rischio (high yield). Banca d’Italia, però, ha stimato che i titoli illiquidi, oggi, superano addirittura i crediti in sofferenza, di cui, a poco a poco, le grandi banche vanno liberandosi. Vien fatto di chiedersi: che cosa potrebbe succedere, se la bolla d’improvviso scoppiasse?
A nostro avviso, attualmente, il rischio non è questo, almeno per le nostre ‘too big to fail’: insomma, questo è un periodo in cui i mercati sono sospinti pure dai dati negativi (… da leggere, in tal senso, Morya Longo su Il Sole 24 Ore) e inoltre si fa strada concretamente l’ipotesi di nuovi prestiti a lungo termine da parte della BCE; semmai, si avrà a che fare con una certa volatilità. In pratica, l’Eurotower ha già dato alle banche dell’Eurozona 2.290 miliardi di euro, 800 dei quali sono andati a quelle italiane. L’interpretazione deve cambiare forzosamente, se il focus si sposta sulle banche popolari, sulle BCC o sulle casse rurali e artigiane, cioè su quegli istituti a bassissima patrimonializzazione, la cui sorte il più delle volte è strettamente legata ad ambigue personalità politiche dei luoghi di esercizio, a gruppuscoli di consulenti e, in definitiva, alle piccole imprese del territorio. Secondo una ricerca del Dipartimento di Studi Aziendali e Giuridici dell’Università di Siena, ricerca pubblicata poco meno di un anno fa (11 aprile 2018), la maggior parte dei crediti deteriorati è pesantemente ‘collocata’ proprio nei bilanci di Popolari e BCC.
A ciò bisogna aggiungere che in Italia domina ancora la figura atavica del piccolo imprenditore, che molto di rado accetta la sfida digitale, a malapena sa leggere un bilancio, stenta a seguire l’evoluzione manageriale e la cui tenuta dipende radicalmente ed esclusivamente dai finanziamenti bancari. Non è un caso che, a fronte di un tasso di natalità annua delle srl pari al 7,7%, si rileva un tasso di mortalità equivalente all’8,2% (… ne ho parlato in un post precedente proprio su Econopoly). Pur accettando che molte di queste piccole aziende siano materialmente impreparate ad affrontare il mercato e i loro rappresentanti siano sprovveduti, non si può fare a meno di incrociare i dati ISTAT con le elaborazioni dell’Ufficio Studi della Confcommercio e documentare che, su 4.338.766 imprese, 4.335.448 sono piccole e medie. La maggior parte di queste, tra le altre cose, non ha più di dieci dipendenti.
Restando nell’ambito di un’equa ripartizione delle colpe, è doveroso ammettere che, oggi, le banche sono disfunzionali, inadeguate e causano scompensi socio-economici importanti, se il loro compito consiste ancora nel creare relazioni attraverso l’offerta di moneta. Se, diversamente, siamo pronti a riconfigurarne il ruolo e, nello stesso tempo, a proporre un ente economico di diritto privato che ne prenda il posto, allora MEF e, di rimando, Banca d’Italia si facciano avanti! Rebus sic stantibus, infatti, una bella porzione dello stock di capitale, una parte altrettanto significativa della produzione e, di conseguenza, una preoccupante quota del PIL saranno sprecate.
Dunque, la gente fa bene ad avere paura delle banche?
Di certo, non esiste una risposta esauriente e che ci permetta di far luce sulla complessità degli intrecci economici e finanziari del sistema. L’unica cosa che possiamo fare a beneficio del lettore poco avvezzo alla materia, è riprodurre – in parole – un prospettino di stato patrimoniale e dare qualche ragguaglio sulla leva finanziaria o, meglio, sul rapporto d’indebitamento perché, di fatto, questi due elementi rappresentano il cuore del meccanismo. Com’è noto, le banche acquisiscono risorse attraverso i depositi, gli azionisti e l’emissione di titoli obbligazionari. Sulla base degli ormai noti parametri di Basilea, una parte di queste risorse diventa riserva, mentre la parte restante è destinata all’impiego tramite prestiti e all’investimento in prodotti finanziari. In questi ultimi due casi, profilo di rischio e rendimento dovrebbero presiedere alla scelta. Il metodo secondo il quale una banca presta e investe il denaro ‘raccolto’, oltre a basarsi sul principio della riserva frazionaria, determina, a propria volta, la leva finanziaria.
Il rapporto tra l’attivo totale e il capitale esprime proprio la cosiddetta leverage ratio. In un’ipotesi estremamente semplificata, se 1000 è l’attivo totale e 50 il capitale (patrimonio netto), il rapporto di indebitamento è pari a 20, cioè 1000/50. Se le cose stanno così, proviamoci a immaginare cosa succede se l’attivo perde valore! Altro che prestiti alle imprese!
I profeti del nuovo mondo propongono il FinTech quale via da percorrere e, per carità, nessuno intende contrastarli per partito preso, ma, nonostante i successi della tecnofinanza, il 99% delle imprese italiane è ‘troppo piccolo’, anche a livello patrimoniale, per potere immaginare la rivoluzione.
In alternativa, ascoltiamo la proposta del professor Carnevale Maffè su capitalismo e mezzi di produzione:
Twitter @FscoMer