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Che cos’è il Pil? Proviamo a capire, per non dare i numeri
“Abbiamo perduto un punto di PIL”. “Abbiamo guadagnato un punto di PIL”. Il più delle volte, si è convinti di fare informazione così, cioè per il tramite di annunci simili a quelli virgolettati, oltre i quali ci si limita a riportare dati, unità di misura e grafici, ma, in realtà, non si fa altro che creare aree di mistero e smarrimento, legami d’assenza tra chi scrive e chi legge. Viene a configurarsi, nel tempo, una sorta di dialettica paradossale tra il creatore della notizia e il fruitore, una sorta di dialettica di rottura o, più correttamente, una dialettica senza dialogo.
La notizia, a propria volta, finisce coll’essere una vera e propria figura retorica, un rinvio a qualcos’altro. Le colpe sono equamente distribuite. Da una parte, i giornalisti sono costantemente accusati di ‘manipolazione’, dall’altra, tuttavia, la maggior parte degli accusatori resta ben distante dall’approfondimento critico. In altri termini: allo stesso modo in cui dire “il debito italiano è pari a oltre il 130% del PIL” è un’indicazione socio-economica e nulla di più, così parlare di deficit al 2,4% equivale a dare i numeri. Non c’è da meravigliarsi che, a un certo punto, sui social network si diffondano i claim degli economisti dell’ultima ora, i quali, per esempio, ora paragonano la BCE alla Banca del Giappone, mostrando di non conoscere le differenze, ora pretendono, indirettamente e non rendendosi conto della gravità di certe affermazioni, che la BCE risolva i problemi di contabilità del nostro paese.
Certi numeri, che assumono molto di frequente un valore statico, nella realtà, appartengono a veri e propri flussi per conoscere i quali occorre consultare il Bilancio dello Stato, la Legge di Assestamento e, da ultimo, entrare nel merito tecnico della Manovra di Bilancio. Il Bilancio dello Stato, infatti, contiene riferimenti che, forse, possono permetterci di far luce dove troppe ombre si addensano: consultando la sezione I, si riscontra che alla voce “entrate – Innovazioni legislative” corrisponde il valore di –11,8 mld, mentre la voce speculare, cioè quella delle “spese” della stessa sezione, fa registrare 4,3 miliardi. Già questi dati di ragioneria elementare dovrebbero indurre i più agitati populisti alla pausa di riflessione. Proseguendo oltre ed entrando nella sezione II, quella di “rifinanziamenti, definanziamenti e riprogrammazione”, rileviamo –1,3 miliardi. Bisogna notare che il DL 148/2017 collegato alla manovra ha prodotto entrate per 1,2 miliardi e spese per 1,2 mld. Di conseguenza, si ottiene un saldo complessivo della manovra di -14,8 miliardi. Se si aggiunge il “saldo a legislazione vigente”, il netto da finanziare arriva a – 45 miliardi. Restando nell’ambito delle “previsioni di competenza” e studiando le integrazioni proiettive del 2019 e del 2020, giungiamo, rispettivamente, a -265 miliardi e -246 miliardi. Tutto questo ci fa capire – per dirla in soldoni – che lo Stato non ha alcun margine.
Dunque, non basta dire che il PIL è pari a qualcosa virgola qualcos’altro, come non è affatto utile dire che si tratta di una stima dell’insieme di beni e servizi finali prodotti in un anno. Sarebbe fuorviante farlo perché genererebbe solo numeri e definizioni e non una valutazione dei flussi. Il PIL infatti è, anzitutto, un flusso di moneta, una misura del reddito e della spesa. Agli addetti ai lavori questo sforzo di semplificazione o alleggerimento potrebbe apparire inadeguato, tuttavia, a nostro avviso, è essenziale offrire al grande pubblico un contributo di spiegazione e chiarimento, un che di didattico esplicativo con cui si possa accedere alle voci di bilancio riportate sopra e capire quale sia il loro legame col Prodotto Interno Lordo. Il primo tra gli esempi che si possano fare proviene dalla più parte dei manuali di macroeconomia. Se noi spendiamo 5 euro per acquistare del pane, generiamo un reddito per il panificatore, ma, com’è ovvio, questo reddito è preceduto da una spesa. Bisogna partire da questo scambio per capire la vera natura dinamica del PIL. Da ciò ricaviamo una prima elementare formula di calcolo, prezzo per quantità di prodotto, e, nello stesso tempo, coinvolgiamo la variabile della capacità di spesa del consumatore: (prezzo di X per quantità di X) più (prezzo di Y per quantità di Y) più (prezzo di N per quantità di N) e così via.
Una catastrofica sciocchezza che si legge su molti blog con riferimento al PIL riguarda la valutazione dei beni intermedi e del valore aggiunto. In pratica, alcune maschere dell’economia di sottobosco ritengono che il PIL non sia attendibile perché non tiene conto del valore intermedio. Quest’affermazione è assimilabile a una ‘bufala’ per portata disinformativa. Anzitutto, che cos’è il valore aggiunto? Nell’esempio del pane, il valore del pane meno quello della farina – semplificando il passaggio. Di conseguenza, ipotizzando che il panificatore abbia speso 2 euro per acquistare la farina, il suo valore aggiunto è di 3 euro. Se noi consideriamo il prezzo di 5 euro come quota-PIL, per così dire, abbiamo già incluso il valore intermedio e sarebbe un grave errore contabilizzare per la seconda volta il valore delle materie prime.
Un indicatore di cui si parla molto poco nel dibattito sul PIL è quello del valore d’imputazione, una stima ipotetica su alcuni beni e servizi che non sono perfettamente classificati e che, di conseguenza, vengono affidati alle cosiddette imputazioni. Un altro esempio a beneficio della concretezza delle informazioni è quello degli immobili a uso abitativo. Quand’anche essi siano sfitti o abitati dal proprietario, l’istituto di statistica non fa altro che calcolare il valore di una pigione ipotetica incassata dal proprietario e pagata dal potenziale, oltre che immaginario, affittuario. Non manca da questa categoria la stima del valore del servizio reso da un vigile del fuoco o da un carabiniere, i quali vengono inclusi nella categoria del “come se”… come se, per esempio, il servizio fosse privato e avesse un costo. Dal 2014, nell’area delle imputazioni si sono inscritti anche spesa e reddito derivanti dall’economia sommersa; la qual cosa non ha mancato di suscitare polemiche per via dell’approssimazione con cui devono essere trattati, giocoforza, i principali dati.
È corretto dire, comunque, che finora abbiamo parlato di PIL nominale, cioè di un valore monetario in relazione ai prezzi correnti, ed è doveroso precisare che esso può risultare inadeguato, giacché prezzi e quantità sono variabili non regolate da un rapporto di proporzionalità diretta. L’aumento sproporzionato dei prezzi non porta con sé l’aumento della produzione o della capacità di acquisto delle persone. Ne consegue che un calcolo ‘più realistico’ è quello effettuato attraverso la designazione dell’anno base: il PIL reale. In sostanza, se scegliamo il 2015 come anno base dei prezzi, nella relazione matematica di calcolo del 2018, varia solo la quantità del prodotto: (prezzo di X 2015 per quantità di X 2018) più (prezzo di Y 2015 per quantità di Y 2018) più (prezzo di N 2015 per quantità di N 2018). Il rapporto tra il PIL nominale e il PIL reale ci dà poi il trend dei prezzi, che nel linguaggio tecnico prende il nome di deflatore del PIL. In quanto al trend dei prezzi, disciplina e correttezza impongono che si volga l’attenzione anche all’IPC (Indicatore dei Prezzi al Consumo), elaborato sulla base di un paniere di beni e servizi e ricavato dalla seguente formula: quantità per prezzo anno corrente su quantità per prezzo dell’anno base.
La formula cui si ricorre per rappresentare in sintesi simbolico-algebrica il PIL è la seguente: Y = C + I + G + NX, dove C sta per consumi, I per investimenti, G per spesa, NX per esportazioni nette e meglio nota per alcuni come identità keynesiana. Solo la comprensione dell’insieme di queste variabili può condurci a un riesame efficace del bilancio dello Stato. Un esempio decisivo ci è dato dagli investimenti, che molto spesso sono documentati senza uno studio parallelo del tasso d’interessi, laddove è fondamentale istruire la relazione tra le due componenti perché, all’aumentare degli interessi e dello spread applicato dalle banche, diminuisce verosimilmente l’acquisto di beni strumentali da parte delle imprese e di beni non primari da parte delle famiglie. Allo stesso modo, è probabile che si riduca anche la propensione marginale ai consumi, facendo dunque scendere anche il valore degli stessi. A questo punto, è naturale che la gestione della spesa pubblica (G) condizioni in modo significativo consumi e investimenti. Non a caso, se un governo aumenta la spesa, di conseguenza aumenta la domanda aggregata, cioè la spesa in consumi e investimenti di famiglie e imprese.
Adesso, si può fare qualche passo indietro e tornare ai numeri del bilancio dello Stato. Qualcuno, legittimamente, infatti, potrebbe chiedersi: “Perché i valori sono tutti negativi, a dispetto di un elevato fattore di spesa-deficit?”. Oppure: “Perché aumenta la disoccupazione, nonostante la manovra del popolo?”. La risposta a queste domande è addirittura banale: se il governo, pur ‘manovrando in deficit’, costruisse ospedali, autostrade e, più in generale, com’è ovvio, opere pubbliche, allora contribuirebbe alla formazione di capitale lordo attraverso un investimento fisso, ma se, al contrario, si limita a misure assistenziali improduttive, non fa altro che creare un vero e proprio vuoto di politica economica. Ed è chiaro che qui noi stiamo enfatizzando e semplificando i passaggi. L’assenza di un autentico piano d’investimenti può addirittura diventare un rischio mastodontico perché potrebbe far crescere la domanda interna a danno del saldo della bilancia commerciale e delle esportazioni nette.
Esito del ragionamento: rebus sic stantibus, a meno di correzioni, il PIL si ridurrà.
Ai più esigenti diciamo di sapere che la trattazione è incompleta e sicuramente inidonea a rappresentare un modulo di macroeconomia, ma li preghiamo di tolleranza e comprensione, in considerazione dello spazio di cui si può usufruire per la realizzazione di un articolo.
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