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Fughe di capitali e racconti morali
Economics is not a morality play. Questa frase, spesso citata ma altrettanto e forse di più dimenticata, è alla base di un eccellente articolo di Joseph P. Joyce, professore di economia al Wellesley College e membro del Madeleine Korbel Albright Institute for Global Affairs, pubblicato nei giorni scorsi sul blog collettivo EconoMonitor riguardo alle fughe di capitali nei mercati emergenti.
Le fughe di capitali, chiamate “sudden stop” nei casi più gravi, accadono quando per vari motivi gli investitori stranieri decidono di rientrare dei soldi e degli investimenti fatti in un paese in modo massiccio e precipitoso. La colpa viene quindi spesso data al governo del paese coinvolto, imputato di non aver gestito bene la fase economica, di non aver tenuto sotto controllo l’inflazione e la bilancia dei pagamenti o, in maniera più semplicistica, di aver concesso ai propri cittadini “di aver vissuto sopra i propri mezzi”.
L’analisi delle fughe di capitali di questi anni e diversi recenti studi, citati da Joyce, mostrano però che questi racconti morali hanno invece poco a che fare con la realtà.
Una delle cause principali delle fughe di capitali è ovviamente la ridotta convenienza rispetto al rischio di investire in paesi emergenti quando gli Stati Uniti, o altri grosse economie, alzano i tassi. A quel punto molti investitori preferiscono dirottare i loro capitali su questi ultime e, per essere convinti a non farlo, provocano un rialzo di magnitudine dei tassi ancora più marcata nei paesi più a rischio. Un rialzo che rallenta la loro economia – a volte – la conseguenza di ampliare il problema invece di ridurlo.
Uno studio di Barry Eichengreen (UC-Berkeley) e Poonam Gupta (World Bank) mostra come in realtà le fughe di capitali più cospicue non sono avvenute nei Paesi con fondamentali più fragili ma, in proporzione, in quelli dove i mercati finanziari avevano una dimensione maggiore e quindi dove era più facile vendere i vari tipi di beni (obbligazioni, azioni, eccetera).
Coerentemente con questi risultati un altro studio di Manuel R. Agosin (University of Chile) e Franklin Huaita (Ministero dell’Economia e Finanze del Perù) ha evidenziato che questo fenomeno è molto più probabile nei Paesi che hanno visto negli anni precedenti un notevole afflusso di capitali esteri, sia per prestiti che per investimenti di portafoglio.
A un certo punto, come risulta da un ulteriore studio di Stijn Claessens (FMI) e Swait Ghosh (World Bank), essendo quest’ultimo fenomeno fortemente pro-ciclico e di dimensioni rilevanti rispetto all’economia del Paese che riceve, ecco che i capitali esteri concorrono a peggiorare il saldo delle partite correnti, attraverso la rivalutazione della moneta e l’aumento dell’inflazione, e incoraggiano livelli di indebitamento difficilmente sostenibili in caso di un rallentamento dell’economia o di uno shock esterno.
A tal proposito Claessens e Ghosh consigliano un set di misure preventive: fiscali e monetarie (restrittive), limiti al credito e controllo dei flussi di capitale, anche se ammettono di non essere ancora riusciti a determinare quale sia la migliore combinazione da adottare.
Un’altra economista, Hélène Rey (London Business School), ritiene che il ciclo finanziario globale può determinare un’eccessiva crescita dei prestiti esteri rispetto ai fondamentali economici di questi Paesi e ritiene quindi che l’unica soluzione possibile sia una gestione accurata dei flussi di capitali, indipendentemente dal regime di cambio adottato che, però, secondo Joshua Aizenman (University Southern California), Menzie Chinn (University Wisconsin-Madison) e Hiro Ito (University Portland) non è neutrale nella trasmissione delle politiche monetarie alle varie economie.
Questa disamina di studi che tendono a eliminare le cause “moralistiche” dalle crisi valutarie, pur essendo stati in gran parte basati sui casi di economie emergenti, risulta oggi molto interessante anche per la nostra Eurozona, dove le economie più arretrate, come la Grecia, hanno subito una sorte analoga.
Le terapie sembrano, purtroppo, ancora non risolutive. Crisi valutarie legate ai movimenti di capitali sono capitate e capitano in Paesi fra loro differenti, in diversi regimi valutari sia in cambio fisso o flessibile, e alla fine si comprende come senza un vero coordinamento globale dei flussi finanziari non sia possibile un contrasto efficace alla volatilità dei mercati, specie nei casi di crisi globale come il post-Lehman.
Purtroppo vedere le difficoltà, come succede per l’Eurozona, nel provare a dotarsi di istituzioni e politiche efficienti al riguardo non lascia ben sperare sul fatto che nel breve periodo si trovi la quadratura del cerchio a livello mondiale. Nel mentre, però, come giustamente dice il professor Joyce, lasciamo perdere i racconti morali: nei guai ci possono finire anche quelli che fino ad un minuto prima erano “bravi alunni”.
Twitter @AleGuerani