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I populisti e l’economia: perché inseguirli sul loro terreno è stato un errore
Oltre 70,5 milioni di cittadini europei (ovvero circa il 27% degli aventi diritto al voto, ponderando il voto in base alla grandezza e peso dei singoli paesi europei) hanno votato, nel corso delle ultime elezioni parlamentari dei loro rispetti paesi, partiti o movimenti politici “populisti”. Con questi imponenti numeri si apre l’edizione 2019 dell’Authoritarian Populism Index, report annuale pubblicato da TIMBRO, un influente think-tank pro mercato svedese, in collaborazione con EPICENTER, una rete di istituti classici liberali europei.
Lo studio, a cui anche il sottoscritto ha contribuito nel 2017, è oggi giunto alla sua quarta edizione e comprende l’analisi dei dati elettorali di 33 paesi europei (i 28 stati membri dell’Unione europea, più Islanda, Montenegro, Norvegia, Serbia e Svizzera) dal 1980 al gennaio 2019. In costante aggiornamento, l’Authoritarian Populism Index si pone come obiettivo principale quello di analizzare l’andamento storico di 267 partiti e movimenti politici europei “populisti”.
Grafico 1: La crescita dei partiti populisti (di destra e di sinistra), dal 1980 al 2018. Media del voto nei 33 paesi analizzati – Fonte TIMBRO/EPICENTER Authoritarian Populism Index
Secondo quanto emerge dal report, il “populismo” è sia uno stile politico, sia una vera e propria ideologia. L’elemento cardine che accomuna queste due componenti (stile politico e ideologia) è la visione di una realtà profondamente divisa tra un élite corrotta, sfruttatrice e spesso incapace ed un popolo unito, onesto e virtuoso. Nella maggior parte dei casi, l’idea di questo popolo unito, onesto e virtuoso finisce per fondersi con l’idea di nazione e con la storia di una nazione. Di conseguenza, tutti coloro che fanno parte di una nazione ma che, per una ragione o per un’altra, non rientrano nella narrativa storica di quella specifica nazione, si trasformano in un potenziale pericolo, in una minaccia da combattere
Oltre a questo, altri tratti comuni, molto spesso presenti nei 267 partiti analizzati nell’indice, sono i seguenti: 1) ostilità nei confronti della globalizzazione; 2) antipatia verso il cosmopolitismo; 3) forte opposizione alla migrazione delle persone; 4) forte sostegno verso politiche assistenzialiste e welfariste; 5) forte scetticismo verso il libero mercato, il capitalismo, il mondo finanziario e le grandi multinazionali; 6) forte sostegno sia verso uno stato paternalista, che sostiene una forte identità nazionale tradizionalista, sia verso un’identità europea in netto contrasto con il mondo extra europeo (mondo extra europeo che spesso include gli Stati Uniti tra i “nemici”, ma non la Russia).
Grafico 2: Percentuale di voto per i partiti populisti nel 2008 e nel 2018. Fonte TIMBRO/EPICENTER Authoritarian Populism Index
Secondo l’Authoritarian Populism Index, i cinque paesi europei in cui il sostegno ai partiti populisti è più forte sono l’Ungheria di Viktor Orbán (con il 68,9% dei voti, una quota di oltre 2 cittadini su 3), la Grecia di Tsipras (57% dei voti), l’Italia di Matteo Salvini e Luigi di Maio (56,7%), la Polonia di Mateusz Morawiecki (46,4%) e Cipro (34,6%). Al contrario, i cinque paesi in cui i cittadini hanno votato in modo minore forze cosiddette “populiste” sono Malta (0,5% dei voti), Regno Unito (2,7%), Irlanda (4,1%), Romania (4,2%) e Belgio (7,4%).
Osservando i dati, la recente rapida crescita dei partiti populisti (sia di destra, sia di sinistra) sembra intrecciarsi con la doppia crisi economica del 2008 e 2011. Stando alla vulgata classica, l’affermazione dei partiti populisti è legata in primis al fallimento delle politiche neo-liberiste (promosse principalmente negli anni ’80 e ’90), alla disuguaglianza economica, al capitalismo e al processo di globalizzazione. La crisi finanziaria del 2008 e la crisi del debito sovrano europeo del 2011 hanno poi accelerato questo fenomeno politico. Tutto ciò, si racconta, ha permesso al populismo di diventare, nel corso degli ultimi due decenni, la terza ideologia più votata in Europa.
Grafico 3: Percentuale di voto per le principali ideologie politiche presenti in Europa, confronto tra anno 1998 e 2018. Fonte TIMBRO/EPICENTER Authoritarian Populism Index
Questa visione dei fatti risulta essere distorta, oltre che intellettualmente sterile. Se si osservano più a fondo i trend degli ultimi due decenni, si può affermare con certezza che la crescita dei partiti populisti non sia dovuta al neo-liberismo, alla globalizzazione, al capitalismo o alla disuguaglianza. Al contrario, l’ascesa ed affermazione di figure come Matteo Salvini, Luigi di Maio, Jeremy Corbyn, Viktor Orbán, Jean-Luc Mélenchon, Marine Le Pen, Pablo Iglesias, Alexander Gauland, Alexis Tsipras e Jarosław Kaczyński è principalmente dovuta all’incapacità dei vari governi europei di promuovere una sempre maggiore libertà economica.
Se si analizzano le politiche economiche promosse a livello nazionale (e più recentemente anche a livello europeo) a partire dalla metà degli anni 2000 ad oggi si può notare una stagnazione totale della libertà economica. Molto spesso, infatti, i partiti social democratici e conservatori/cristiano-democratici hanno cercato di risolvere i problemi aumentando il ruolo dello stato, incrementando la tassazione generale, iper-regolamentando settori cardine dell’economia, attaccando costantemente lo stato di diritto. In molti casi, i partiti social democratici e conservatori/cristiano-democratici hanno tentato di confrontarsi con i partiti populisti finendo per proporre politiche molto simili. Basti pensare, ad esempio, alla tassa del 75% contro i “super-ricchi” di François Hollande; alle promesse sempre più assistenzialiste sia di Silvio Berlusconi (pensioni a mille euro e dentiere gratis a tutti), sia del Partito Democratico (bonus e sgravi fiscali vari fatti sempre in deficit); oppure ancora alla crescente opposizione nei confronti dei libero scambio.
Grafico 4: Libertà economica media nei 33 paesi analizzati dall’Authoritarian Populism Index. Dati dal 1970 al 2016 – Fonte Fraser Institute, Economic Freedom of the World, report 2018.
Come ricorda un’altra recente pubblicazione di TIMBRO, in cui si tenta statisticamente di analizzare il rapporto tra crescita dei partiti populisti e stagnazione della libertà economica, l’idea di sconfiggere i populisti proponendo di aumentare ulteriormente la presenza dello stato nell’economia, di aumentare le tasse ai ricchi, di ergere sempre maggiori barriere commerciali, di bloccare i flussi migratori e di preservare con qualsiasi mezzo la cultura e tradizione europea non farà altro che rafforzare i partiti populisti stessi.
Non è un caso che tra il 1980 ed i primi anni 2000, all’aumentare della libertà economica, il supporto verso forze politiche populiste (sia di destra, sia di sinistra) si è sempre attestato tra il 10% ed il 13%. Negli ultimi 15 anni, invece, politiche sempre più stataliste hanno accompagnato la crescita esponenziale dei partiti populisti europei, che hanno di fatto quasi raddoppiato il loro consenso.
Nonostante le prime proiezioni delle elezioni europee vedano social democratici, cristiano-democratici e liberal-democratici raggiungere oltre 390 seggi sui 705 disponibili, i partiti populisti sono ormai pronti a raccogliere, nuovamente, i frutti del loro lavoro. Oltre alle elezioni europee di fine maggio sarà interessante vedere come andrà a finire il voto parlamentare in Spagna, Belgio, Danimarca, Estonia, Portogallo, Grecia e Polonia. Il sospetto è che la crescita dei partiti populisti non abbia ancora raggiunto il suo picco massimo. Ad inizio 2019, i partiti populisti sono attualmente al governo in ben 11 stati europei. Chissà quali altri paesi seguiranno il recente trend ed eleggeranno parlamenti che daranno la nascita a governi guidati o supportati da forze populiste.
Il vero peccato, però, è che a livello nazionale, soprattutto in quei paesi come il nostro, che soffrono di mala politica, di crescita della produttività inesistente e di debito troppo alto non ci sia nessun partito pronto a sostenere idee radicali, liberali e pro mercato come, ad esempio, 1) l’eliminazione delle imposte sulle società (corporate tax); 2) l’apertura completa del commercio verso il resto del mondo e livello europeo (unilateral free trade); 3) l’ulteriore liberalizzazione (con eventuale processo di privatizzazione finale) di quei settori ancora troppo protetti dall’ingombrante mano statale; 4) l’eliminazione della politica agricola europea; 5) la riduzione di tutte quelle barriere che ancora non permettono a moltissimi professionisti e cittadini europei di lavorare liberamente all’interno dell’Unione; 6) politiche fiscali responsabili che mirino a ridurre spesa pubblica, deficit e debito.
Se è vero, come iniziano a sostenere molti analisti e politologi, che stiamo assistendo ad un nuovo riallineamento politico, simile a quello di inizio 1900, il futuro potrebbe essere dominato da nuovi schieramenti: populisti e globalisti. Per una lettura più approfondita suggerisco questo interessante articolo di Stephen Davies, Professore presso la University of Manchester e Head of Education presso l’Istitutite of Economic Affairs. Seguendo questo tipo di ragionamento, l’unico vero modo di battere i populisti (sia di destra, sia di sinistra) può avvenire solo ed esclusivamente attraverso una ripresa del pensiero liberale classico. Al contrario, la decisione di combattere il populismo promuovendo versioni soft dello stesso non porterà ad alcuni risultato.
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