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Gli azzardi finanziari in Asia e Africa minacciano la grandeur della Cina
Quando si parla dei sogni di grandezza della Cina, bisogna ricordare una circostanza messa in luce dal Ocse nel suo ultimo Business and financial outlook: la Cina è un paese che sta sperimentando notevoli complicazioni finanziarie a causa del suo crescente indebitamento interno e della sua altrettanto notevole esposizione esterna verso molti di quei paesi che compongono la Bri, ossia la Belt and road initiative. Non è detto che queste difficoltà provocheranno una crisi, ma è bene ricordarle perché fanno parte del quadro che compone l’economia globale. E quindi ci riguardano assai più di quanto si possa pensare.
Cominciamo col dare uno sguardo all’interno della Cina. Il sistema bancario cinese si compone principalmente di quattro grandi banche commerciali che vengono classificate come sistemicamente rilevanti (G-SIBs): Bank of China (BOC); Industrial and Commercial Bank of China (ICBC); China Construction Bank (CCB), Agricultural Bank of China (ABOC). A queste si aggiungono tre banche di sviluppo, quindi “politiche”. La China Development Bank (CDB), che si occupa principalmente di infrastrutture, politiche abitative e delle grande aziende pubbliche (SOEs, State owned enterprises), la Agricultural Development Bank of China (ADBC) e la China Export-Import Bank (ExIm Bank) for international trade. A questi colossi si aggiungono parecchie banche di taglia minore, tutte controllate dallo stato, e un piccolo settore di joint stock bank, quindi in forma di società per azioni. Questo grafico ci consente di avere un’idea delle dimensioni aggregate di questo settore bancario.
Quindi complessivamente parliamo di quasi 40 trilioni circa di asset equivalenti al 310% del pil cinese. Queste cifre non comprendono però né le esposizioni fuori bilancio che alimentano il cosiddetto Shadow Banking, né il complesso sistema dei wealth management products (WMPs) che si stima origini un altro 63% del pil di esposizione bancaria. A tutto ciò si aggiunge anche il Dai Cha, un mercato bancario parallelo di repo, attività di brokeraggio e di risparmio gestito. Il grafico consente anche di osservare la notevole espansione del credito decisa dal governo cinese a partire dal 2009 per evitare le conseguenze della crisi del 2008. Questa operazione è stata in parte supportata dalle quattro grandi banche, che hanno aumentato i loro bilanci dal 98% del pil (anno 2007) al 109% (anno 2010). Ma il grosso di questo aumento del credito lo hanno garantito le più piccole banche statali che hanno finanziato parecchie attività a livello regionale. Queste banche hanno visto crescere i loro bilanci dall’82% del pil nel 2008 al 103% nel 2010. Questa crescita accelerata del credito ha spinto il governo a frenare l’espansione agendo sugli strumenti di repressione finanziaria di cui Pechino dispone ampiamente. Ma il risultato è stato che l’espansione è proseguita fuori dai bilanci ufficiali delle banche, alimentando proprio il circuito delle banche ombra e i suoi vari derivati. Col risultato che a fine 2017 i bilanci della banche pesavano il 310% del pil, ma aggiungendo i vari settori paralleli si arriva al 387%.
Gli animal spirit che alimentano l’espansione creditizia non sono facili da fermare. Neanche se sei la Cina. Le banche e le non banche infatti hanno alimentato un notevole mercato interbancario che consente loro di far girare i soldi senza troppe preoccupazioni regolamentari. Ciò spiega anche la notevole crescita del Dai Chi, che ha la curiosa caratteristica di essere un mercato repo informale, ossia non basato su contratti tutelati dalla legge. Nel Dai Chi un bond viene venduto per contanti a una certa scadenza a un prezzo prefissato. Ma se al momento della regolazione il prezzo del titolo scende sotto quello pattuito il venditore può teoricamente rifiutare di onorare l’impegno, visto che non c’è un obbligo di legge. Questa specie di far west, secondo alcune stime, peserebbe il doppio dell’interbancario normale, circa 15 trilioni di yuan. “La Cina sta provando con procedure macroprudenziali a gestire questi processi, ma sta sperimentando difficoltà”, dice l’Ocse.
Queste tensioni interne vanno ad aggiungersi a un contesto di grande espansione creditizia anche verso l’esterno, e segnatamente per finanziare i numerosissimi progetti della BRI cinese. Un piano ambiziosissimo che mostra già i primi frutti, visto che la Cina adesso colloca oltre un terzo dei suoi prodotti nei paesi coinvolti nell’iniziativa. Paesi che peraltro hanno un peso crescente nell’economia globale.
La Cina quindi sta investendo sull’economia emergente, in senso letterale. Ma tutto ciò si regge sul presupposto del potere economico e finanziario cinese, ossia sulla capacità di dar seguito alle promesse di aiuti sui quali gli stati coinvolti nella Bri contano. E quindi sull’ipotesi che l’economia cinese regga l’urto del futuro. Le stime Ocse quotano circa un trilione fino al 2027 l’impegno finanziario della Cina nella Bri.
Questo invece è l’elenco delle economie coinvolte nel processo, che è anche un’ottima mappatura delle relazioni politiche che la Cina sta pazientemente realizzando dal 2013, anno di presentazione della Bri.
SI tratta di una visione, quella della BRI, che darà moltissimo lavoro agli ingegneri, ma alla fine dei conti i veri protagonisti sono i banchieri. Una delle banche più esposte ai sogni di grandezza cinesi è la China Development Bank, che a fine 2015 aveva già investito 110 miliardi di dollari sulla Bri finanziando circa 400 progetti in 37 paesi. Segue la China Exim Bank, che fornisce varie tipologie di operazioni, dai crediti alle esportazioni al finanziamento delle infrastrutture, che a fine 2015 aveva supportato un migliaio di progetti in 49 paesi della Bri per un valore di 80 miliardi. Altri grandi “elemosinieri” della Bri sono l’Industrial and Commercial Bank of China, che ha già totalizzato 159 miliardi di esposizione per 212 progetti, e poi la China Export and credit insurance corporation, che a dicembre 2015 aveva già sottoscritto progetti per oltre 570 miliardi di valore nei paesi della Bri. Segue la Bank of China con circa 100 miliardi di prestiti a fine 2017 e chiude la classifica il Silk road fund, che investe per lo più in progetti infrastrutturali a vocazione energetica, con 40 miliardi di esposizione.
Questa montagna di denaro è stata investita in paesi che in moltissimi casi hanno economie fragili. Secondo la ricognizione fatta dall’Ocse “ci sono 17 economie con investment grade o superiore a BBB-. Ci sono 29 economie classificate sotto investment grade e 14 senza alcun rating. Gli investimenti in progetti di infrastrutture per l’edilizia in queste ultime economie costituiscono oltre la metà del totale cumulativo dal 2005: cioè 253,8 miliardi di USD rispetto a un totale cumulativo investimento di 420 miliardi di dollari dal 2005. Resta da vedere quanto siano fattibili questi progetti nelle economie sotto-investment-grade”.
I dubbi Ocse vanno considerati con attenzione. Le cronache recenti hanno riportato dei dissapori intercorsi fra Cina e Pakistan proprio sulla Bri, che si sono arricchite con la notizia che anche la Malaysia aveva deciso di tirarsi indietro relativamente ad alcuni progetti infrastrutturali finanziati dalla Cina. E molte cronache hanno riportato delle difficoltà in cui sono incorsi alcuni paesi africani indebitati con i cinesi. In sostanza, la Cina sta cumulando rischi finanziari esterni a quelli interni e ciò rischia di creare il perfetto effetto slavina.
Il grafico sopra mostra il valore cumulativo nozionale degli asset sui quali la Cina ha investito sin dal 2005 definiti come “troubled”, quindi in qualche modo problematici. Come si può osservare, quelli allocati nei paesi Bri superano i 100 miliardi, molti dei quali in paesi politicamente complessi. Solo in Iran, adesso nuovamente alle prese con le sanzioni Usa, le imprese statali cinesi partecipano a progetti energetici problematici per circa 25 miliardi. E altri 12 miliardi di investimenti complicati sono allocati nell’immobiliare e nelle ferrovie libiche. Altri 4,6 miliardi sono impegnati in Pakistan e altri 3,8 in Siria.
Alla lunga la somma del rischio finanziario esterno e del rischio interno rischia di diventare insostenibile per la Cina. La finanza, che ha animato la Bri, rischia di essere il suo tallone d’Achille. E questo, in un contesto internazionale di crescenti tensioni commerciali e di normalizzazione monetaria, è un rischio che molti analisti stanno già iniziando a prezzare.
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