Italiani sempre a dieta, salutisti a parole. Ma non sanno cos’è il biologico

scritto da il 20 Febbraio 2019

Il salutismo c’è, domina i desideri alimentari degli italiani e, con forza spettrale e incontrastabile, li guida verso il rigore. In linea di massima, è così: ci si reca al supermercato, si riempie la borsa di tofu, seitan e prodotti a base di soia oppure si tenta ostinatamente la sortita del cosiddetto biologico e si torna a casa ritemprati e con la coscienza a posto, come si suol dire. La locuzione “in linea di massima”, tuttavia, non è da considerarsi casuale; essa, al contrario, dà il vero senso al rapporto che abbiamo instaurato col cibo negli ultimi dieci anni.

Un’immagine suggestiva e anche piuttosto pertinente potrebbe essere quella di colui o colei che, complice il buio della notte, dopo una giornata di rinunce, s’inchioda letteralmente davanti alla credenza a rimpinzarsi di nutella. Perché arriviamo a tanto? Di certo, non per simpatie personali. In buona sostanza, abbiamo studiato il Rapporto COOP 2018, i cui ricercatori hanno ricostruito in modo brillante e convincente il comportamento alimentare degli italiani, e, successivamente, abbiamo combinato i dati appresi col non più recente documento CENSIS-Coldiretti, in cui, grosso modo, si trattano gli stessi argomenti. Ne abbiamo tratto sia delle rivelazioni inaspettate sia delle conferme interessanti.

Sulla base dei ‘numeri’ e dei relativi rilevamenti, molti salutisti sembrerebbero ‘frustrati’; vivrebbero pertanto di conflitti insanabili e finirebbero col dichiarare l’opposto di quello che, nella realtà, fanno. Chi di noi sarebbe pronto a scommettere che la maggior parte di coloro che mostrano devozione alla Denominazione d’Origine Protetta (DOP), all’Indicazione Geografica Protetta (IGP) e al biologico vanno regolarmente al fast food, consumano scatolame, fanno incetta di surgelati e cibi precotti e ripiegano facilmente sui prodotti della Grande Distribuzione Organizzata (GDO)?

Far parlare i numeri dovrebbe essere sufficiente a riordinare le idee.

Il 27% di chi dichiara di scegliere il commercio equo e solidale, com’è già stato anticipato, frequenta i fast food, che di certo hanno ben poco di equo e solidale; lo stesso comportamento socio-economico si ravvisa nel 26,7% di coloro che acquistano frutta e verdura biologiche e nel 22,6% dei fedelissimi della DOP e dell’IGP. Tra questi ultimi, inoltre, il 77,7% acquista surgelati, il 67,6% scatolame e quasi il 30% cibi precotti. Tra i fan del biologico, invece, il 73% porta a casa surgelati, il 65% compra marchi della GDO e il 63% scatolame. È, a dir poco, sorprendente la percentuale di consumatori del commercio equo e solidale che, in somma contraddizione, si abbandona totalmente alla GDO: addirittura l’83,7%. Il 77% di loro, invece, riempie il carrello coi surgelati e il 66,5% con lo scatolame.

Il tema d’una probabile ‘frustrazione gastronomica’ torna a insinuarsi tra le abitudini alimentari degli italiani, se prendiamo in esame le motivazioni per le quali si sceglie di mangiare fuori casa. È bene dire anzitutto che l’80% degli italiani, almeno una volta la settimana, va al ristorante o in pizzeria et similia. Questo dato, di fatto, appare un po’ in contrasto, con quello riguardante il calo dei consumi alimentari dal 2010 al 2018, periodo in cui s’è segnato un -2,2% a prezzi concatenati, unitamente ad altri due importantissimi fattori: il ribasso salariale e le conseguenti accresciute difficoltà delle famiglie con basso reddito, le quali hanno fatto registrare un -4,8% in fatto di spesa alimentare.

In merito alla motivazioni per cui si sceglie di mangiare fuori, preferiamo riportare fedelmente le parole del documento CENSIS-Coldiretti:

“(…) Per l’esercizio di una libertà rispetto a quei canoni salutisti che ormai incombono come riferimenti importanti nel determinare la dieta delle persone. Infatti, nella scelta di cosa mangiare quando si pranza o si cena al ristorante o in un altro locale pubblico, la considerazione dei valori nutrizionali pesa in misura nettamente minore rispetto a quando si mangia in casa (…)”

Non si tratta dell’unica motivazione, per carità! D’altronde, è naturale che al ristorante si chieda almeno un pizzico di diversità di gusto, tuttavia la ricerca di “libertà da canoni salutisti che incombono” lascia intendere chiaramente il bisogno di evasione e sembra rinviare a un rapporto tra desiderio, cibo e salute che sicuramente non sta attraversando un momento di felicità. Le statistiche, in parole povere, denunciano, in tutti i campi, una certa contraddizione, una trama psicologica ed economica fatta di asprezze e incertezze.

Il rapporto COOP, con riferimento al primo semestre del 2018, è inequivocabile: frenano le vendite dei principali reparti salutistici; rispetto al 2017, il “carrello della salute” perde quasi il 3%, pur mantenendo il segno più, se commisurato al 2014. Al primo posto della top ten dei più venduti troviamo lo yogurt funzionale delattosato con un balzo impressionante: +42%. Al secondo posto si piazza la frutta mista secca senza guscio con un + 27%. A seguire, le uova di gallina allevata a terra col 26,2%. Ma la divergenza tra parole e fatti non finisce qui. Non a caso, il quarto e il quinto posto di questa classifica sono occupati da zuppe pronte e biscotti frollini integrali, che ottengono, rispettivamente, +21,4% e +14,8%. È vero che il 57% degli italiani continua a preferire il fresco, ma è altrettanto vero che il 26%, cioè la seconda quota di consumatori, punta al confezionato, mentre la più alta tra le percentuali di crescita nelle vendite si rileva proprio tra gelati e surgelati (+1,8%).

Immagine tratta dal Rapporto COOP 2018

Immagine tratta dal Rapporto COOP 2018

In considerazione della dinamica conflittuale più volte emersa nella nostra inchiesta, ci è parso necessario e naturale interpellare un esperto, uno scienziato che si è occupato a lungo della querelle tra “biologico e non”, il professore Pellegrino Conte, ordinario di Chimica Agraria all’Università degli Studi di Palermo, nonché membro della Commissione Abilitazione Scientifica Nazionale per il settore Chimica Agraria, Pedologia e Genetica Agraria e membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Buona Sanità. Al professore, anzitutto, abbiamo chiesto: che cos’è l’agricoltura biologica?

La risposta di Conte, senza dubbio, mette in crisi la comune interpretazione. Eccola, di seguito, in un ampio e ricco virgolettato!

Si può dire che non esiste agricoltura che non sia biologica. Tuttavia, come spesso accade, i termini scientifici vengono privati del loro significato ed utilizzati fuori contesto con un significato differente da quello originale. Oggi, secondo l’accezione comune, per “agricoltura biologica” s’intende un tipo di agricoltura “naturale”, sebbene, quando interrogati nel merito, pochi sappiano cosa significhi questo aggettivo. Il termine “naturale” ha assunto il significato di “sano”, “bello”, “giusto”. In altre parole, l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti naturali, è qualcosa che fa bene perché ci consente di consumare prodotti salutari e di preservare l’ambiente in cui viviamo. È davvero così? No. La natura di cui ci riempiamo la bocca non assomiglia neanche lontanamente a quella in cui vivevano i nostri nonni, quelli che parteciparono alla prima guerra mondiale, che potevano morire di tetano anche solo per un taglietto su un dito o di influenza per mancanza di vaccini adeguati (ricordiamo la famosa influenza spagnola che fece più morti dell’intero conflitto mondiale nella prima metà del novecento). E allora cosa vuol dire agricoltura biologica? Vuol dire semplicemente utilizzare delle pratiche agricole che abbiano una funzione conservativa, ovvero siano in grado di preservare le condizioni ambientali nelle quali noi siamo adatti a sopravvivere. Sotto questo aspetto, a meno che non si tratti di un pazzo, qualunque imprenditore agricolo desidera preservare le condizioni ambientali che gli consentono la migliore produttività possibile. La conseguenza è che tutte le tipologie di pratiche agricole sono di tipo conservativo ovvero sostenibile, laddove il termine “sostenibilità” si riferisce alla capacità di un sistema agricolo di mantenere la sua produttività resistendo, nello stesso tempo, alle sollecitazioni antropiche che tendono a cambiarne le caratteristiche.

Nell’ambito di questo frenetico ping pong di attitudini teoriche e profili reali, un terzo degli italiani è perennemente a dieta: in prevalenza, anziani e laureati. La curiosità e le bizzarrie, anche in questo caso, non mancano perché il 62% è persuaso di avere una certa conoscenza dei valori nutrizionali, delle calorie e dei grassi degli alimenti che consuma. Se poi si indaga sul modo in cui si formano conoscenze e competenze, allora è il caso di preoccuparsi: il 51,1% dei ‘conoscitori’ s’è acculturato sul web, mentre il 25,5% apprende le notizie essenziali tramite gli amici, i quali, a propria volta, avrebbero studiato su internet. In pratica, i veri esperti, i nutrizionisti e, in generale, quelle categorie autenticamente deputate a dare le giuste indicazioni vengono quasi del tutto ignorati.

Non è da escludersi, a questo punto, che conflitti e contraddizioni siano l’inevitabile conseguenza della confusione collettiva di cui è vittima il consumatore medio. A tal proposito, nel rapporto CENSIS-Coldiretti, si parla di “politeismo alimentare”:

“A prevalere è un politeismo fatto di combinazioni soggettive di luoghi di acquisto dei prodotti e di relative diete alimentari; e la crisi recente non ha fatto che rinforzare questa dinamica dei comportamenti sociali; così il rapporto con il cibo è una dimensione sempre più soggettiva, espressione dell’io che decide e che, a partire dalle proprie preferenze, abitudini e prassi e aspettative, nonché dalle risorse di cui dispone, definisce il contenuto del carrello e della tavola.”

Anche in fatto di crisi economica, l’indagine risente di oscillazioni amplissime. Se è vero infatti che il settore in questione, negli ultimi dieci anni, ha subito un significativo rallentamento, finendo col perdere addirittura il 9,8%, è altrettanto vero che l’Italia si conferma leader in Europa e nel mondo proprio nell’alimentare, imponendosi, con una spesa annua pro capite pari a € 2.428,00, davanti a Francia (€ 2.353,00), Germania (€ 2.019,00) e Spagna (€ 1.817,00). E inoltre, a dispetto d’una crisi invasiva e paralizzante, stupisce che nella spesa alimentare siano entrati prepotentemente il lusso con un +9,3% e il cibo precotto con un +5,7%.

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Immagine tratta dal Rapporto COOP 2018

In sintesi, gli italiani punterebbero alla qualità, pur avendo ridotto la propria volontà d’acquisto, ma non avrebbero grande consapevolezza del prodotto. Tra le tante risultanze delle due ricerche citate fin dall’apertura di questo lavoro, per esempio, emerge, che la maggior parte dei consumatori mangerebbe più frutta e verdura, se frutta e verdura costassero meno. Stiamo parlando di più del 40% del campione. Nello stesso tempo, nonostante il dato statistico, viene dichiarata con fermezza la voglia di prodotti ‘locali’, per così dire. L’uso della preposizione avversativa “nonostante” sia tenuto in debita considerazione! Se, infatti, l’avanzata della GDO s’è fatta incontrastabile, non si spiega in che modo ci si sia rivolti direttamente al produttore o si sia dato più spazio alla produzione territoriale.

A proposito di relazione tra scelte, qualità ed economia, è opportuno chiamare in causa, ancora una volta, il professor Conte, lasciando che concluda lui il nostro documento sulle abitudini alimentari degli italiani.

Oggi per agricoltura biologica si intende solo un tipo di attività che è soggetta a delle regole ben precise (qui). Sebbene la finalità sia quella di preservare le condizioni ambientali in cui noi, come esseri umani, siamo adatti a sopravvivere, bisogna evidenziare che la bassa produttività di questa attività normata ha due conseguenze. Da un lato, per conservare il ritorno economico, i prodotti cosiddetti biologici sono più costosi di un qualsiasi altro prodotto dell’agricoltura conservativa tradizionale (intensiva); la qual cosa significa che l’agricoltura biologica, propriamente detta nei termini normati, è un’attività di nicchia i cui prodotti possono essere acquistati da quella parte di società che ha una maggiore disponibilità economica. Dall’altro, la minore resa quantitativa implica che la quantità di suolo che deve essere utilizzata per assicurare cibo per una popolazione sempre maggiore deve essere più elevata rispetto ad altre forme di agricoltura, ugualmente conservative, ma più intensive. Ovviamente, se il suolo viene utilizzato per la produzione alimentare, non può essere usato per la logistica e le infrastrutture con tutte le conseguenze che ne derivano. Cosa si ricava da tutto questo? Semplicemente che la sostenibilità ambientale non può essere affidata solo alla cosiddetta agricoltura biologica, ovvero quella normata, ma… all’agricoltura conservativa in tutte le sue forme.